Concetti Chiave
- Il contenuto esplora la figura di Giacomo Leopardi, evidenziando la sua formazione culturale e le influenze familiari, in particolare la figura della madre Adelaide Antici, che ha lasciato un profondo impatto su di lui.
- Il testo analizza le diverse "conversioni" di Leopardi, tra cui quella del 1816, che segna un passaggio dall'erudizione alla consapevolezza dei valori artistici, e quella del 1819, che introduce il concetto di "bello-vero" e il pessimismo storico.
- Viene presentata la teoria del piacere di Leopardi, che suggerisce che la felicità è impossibile da raggiungere poiché i desideri umani sono illimitati e non possono essere completamente soddisfatti.
- Il "materialismo integrale" di Leopardi è discusso come una visione della sofferenza fisica e psicologica degli esseri viventi, descrivendo l'universo come un sistema malvagio in cui l'infelicità è inevitabile.
- La "Ginestra" è vista come il testamento spirituale di Leopardi, che invita a creare una "catena sociale" tra gli esseri umani per affrontare la precarietà della vita, suggerendo una solidarietà contro le avversità inevitabili della natura.

Indice
- Giacomo Leopardi
- La madre
- L’uccello
- 1816 Prima conversione: erudizione, bello
- La prima conversione (Zibaldone, 143/144)
- La lettera a Pietro Giordani
- La lettera al padre
- 1819: Seconda conversione: bello-vero
- La lettera a Carlo (dicembre 1822)
- Teoria del piacere (Zibaldone, 646)
- La noia (Zibaldone, 3713)
- Tratta il pessimismo antico nel Tristano
- La Natura nella Palinodia al Marchese Gino Capponi
- Materialismo integrale (Zibaldone, 4288-89)
- Vita e esistenza (Zibaldone, 4128-29)
- Il giardino (Zibaldone, 4175-77)
- Lettera a Luigi de Sinner, 1832
- Paralipomeni alla Batromiomachia
- Ginestra
Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798.
È il primo figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. Le sprovvedute speculazioni finanziarie di Monaldo hanno condotto la famiglia al limite del fallimento, così che dal 1803 la gestione del patrimonio passa nelle mani della moglie. Solida e arcigna, Adelaide riuscirà a restaurare condizioni economiche dignitose a prezzo di umilianti sacrifici imposti al marito e ai figli. La durezza distante della madre incide su Giacomo profondamente, ed egli ne fornirà un ritratto inquietante.
per ulteriori approfondimenti sulla figura di Giacomo Leopardi vedi anche qua
La madre
Questo brano, tratto dallo Zibaldone, porta la data del 25 novembre 1820. Disegna l'impressionante ritratto di una donna in cui non è difficile riconoscere i tratti di Adelaide Antici, madre di Leopardi.
Quanto anche la religione cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. lo ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perché n'ebbe molti), e non lasciava passare anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far ben loro conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanotti estinti nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico cc. non la toccavano in verun modo. Perché diceva che non importa l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei principio di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più misericordiosa cc. Ma la ragione è così barbara che dovunque ella occupa il primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro.
La formazione culturale di Giacomo è affidata a precettori casalinghi, secondo l’uso nobiliare del tempo. Si tratta di ecclesiastici che condividono il gretto classicismo di Monaldo e soddisfano le esigenze religiose della bigotta Adelaide. Già a dieci anni Giacomo è in grado di scrivere composizioni in latino, oltre che in italiano, nonché piccole trattazioni filosofiche. Più importante dell’insegnamento dei precettori è però, fin dall’infanzia, il rapporto diretto di Giacomo con la ricchissima biblioteca paterna (circa quindicimila volumi). Oltre che un gran numero di testi di erudizione e di cultura classica e religiosa, questa conserva una buona rappresentanza di testi letterari, italiani e stranieri, anche recenti, nonché molti dei principali autori dell’Illuminismo francese.
Tra il 1809 e il 1816 si svolgono quei «sette anni di studio matto e disperatissimo» che consentiranno alla cultura di Giacomo una vastità e una sicurezza straordinarie, a prezzo però di irreparabili danni alla struttura fisica. Dedicandosi giorno e notte allo studio e alla scrittura, Giacomo si impossessa delle lingue classiche e di un’erudizione solidissima, non escluso l’ambito scientifico. Nascono le prime prove poetiche, due tragedie e altri testi creativi, nonché numerose esercitazioni nel campo dell’erudizione, della filosofia, della morale, della logica. Giacomo si fa la mano traducendo incessantemente i classici: Omero, Esiodo, gli alessandrini, Orazio, Virgilio. Del 1813 è una Storia dell’astronomia; del 1815 il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. L’impegno più continuo è dedicato però alla filologia, per la quale Giacomo si mostra assai dotato.
L’uccello
Poesia autoritratto scritta nel 1810.
Entro dipinta gabbia
Fra l’ozio ed il diletto,
Educavasi un tenero,
Amabile augelletto.
A lui dentro i tersissimi
Bicchieri s’infondea,
Fresc’acqua, e il biondo miglio
Pronto a sue voglie avea.
Pur de la gabbia l’uscio
Avendo un giorno aperto,
Spiegò fuor d’essa un languido
Volo non bene esperto.
Ma quando a lui s’offersero
Gli arbori verdeggianti,
E i prati erbosi, e i limpidi
Ruscelli, tremolanti;
De l’abbondanza immemore,
E de l’usato albergo,
L’ali scuotendo volsegli
Lieto, e giocondo il tergo.
Di libertà l’amore
Regna in un giovin cuore
1816 Prima conversione: erudizione, bello
Da uno studio formale e retorico dei classici alla comprensione del loro profondo valore poetico.
Intorno al 1816 si colloca quella che lo stesso Leopardi definì “conversione letteraria”: all’amore per l’erudizione si sostituisce cioè una più accesa consapevolezza dei valori artistici. In realtà entra in crisi l’intero equilibrio esistenziale del giovane Giacomo, che inizia a percepire la ristrettezza culturale e l’insufficienza affettiva dell’asfittico ambiente familiare e recanatese. I tentativi poetici acquistano un significato più intenso, e nascono i primi risultati di rilievo: l’Idillio, Le rimembranze e la cantica L’appressamento alla morte (un frammento della quale sarà raccolto nei Canti).
La prima conversione (Zibaldone, 143/144)
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m'impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell'ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali, ec... come ora ch'io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. (1. Luglio 1820.). Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.
Il 1817 è un anno per più versi decisivo nella giovinezza leopardiana. Nel febbraio prende il via la corrispondenza con l’illustre letterato piacentino Pietro Giordani, che gli risponderà incoraggiandolo con generosità; nell’estate fissa le prime osservazioni in quel complesso diario del pensiero che formerà lo Zibaldone; nel dicembre si innamora per la prima volta (oggetto dell’amore è la cugina Gertrude Cassi Lazzari, ospite presso i Leopardi).
Dall’esperienza sentimentale nascono un’elegia (che verrà accolta nei Canti con il titolo Il primo amore) e il cosiddetto Diario del primo amore, nel quale Giacomo narra e analizza con stupefatta finezza psicologica gli effetti sul suo animo di quella esperienza. L’amicizia con Giordani e la comprensione ricevuta dall’illustre corrispondente rafforzano il desiderio di affermazione individuale già fortissimo in Giacomo e favoriscono la rottura con le posizioni cattoliche e reazionarie della famiglia e del padre: la formazione illuministica e classicistica di Leopardi inizia a organizzarsi in un sistema teorico originale e coerente. Ne nascono, nel 1818, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica nonché le prime due canzoni civili (All’Italia e Sopra il monumento di Dante), che vengono pubblicate a Roma.
La lettera a Pietro Giordani
Questa lettera del 30 aprile 1817 mette in evidenza la devozione appassionata con cui Leopardi diciottenne si rivolge all'autorevole amico e traccia un quadro impietoso della vita recanatese.
(…)Ella mi raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore e come cosa che le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare il cuor mie perché vedesse gli affetti che v'ha destati la lettura delle sue parole. E per rispondere come posso a tanta amorevolezza, dirolle che veramente la mia complessione non è debole ma debolissima, e non istarò a negarle che ella si sia un po' risentita delle fatiche che le ho fatto portare per sei anni. Ora però le ho moderate assaissimo; non istudio più di sei ore il giorno, spessissimo meno, non iscrivo quasi niente, fo la mia lettura regolata dei Classici delle tre lingue in volumi di piccola forma, che si portano in mano agevolmente, sì che studio quasi sempre all'uso de' Peripatetici, e, quod maximum dictu est, sopporto spesso per molte e molte ore l'orribile supplizio di stare colle mani alla cintola. 0 chi avrebbe mai pensato che il Giordani dovesse pigliar le difese di Recanati? Ma che crede Ella mai? Che la Marca e 'l mezzogiorno dello Stato Romano sia come la Romagna e il settentrione d'Italia? Costì il nome di letteratura si sente spessissimo: costì giornali accademie conversazioni librai in grandissimo numero. Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini dell' Alfieri del Monti, e del Tasso, e dell'Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c'è uno che si curi d'essere qualche cosa, non c'è uno a cui il nome d'ignorante paia strano. Se lo danno da loro sinceramente e sanno di dire il vero. Crede Ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato? Come la gemma nel letamaio. Si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l'impresa di procacciarsi tutto è disperata. Ma quel non avere un letterato con cui trattenersi, quel serbarsi tutti i pensieri per sé, quel non potere sventolare e dibattere le proprie opinioni, far pompa innocente de' propri studi, chiedere aiuto e consiglio, pigliar coraggio in tante ore e giorni di sfinimento e svogliatezza, le par che sia un bel sollazzo? Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott'anni potrò dire, in questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che questi desideri si possano frenare? che siano ingiusti soverchi sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L'aria di questa città l'è stato mal detto che sia salubre. E' mutabdissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l'ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce. Che parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia.
Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane, ma per far questo io voglio un mondo che m'alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa) ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore, non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m'attristi e mi forzi di ricorrere per consolarmi a quello da cui volea fuggire.
Nel 1818 Leopardi compone il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Egli ritiene che la poesia romantica non smuova l’immaginazione, al contrario di quella classica che è quindi l’unica vera poesia.
Incoraggiato da una visita di Giordani a Recanati per conoscerlo, Giacomo tenta la fuga dalla prigionia famigliare (luglio 1819); scoperto dal padre alla vigilia della partenza, rinuncia, cadendo in un abbattimento ancora più profondo.
La lettera al padre
Nel 1819, raggiunta la maggiore età, Leopardi decide di fuggire da Recanati; nell'accingersi alla partenza scrive questa lettera (luglio 1819) d'addio al padre, eloquente documento dei rapporti familiari del poeta, del suo bisogno di evasione, dei suoi sogni di eroismo. Il progetto di fuga verrà poi scoperto e sventato perché il parente a cui Giacomo aveva chiesto nascostamente il passaporto dirà tutto a Monaldo.
Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver saputo quello ch'io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare di sentir le prime e ultime voci di un figlio che l'ha sempre amata e l' ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere. Ella conosce me, e conosce la condotta ch'io ho tenuta fino ad ora, e forse, quando voglia spogliarsi d'ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l'Italia, e sto per dire in tutta l'Europa, non si troverà altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali competentemente inferiori ai miei, abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sommessione ai suoi genitori, ch'ho usata io. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, ancor quelli che combinano perfettamente colle sue massime, hanno giudicato ch'io dovessi riuscir qualche cosa non affatto ordinaria, se mi si fossero dati quei mezzi che nella presente costituzione del mondo, e in tutti gli altri tempi, sono stati indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di sè. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Certamente non l'è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene, e taccio poi della libertà ch'essi tutti hanno in quell'età nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s'accordava a 21 anno. Ma lasciando questo, benché io avessi dato saggi di me, s'io non m'inganno, abbastanza rari e precoci, nondimeno solamente molto dopo l'età consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio ch'Ella provvedesse al mio destino, e al bene della mia vita futura nel modo che le indicava la voce di tutti. Io vedeva parecchie famiglie di questa medesima città, molto, anzi senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi d'infinite altre straniere, che per qualche leggero barlume d'ingegno veduto in qualche giovane loro individuo non esitavano a far gravissimi sacrifici affine di collocarlo in maniera atta a farlo profittare de' suoi talenti. Contuttoché si credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, né le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Io vedeva i miei parenti scherzare cogl'impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che avrebbero potuto impegnarsi con effetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa, ed Ella non credé che le sue relazioni, in somma le sue cure si dovessero neppur esse impiegare per uno stabilimento competente di questo suo figlio. Io sapeva bene i progetti ch'Ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch'io non conosco, ma sento chiamar casa e famiglia, Ella esigeva da noi due il sacrifizio, non di roba né di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù, e di tutta la nostra vita. Il quale essendo io certo ch'Ella né da Carlo né da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e non potea prenderli per mia norma in verun modo. Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch'io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi proccurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione, non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Contuttociò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine, e dalla vita affatto disoccupata, come masmente negli ultimi mesi. Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo Proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazione, e apparenza di dere era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo, e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero, ch'io benché sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me non ho voluto più tardare a incaricarmi d mia sorte. Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e più facilmente potrò esser lice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice ta senz'alcun pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio tosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo rio ci giudica più sfavorevolmente d'ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma, quanto a ciò molti sono d'altra opinione; quanto a noi, siccome il disperar di se stessi non può altro che nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati. Avendole reso quelle ragioni che ho, saputo della mia risoluzione, resta ch'io le domandi perdono del disturbo che le vengo a recare con questa medesima e con quello ch'io porto meco. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo. Ma essendo così debole come io sono, e non potendo sperai più nulla da Lei, per l'espressioni ch'Ella si è lasciato a bella posta più volti uscire disinvoltamente di bocca in questo proposito, mi son veduto obbligato, per non espormi alla certezza di morire di disagio in mezzo al sentiero il secondo giorno, di portarmi nel modo che ho fatto. Ma ne duole sovranamente, e questa è la sola cosa che mi turba nella mia deliberazione, pensando di far dispiacere a Lei, di cui conosco la somma bontà di cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella nostra situazione. Alle quali io son grato sino all'estremo dell'anima, e mi pesa infinitamente di parere infetto di quel vizio che abborro quasi sopra tutti, cioè l'ingratitudine. La sola differenza di principio, che non era in verun modo appianabile, e che dovea necessariamente condurmi o a morir qui di disperazione, o a questo passo ch'io fo, è stata cagione della mia disavventura. E' piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero pensieri alquanto più che Recanatesi, toccassero a Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse questi figli come una disgrazia, toccasse a noi (….)
per ulteriori approfondimenti sulla Lettera al padre vedi anche qua
1819: Seconda conversione: bello-vero
Definizione del primo sistema o sistema della natura e delle illusioni o pessimismo storico.
L’infelicità dell’uomo è dovuta alla civilizzazione.
La felicità sarebbe possibile se si potessero mantenere per tutta la vita le illusioni (=inganni dell’immaginazione) in quanto la felicità consiste proprio in esse.
La ragione, però, mostra il carattere illusorio della natura e quindi noi moderni possiamo ricercare la felicità soltanto nella distrazione.
Tra il 1819 e il 1822 Leopardi vive dunque a Recanati in tensione continua con la famiglia, che vorrebbe avviarlo alla carriera ecclesiastica. Allo Zibaldone affida un gran numero di riflessioni che segnano la sua cosiddetta «conversione filosofica», e cioè l’adesione a una concezione materialistica e atea. La ricerca poetica si svolge lungo due filoni principali: la poesia sentimentale degli idilli (compone fra l’altro L’infinito, La sera del di di festa e Alla luna) e la poesia impegnata delle grandi canzoni civili (fra le quali Ad Angelo Mai, Bruto minore e Ultimo canto di Saffo). Finalmente, nel novembre del 1822 Giacomo può lasciare Recanati recandosi a Roma, ospite degli zii Antici. È una nuova delusione: i monumenti della latinità lo lasciano indifferente, la città gli spiace, i letterati gli appaiono presi solo da una meschina e provinciale passione per l’erudizione e 1’ “antiquaria”. Nelle lettere al fratello Carlo ritrae con vivacità le proprie reazioni. Gli unici incontri interessanti sono quelli con alcuni studiosi stranieri, come i prussiani Georg Niebhur e Christian Karl von Bunsen.
La lettera a Carlo (dicembre 1822)
Carlo mio. Se tu credi che quegli che ti scrive sia Giacomo tuo fratello, t’inganni sai, perché questi è morto o tramortito, e in sua vece resta una persona che a stento si ricorda il suo nome. Credi, Carlo mio caro, che io son fuori di me, non già per la maraviglia, ché quando anche io vedessi il Demonio non mi maraviglierei: e delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno. E perciò s’io ti dico d’aver quasi perduto la conoscenza di me stesso, non pensare né alla maraviglia, né al piacere, né alla speranza, né a veruna cosa lieta. Sappi, Carlo mio, che durante il viaggio ho sofferto il soffribile, come accade a chi viaggia a spese d’altri, e di tale che cerca per ogni verso e vuole i suoi più squisiti comodi, sieno o non sieno compatibili cogli altri. Ma ciò non ostante, per tutto il viaggio ho goduto, e goduto assai, non d’altro che dello stesso soffrire, e della noncuranza di me, e del prendere ogni momento novissime e disparatissime abitudini. E mi restava pure quel filo di speranza, del quale io sono capace, che senza infiammare né anche dilettare, pur basta a sostenere in vita. Ma giunto ch’io sono, e veduto questo orrendo disordine, confusione, nullità, minutezza insopportabile e trascuratezza indicibile, e le altre spaventevoli qualità che regnano in questa casa; e trovatomi interamente solo e nudo in mezzo ai miei parenti (benché nulla mi manchi), ti giuro, Carlo mio, che la pazienza e la fiducia in me stesso, le quali per lunghissima esperienza mi erano sembrate insuperabili e inesauribili, non solamente sono state vinte, ma distrutte. Come inespertissimo delle strade, io non posso uscir di casa, né recarmi in alcun luogo, né restarvi, senza la compagnia di qualcuno della famiglia; e conseguentemente, per quanta forza io voglia fare in contrario, sono affatto obbligato a far la vita di casa Antici; quella vita la quale noi due, ragionando insieme, non sapevamo qual fosse, né in che consistesse, né come potesse reggersi, né se fosse vita in alcun modo.
Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e l’altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che a sentirlo, pare che l’esser uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo. In somma io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa malinconia, e l’essere sempre esposto al di fuori, tutto al contrario della mia antichissima abitudine, m’abbatte, ed estingue tutte le mie facoltà in modo ch’io non sono più buono da niente, non ispero più nulla, voglio parlare e non so che diavolo mi dire, non sento più me stesso, e son fatto in tutto e per tutto una statua. Fa leggere questa lettera al signor Padre, al quale io non so quello che mi scrivessi da Spoleto: perché dovete sapere che io scrissi in tavola fra una canaglia di Fabrianesi, Iesini, ecc. i quali s’erano informati dal Cameriere dell’esser mio, e già conoscevano il mio nome e qualità di poeta ecc. ec. E un birbante di prete furbissimo ch’era con loro, si propose di dar la burla anche a me, come la dava a tutti gli altri: ma credetemi che alla mia prima risposta, cambiò tuono tutto d’un salto, e la sua compagnia divenne bonissima e gentilissima come tante pecore.
Nel 1822/1823 si ha la definizione del secondo sistema o sistema sensistico-esistenziale:
- Sensistico in quanto si fonda sulle teorie illuministiche del sensismo (conosciamo attraverso i sensi, l’esperienza è frutto delle sensazioni che sono riordinate dalla ragione, ma non determinate da essa).
- Esistenziale perché pone in primo piano la domanda sulle cause dell’infelicità degli enti (esseri viventi).
L’infelicità nasce da forze consustanziali all’animo del vivente (amor proprio o istinto di conservazione) che servono alla sopravvivenza stessa dell’essere vivente e non sono quindi eliminabili.
L'impostazione generale del primo sistema ed alcuni concetti-cardine vengono conservati ma le ragioni dell'infelicità non sono più viste come un prodotto della ragione nella sua evoluzione storica, sono invece considerate il prodotto di strutture psicofisiche consustanziali all'essere che quindi è creato necessariamente infelice.
Teoria del piacere (Zibaldone, 646)
La teoria del piacere è la struttura filosofica fondante il secondo sistema.
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell’animo nostro e di qualunque vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla misura dell’amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque nell’atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell’animale all’indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l’indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l’animale fosse pago, cioè felice, cioè l’amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa contraddittoria e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita, in quell’ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente. Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue.
La teoria del piacere può essere così sintetizzata:
- Ogni essere vivente desidera per sé il maggior bene possibile, ovvero la felicità, identificata a sua volta col piacere.
- Il piacere è desiderato illimitato sia in intensità che in estensione; ciò però non è umanamente sperimentabile.
- Sperimentiamo quindi un ampio divario tra il desiderio di piacere e la possibilità concreta di provarlo.
L’assenza di ogni sensazione è definita come noia-desiderio di felicità allo stato puro, cioè non contaminato dal dolore o dall’aspettativa immediata di un piacere.
Essa riempie i vuoti dell’esistenza.
per ulteriori approfondimenti sulla teoria del piacere vedi anche qua
La noia (Zibaldone, 3713)
L'idea e natura della quale esclude essenzialmente sì quella del piacere che quella del dispiacere, e suppone l'assenza dell'uno e dell'altro; anzi si può dire la importa; giacchè questa doppia assenza è sempre cagione di noia, e posta quella, v'è sempre questa. Chi dice assenza di piacere e dispiacere, dice noia, non che assolutamente queste due cose sieno tutt'una, ma rispetto alla natura del vivente, in cui l'una senza l'altra (mentre ch'ei sente di vivere) non può assolutamente stare. La noia corre sempre e immediatamente a riempiere tutti i vuoti che lasciano negli animi de' viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d'indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in natura secondo gli antichi. La noia è come l'aria quaggiù, la quale riempie tutti gl'intervalli degli altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso dell'animo umano, e l'indifferenza, e la mancanza d'ogni passione, è noia, la quale è pur passione. Or che vuol dire che il vivente, sempre che non gode nè soffre, non può fare che non s'annoi? Vuol dire ch'e' non può mai fare ch'e' non desideri la felicità, cioè il piacere e il godimento. Questo desiderio, quando e' non è nè soddisfatto, nè dirittamente contrariato dall'opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro. Questo desiderio è passione. Quindi l'animo del vivente non può mai veramente essere senza passione. Questa passione, quando ella si trova sola, quando altra attualmente non occupa l'animo, è quello che noi chiamiamo noia. La quale è una prova della perpetua continuità di quella passione. Che se ciò non fosse, ella non esisterebbe affatto, non ch'ella si trovasse sempre ove l'altre mancano.
Per non sentire l’infelicità il metodo migliore è distrarsi, ad esempio con la poesia (rimanda a una sensazione di vago ed indefinito).
Possiamo sentire alcuni tipi di piacere (parziali):
- Il piacere della cessazione di un dolore (La Quiete dopo la tempesta).
- Il piacere dell'attesa di un piacere (Il Sabato del villaggio).
- Il piacere della contemplazione del vago e dell'indefinito.
- Il piacere del ricordo – che di per sé è indefinito - ( la Sera del dì di Festa).
- Il piacere della distrazione (distoglie dal considerare e avvertire l’assenza di piacere).
- Il piacere dell'ottundimento della coscienza (così non sentiamo il dolore dell’assenza di piacere) come con il sonno, le droghe, l’alcol (Dialogo di T.Tasso e del suo Genio famigliare).
Perché non si possono affidare le proprie speranze di piacere alla religione?
Per Leopardi non si possono affidare le proprie speranze alla religione poiché essa promette una felicità spirituale, non terrena, che non sentiamo interessarci.
Le speranze che dà all’uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all’animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1°. che l’uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2°. ch’egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3°. ch’egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. È chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il fin suo, non già di un’altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè desiderando quella di un’altra esistenza, ancorch’ella in questa s’avesse poi a tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui, ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero, ec.
Laonde la felicità che l’uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza. Nè egli può mai lasciar di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più possibile che l’uomo mortale desideri veramente la felicità de’ Beati, di quello che il cavallo la felicità dell’uomo, o la pianta quella dell’animale; di quel che l’animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui lo vegga cibarsi, all’uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere che l’animale non può concepire nè che possa esser piacere è […]
Sì l’animale che l’uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch’ei desidera è cosa terrena. Quell’infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perché s’è dichiarato altrove), quel medesimo è un infinito terreno, bench’ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell’immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de’ viventi. [...]
Or tutti questi desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all’uomo, promettere all’infelice una felicità celeste, benché intera e infinita, e superiore senza paragone alla terrena, e a’ piccoli beni ch’egli desidera,
si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l’affamato concepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione, e questo pi cere sarebbe della medesima natura di quello ch’ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l’altro. Non così possiamo dire de’ piaceri celesti promessi
a chi desidera e non ottiene i terreni [...]
Ora i piaceri celesti, al contrario di ciò che s’è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perché a chi desidera una cosa si promette un’altra ch’è diversissima da quella; a chi è misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio ch’ei non ha e non può per sua natura avere né formare; a chi brama un piacer noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch’ei non conosce né può conoscere, e ch’ei non vede né può vedere come sia per esser bene, e come possa piacergli; a chi è misero in questa vita, e desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non può concepire né desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una tutt’altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch’ella è sommamente e totalmente e più ch’ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch’ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l’uomo non può né collo intelletto né colla immaginazione né con veruna facoltà né veruna sorta d’idee oltrepassare d’un sol punto la materia, e s’egli crede oltrepassarla, e concepire o avere un’idea qualunque di cosa non materiale, s’inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d’un sol punto i limiti della materia, né desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta di esistenza ch’ei prova; e s’ei crede desiderar cosa d’altra natura, s’inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei non può desi derar bene alcuno d’altra natura, così la promessa e la speranza di tali beni, non può per modo alcuno consolarlo realmente né de’ mali di questa vita né della mancanza de’ di lei beni, né (quando e’ non fosse infelice) rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell’aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.
Di più, l’uomo si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi pur tutta la vita sua, della speranza, ancorché lontana, la qual è un piacere, ma come e perché? Perché l’uomo va immaginando e contemplando seco stesso a parte a parte il godimento ch’egli attende o spera, e prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà, e le sue qualità e condizioni e circostanze, anticipando ed anzi assaporando effettivamente colla immaginazione mille volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione, quest’anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch’ei nol sarà quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne né pure una menoma parte? Come ci può per verun deliro o veruno sforzo dell’immaginazione o dell’intelletto parer presente quello a cui né l’immaginazione né l’intelletto non si possono neppure a grandissimo tratto avvicinare; quello che non è fatto né per questa immaginazione né per questo intelletto; quello ch’è di natura affatto diversa da ciò che l’immaginazione o l’intelletto può concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò ch’egli è, s’a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che spetta a tutt’altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in alcuna parte entrar nella mente nostra una tutt’altra natura?
Perché la poesia produce piacere?
Perché se si fonda sul vago e sull’indefinito asseconda il naturale desiderio di illusioni proprio dell’animo umano.
Operetta di Eleandro: “Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi. Ora io fo poca stima di quella poesia che letta e meditata, non lascia al lettore nell'animo un tal sentimento nobile, che per mezz'ora, gl'impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un'azione indegna.”
Il compito dell’intellettuale è quindi nascondere il vero, conosciuto dai saggi e colpevole della loro infelicità.
Diversamente dai romantici, quindi, Leopardi sosteneva che il compito dello scrittore fosse quello di dilettare il pubblico e non di educarlo.
La concezione leopardiana di intellettuale è ben visibile nella prefazione allo Spettatore Fiorentino del 1832.
Polemica contro gli scritti dell’epoca (Zibaldone, 4366)
Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de' pregi e de' piaceri di essi ec. ec., non si torrà dagli studi ogni diletto, perchè anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli.
Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno; si scemerà di moltissimo la facoltà di dilettare che ha questo bellissimo trattenimento della vita: quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (e non mediocre, per Dio) al genere umano, alla società civile.
Un ulteriore elemento che conduce al passaggio tra primo e secondo sistema è la crisi del pessimismo storico, in favore del pessimismo antico.
Leggendo il Barthelemy (Vojage du Jeune Anacharsis en Grece) Leopardi nota la presenza di massime che alludono, anche presso gli antichi, a una infelicità insanabile.
Tratta il pessimismo antico nel Tristano
Ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l'uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.
Secondo Leopardi gli esseri viventi sono tanto più infelici quanto più avvertono la mancanza del piacere (sensibilità).
L’uomo è l’essere vivente più sensibili, pertanto chi lo ha creato non ha mirato al suo benessere.
Tale argomento è ripreso nel Dialogo della Natura e di un’anima (riassunto):
La Natura spiega a un’Anima infelice che è destino degli uomini essere infelici, tanto più quanto è maggiore l’intensità del loro sentire. Infatti sono proprio gli uomini di maggior ingegno e di immaginazione più fervida a essere i più lontani dalla condizione animale, che è la meno infelice tra quelle degli esseri viventi. I grandi ingegni possono essere risarciti della loro infelicità solo dalla fama e dagli onori che i posteri vorranno tributare loro. L’Anima chiede allora alla Natura di essere destinata a un destino meno alto in un corpo più insensibile e di preferire la morte subito piuttosto che la fama futura.
Il fine della Natura è quindi semplicemente l’esistenza (ovvero il puro perseverare nell'esistere delle specie viventi), mentre quello degli esseri viventi la vita (ovvero esistere nella piena soddisfazione delle esigenze della propria natura, delle proprie aspirazioni e bisogni). Esiste quindi un conflitto insaziabile tra essi, che porta Leopardi al superamento del secondo sistema.
Nel 1824-1837 vi è la definizione del terzo sistema o materialismo integrale.
Questo sistema era chaimato erroneamente “del pessimismo cosmico”, che significa che ogni essere vivente senza distinzione è infelice, ma ciò era già stato appurato da Leopardi durante il secondo sistema.
Il passaggio al terzo sistema è visibile nell’operetta “Dialogo della Natura e di un islandese”
Esso è definito materialistico in quanto si fonda sull’analisi della sofferenza fisica degli esseri viventi, non psicologica, mentre è definite integrale poichè queste sofferenze sono proprie di ogni vivente e non solo dell’uomo.
Le forme viventi sono tutte organizzazione di material che può pensare e sentire, ciò che è comunemente chiamato spirito perciò non esiste.
L’infelicità è prodotta soprattutto dai mali fisici (e in parte aggravata, ma non determinata dai mali psicologici) che possono essere sia destinati (vecchiaia e morte) che accidentali. Esistendo mali destinati, significa che la Natura è un ordinamento malvagio e chi l’ha creata è un Dio malvagio. L’ordine naturale, per funzionare, necessita della sensibilità degli esseri. Il fatto che essi siano attratti dal piacere porta alla conservazione dell’esistenza.
La Natura nella Palinodia al Marchese Gino Capponi
“La natura crudel, fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla.”
Materialismo integrale (Zibaldone, 4288-89)
La materia pensante si considera come un paradosso. Si parte dalla persuasione della sua impossibilità, e per questo molti grandi spiriti, come Bayle, nella considerazione di questo problema, non hanno saputo determinar la loro mente a quello che si chiama, e che per lo innanzi era lor sempre paruto, un'assurdità enorme. Diversamente andrebbe la cosa, se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia. Or così appunto dovrebbe esser disposto l'animo degli uomini verso questo problema. Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perché noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perché noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l'animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perché noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di sè, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co' suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all'evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de' passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo.
Vita e esistenza (Zibaldone, 4128-29)
Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell'esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio dire, il fine naturale dell'uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale dell'uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare l'esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell'esistenza generale, e di quell'ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi, non solo perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella modificazione di ciascuno animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma e la intensità del dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione la somma e intensità del suo piacere. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere nè la felicità degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura per necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile nell'ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse.
Il giardino (Zibaldone, 4175-77)
Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.
Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sosteni- bile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità? [...]
Cosa certa e non da burla si è che l'esistenza è un male per tutte le parti che compongono l'universo (e quindi è ben difficile il supporre ch'ella non sia un male anche per l'universo intero, e più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, Épître sur le désastre de Lisbonne. Non si comprende come dal male di tutti gl'individui senza eccezione, possa risultare il bene dell'universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d'altro, possa risultare un bene.) Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al lor modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perché il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò essendo, come non sì dovrà dire che l'esistere è per sè un male?
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi,
i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro.
Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.
La filosofia può indirizzare gli uomini «all’origine vera de’ mali de’ viventi» (Zibaldone, 4428)
La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a' loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi ec. ec.
Leopardi, dopo aver visto censurate in Italia le operette, prova a pubblicare all’estere contattando in particolare gli intellettuali conosciuti a Roma.
Si rivolge a Luigi De Sinner, il quale fa pubblicare qualcosa di Leopardi su alcuni giornali francesi.
Lettera a Luigi de Sinner, 1832
Lettera in risposta a recensioni apparse sul giornale francese Hesperus, nelle quali era ritratto come infelice e malato.
Ho ricevuto i fogli dell'Hesperus, dei quali vi ringrazio carissimamente. Voi dite benissimo ch'egli è assurdo l'attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa. Per gravi che siano i miei mali, che si è ritenuto opportuno divulgare e che forse sono stati un po' esagerati su quel giornale, ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione. I miei sentimenti riguardo al destino sono gli stessi che ho espressi nel Bruto minore. E' stato grazie a questo stesso coraggio se, condotto dalle mie ricerche a una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla interamente; mentre d'altro canto è stato solo per effetto della viltà degli uomini, che hanno bisogno di essere persuasi del valore dell'esistenza, che si sono volute considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze personali, e che ci si ostina ad attribuire alla mia situazione materiale ciò che si deve soltanto al mio intelletto. Prima di morire, protesterò contro questa invenzione della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di impegnarsi a confutare le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che a darne la colpa alle mie malattie….
A partire dal 1825 Leopardi cerca rimedio alla sofferenza nelle filosofie antiche che promettevano al saggio una vita migliore, ma ne rileva l’utopia.
Dal 1823 al 1828 Leopardi abbandona la poesia. Viaggia verso Milano, Bologna, Firenze, poi per motivi climatici si trasferisce a Pisa, dove torna a scrivere poesie (Il Risorgimento). Fu costretto a tornare a Recanati, dove non ama stare, per motivi economici.
Nel 1830 torna a Firenze dove conosce Antonio Ranieri, che segue poi a Napoli. Qui vive la storia d’amore non ricambiata con Fanny Targioni Tozzetti.
Tale esperienza lo spronò a divulgare pubblicamente il proprio pensiero e quindi alla scrittura di opere satiriche.
Negli anni ’30 vi è un passaggio dalla poetica del vago e dell’indefinito ad una detta “eroica” (immagini precise, lingua difficile e sfumature ironiche), visibile in particolare nel ciclo Aspasia.
Vi è anche un cambiamento nel pensiero Leopardiano che, pur mantenendo una base materialistica, vi è un recupero della sensibilità intesa come partecipazione al dolore altrui.
Possiamo notare i primi accenni del cambiamento nel Dialogo di Plotino e Porfirio nel quale viene esposto il tema del suicidio.
In questo caso, al contrario del Bruto Minore, il suicidio viene raffigurato come egoismo nei confronti degli amici, della società.
Il cambiamento del pensiero è visibile anche nelle poesie Sepolcrali che trattano della morte di una giovane. Vengono però compianti i familiari e non la vittima stessa.
Nell’ultimo Leopardi è costante la polemica contro le ideologie dominanti nell’Italia della pre-unificazione. E’ inoltre presente, negli ultimi scritti, l’unione di “satira” e “compassione”.
Paralipomeni alla Batromiomachia
Aggiunta al poema omerico che trattava di una guerra tra rane e topi. Leopardi identifica i patrioti italiani con i topi, i conservatori con le rane e aggiunge i granchi, che rappresentano gli austriaci. Dal poema traspare lo scetticismo del poeta nei confronti dei modi con i quali i patrioti stanno cercando di unificare l’Italia, anche se condivide con loro l’obiettivo finale.
Ginestra
E’ il testamento spirituale di Leopardi. Identifica l’estrema precarietà vissuta dagli essere umani con le ginestre nate sul Vesuvio.
Gli uomini vivono quindi mali inevitabili, ma ad essi non devono essere aggiunti mali derivati ad esempio da conflitti tra gli uomini (creare la social catena).
Lettera a un giovane del XX secolo (ZIB 4279)
Immagina la futura civilizzazione degli animali perché la social catena deve essere allargata a tutti gli esseri sensibili contro la Natura.
Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all'estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti.
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Domande da interrogazione
- Chi era Giacomo Leopardi e quale fu il suo contesto familiare?
- Qual è il ritratto della madre di Leopardi descritto nello Zibaldone?
- Cosa rappresenta la "prima conversione" di Leopardi?
- Qual è il significato della lettera a Pietro Giordani?
- Quali furono le conseguenze del tentativo di fuga di Leopardi nel 1819?
Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798, figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. La famiglia affrontò difficoltà finanziarie, e la madre, Adelaide, gestì il patrimonio con rigore, influenzando profondamente Leopardi.
Nello Zibaldone, Leopardi descrive la madre come una donna rigida e devota alla religione cristiana, che vedeva la morte dei figli come una liberazione e considerava la bellezza una disgrazia.
La "prima conversione" di Leopardi, avvenuta intorno al 1816, segnò il passaggio dall'erudizione formale alla comprensione del valore poetico dei classici, portando a una crisi esistenziale e a una nuova consapevolezza artistica.
Nella lettera a Pietro Giordani, Leopardi esprime la sua devozione e descrive la vita opprimente a Recanati, evidenziando il suo desiderio di affermazione e la frustrazione per l'ambiente culturale limitato.
Il tentativo di fuga di Leopardi nel 1819, scoperto dal padre, fallì, portando Leopardi a un profondo abbattimento e a una riflessione sulla sua condizione e sui suoi sogni di libertà e realizzazione personale.