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Concetti Chiave

  • Il "Decameron" di Boccaccio è una raccolta di cento novelle narrate da dieci giovani che si rifugiano in campagna per sfuggire alla peste del 1348.
  • Boccaccio, nel proemio del "Decameron", esprime il desiderio di offrire conforto alle donne attraverso il racconto delle novelle, in un periodo in cui erano escluse da molti svaghi.
  • La descrizione di Firenze durante la peste evidenzia il degrado e la disperazione, con la società che si disgrega e i corpi lasciati nelle strade per evitare il contagio.
  • La novella di Ser Ciappelletto esplora il tema della redenzione e dell'inganno, con un uomo di vita spregevole che inganna un prete durante la sua confessione.
  • La storia di Andreuccio da Perugia racconta di un mercante truffato che, nonostante le disavventure, riesce a tornare a casa con un prezioso anello rubato da una tomba.
In questo appunto si descrive Boccaccio. Scritta tra il 1349 e il 1353, l’opera “Decameron” di Boccaccio, è una raccolta di cento novelle che l’autore fa raccontare a dieci ragazzi. Questi, per dieci giorni sono costretti a stare in una casa di campagna di Firenze per sfuggire all’epidemia di peste del 1348.
biografia ed opere di Boccaccio

Indice

  1. Il proemio del Decameron
  2. La peste a Firenze: degrado e sporcizia
  3. Così inizia il Decameron: Ser Ciappelletto, la prima novella del primo giorno
  4. Landolfo Rufolo: la quarta novella del secondo giorno
  5. Andreuccio da Perugia: secondo giorno, quinta novella
  6. Prima novella del quarto giorno: Tancredi e Ghismunda
  7. Quinta novella del quarto giorno: Lisabetta da Messina
  8. Nastagio degli onesti: ottava novella del quinto giorno
  9. Cisti fornaio: la seconda novella del sesto giorno
  10. La nona novella del quinto giorno: Federigo degli Alberighi
  11. Guido Cavalcanti: riassunto della nona novella del sesto giorno
  12. Frate Cipolla: decima novella del settimo giorno
  13. Calandrino e l’elitropia: la terza novella dell’ottavo giorno
  14. Griselda: l’ultima novella dell’ultimo giorno
  15. Biondello e Ciacco: riassunto breve della nona novella dell’ottavo giorno

Il proemio del Decameron

Il proemio del Decameron serve a Boccaccio per presentare la sua opera: è in queste pagine che egli spiega i fini per cui è stata scritta e il pubblico a cui è riservata.
Inizialmente l’autore ci parla della natura umana che ci porta ad aver compassione di chi prova dolore e sofferenza. Poi, si presenta: ci racconta le sue esperienze amorose, il dolore che esse gli hanno provocato e come è riuscito a superarlo. Ci parla dell’aiuto degli amici e di Dio che “diede per legge incomputabile a tutte le cose mondane aver fine”, fondamentali per superare il suo dolore. Dopo queste premesse, Boccaccio esprime il suo volere: restituire l’aiuto che in precedenza era stato dato a lui dagli amici, a chiunque ne abbia necessità. Per raggiungere questo obiettivo il poeta si chiede prima di tutto chi abbia davvero bisogno di aiuto, di svago e distrazione. Così arriva alla conclusione che sono le donne, escluse da ogni attività di svago destinate agli uomini, ad aver bisogno del suo aiuto. Obiettivo della sua opera sarà quindi far svagare le donne, “quelle che amano”. Per concludere, l’autore offre un breve resoconto di cosa accadrà e cosa rappresenterà la narrazione dei racconti.
Per ulteriori approfondimenti sul Decameron vedi qui

La peste a Firenze: degrado e sporcizia

Descrivendo la vita a Firenze in tempo di peste, Boccaccio mette in guardia dalla sgradevolezza di questa prima parte dell’opera, necessaria per affrontare le letture seguenti. Consiglia però di continuare a leggere la narrazione: sarà molto più gradevole.
La peste a Firenze arriva attorno al 1348 e si presenta come un castigo mandato da Dio. Dall’Oriente è dilagata verso Occidente, in Europa, senza nessuno rimedio, nonostante preghiere a Dio e attuazione di provvedimenti. Colpisce tutti, dagli anziani ai giovani, dai ricchi ai poveri, senza distinzione, fino ai gradi più alti della società, giudici e legislatori. E senza nessuno che la divulghi e la protegga, la legge non viene rispettata. La città di Firenze si trova così in condizione di assoluto degrado: sporcizia e cattivo odore ovunque. In molti pensano che l’unica possibilità di scampo sia fuggire dalla città: ognuno pensa a salvare se stesso e teme gli altri. Chi decide di rimanere con gli infermi lo fa prevalentemente per i soldi. Le donne perfino accettano di mostrare il proprio corpo agli sconosciuti per farsi curare (andando contro all’usanza di mostrare il proprio corpo esclusivamente al proprio marito).
I funerali vengono permessi e mantengono la propria religiosità. Ma i chierici e i becchini che se occupano non considerano più i voleri del morto, lo portano nella chiesa più vicina per il funerale e lo seppelliscono dove possono. Le persone malate di peste, continua a dirci Boccaccio, muoiono sole, in casa o per le strade, abbandonate a se stesse. Chi è vivo pensa solo a difendersi dalla peste. I corpi vengono portati fuori dalle case per non propagare la malattia al suo interno, nelle strade quindi si ammassano moltissimi corpi. Per risparmiare tempo, soldi e spazio, in ogni bara vengono posti più defunti insieme, possibilmente imparentati fra loro, senza che il chierico ne sia a conoscenza.
Nelle campagne, i contadini pensano a consumare ciò che hanno e non producono. Cacciano gli animali dalle case per avere meno bocche da sfamare.
La peste è la pena di Dio inflitta agli uomini. Tale piaga, nella sola Firenze, uccide oltre centomila persone in pochi mesi, sterminando famiglie intere e lasciando tante proprietà e ricchezze senza padrone.
Per ulteriori approfondimenti sulla peste in Boccaccio vedi qui

Così inizia il Decameron: Ser Ciappelletto, la prima novella del primo giorno

Il tema centrale del racconto di Panfilo è la redenzione che Dio dona agli uomini perdonandoli per qualsiasi peccato essi abbiano compiuto.
Musciatto Franzesi, grande e ricchissimo mercante, divenuto cavalieri in Francia, dovette recarsi in Toscana al seguito di Carlo Senzaterra. Per trasferirsi, egli dovette recapitare i suoi complicati affari a uomini affidabili che fossero capaci di gestirli. E dovette incaricare un uomo abile nella riscossione dei soldi dati in prestito ai “borgognoni”, uomini sleali e irriverenti. Dopo tanto pensare l’uomo decise di incaricare Ser Ciappelletto. Ser Ciappelletto era un uomo irriverente e meschino che pur di ottenere ciò che desiderava testimoniava il falso. Non si preoccupava di far del male a chiunque, bestemmiava e amava ubriacarsi nelle taverne. Barava ai giochi d’azzardo ed era un ladro: era un uomo spregevole e colmo di colpe di ogni genere.
Ser Ciappelletto accettò l’incarico e si recò in Borgogna per adempiere al suo dovere. Lì ottenne ospitalità in casa di due fratelli, mercanti fiorentini. Ammalatosi però di una malattia inguaribile, ogni giorno si avvicinava sempre più alla morte. I due fratelli, interessanti a difendere il proprio nome, non volevano abbandonare l’uomo così malato. Al tempo stesso sapevano però che nessuna chiesa avrebbe accettato di seppellire un uomo così spregevole. Ser Ciappelletto, sentendo le preoccupazioni, rassicurò i due fratelli, chiedendo di parlare con un buon prete. I due fratelli lo accontentarono. Ser Ciappelletto chiese al frate di poterlo confessare (tralasciando l’assenza di confessioni precedenti), e ricevette addirittura i complimenti del frate.
La confessione iniziò: il frate chiese all’uomo se egli avesse mai peccato con le donne, per gola, se fosse mai stato avaro, se avesse mai ucciso o attaccato moralmente qualcuno e mentito. Ad ogni domanda Ser Ciappelletto inventava una storia per dimostrare di essere pulito. Alla fine, imitando un gesto di autocommiserazione, elencò anche piccoli e insignificanti peccati che obbligarono il prete a rassicurarlo: erano peccati di poco conto. Dopo la lunga confessione, il frate, stanco della piega dettagliata e trascurabile che stava prendendo, assolse l’uomo e gli offrì un posto nel campo santo della sua chiesa. Per tutto il corso della confessione i due fratelli si erano appostati dietro alla porta per ascoltare, e a stento erano riusciti a trattenere le risate alle menzogne di Ser Ciappelletto.
La sera stessa della confessione, ser Ciappelletto morì e i due fratelli e il frate organizzarono un fastoso funerale: accompagnarono il morto alla chiesa cantando per le strade della città seguiti da moltissime persone a cui, arrivati in chiesa, il frate descrisse l’uomo come un santo benefattore. La gente rimase abbagliata dai prodigi di quel santo uomo, tanto che, dai giorni seguenti, moltissime persone ogni giorno si radunarono alla sua tomba per portare fiori e pregare. Ser Ciappelletto era diventato santo nonostante la sua spregevole vita.
Per ulteriori approfondimenti su Ser Ciappelletto vedi qui

Landolfo Rufolo: la quarta novella del secondo giorno

La costa amalfitana è un luogo di commercio e mercanti. Tra essi, Landolfo Rufolo, un ricco mercante che viveva a Ravello, desiderava arricchirsi sempre di più. Così un bel giorno caricò la sua nave delle sue mercanzie e si recò a Cipro. Arrivato sull’isola però egli trovò molti mercanti genovesi che come lui, si erano recati lì per arricchirsi. Per riuscire a vendere le proprie ricchezze, vista la concorrenza, fu costretto ad abbassare drasticamente i prezzi, e rimase povero. Determinato a riconquistare il denaro perduto quindi, Landolfo decise di vendere la grande nave che aveva per acquistarne una più piccola, più adatta alle scorrerie. Dopo aver depredato molte navi turche e aver così raddoppiato la sua ricchezza iniziale, Landolfo, tornò verso casa.
Durante il viaggio in mare, però lo travolse una tempesta, così egli decise di attraccare in una piccola isola per aspettare un tempo migliore. Lì trovò due grandi navi, le quali ciurme, lo fecero prigioniero e abbatterono la sua nave.
Il giorno seguente una delle due navi nemiche, quella su cui si trovava Landolfo, si scagliò su una secca, frantumandosi. Le ricchezze che conteneva, e gli uomini a bordo, andarono dispersi. Landolfo riuscì a salvarsi galleggiando su una tavola per due giorni, finchè non approdò su un’isola, Corfù. Lì viveva una donna che lo aiutò a lavarsi e a rimettersi in forze. Giunto il momento di andarsene, Landolfo regalò alla donna delle pietre preziose e se ne tenne altre che erano sopravvissute al naufragio. Così si imbarcò per Brindisi, poi per Trani. Qui trovò dei suoi amici a cui, senza nominare le pietre, raccontò le sue disavventure ed essi lo riportano a casa.
Una volta a casa egli vendette le pietre e, con il ricavato, mandò del denaro alla donna di Corfù e ai suoi amici di Trani che lo avevano aiutato. Con il resto, non volendo più rischiare di rimanere ancora povero, visse felice fino alla fine dei suoi giorni.
Per ulteriori approfondimenti sulla novella di Landolfo Rufolo vedi qui

Andreuccio da Perugia: secondo giorno, quinta novella

Andreuccio da Perugia

, intenditore e mercante di cavalli, si recò a Napoli, centro di famosi commerci di cavalli per trovare dei bei cavalli da comperare. Lì, mostrò le sue ricchezze e, vedendo il denaro, una giovane donna, accompagnata da un’anziana donna, si fermò a parlargli. La donna era ammaliata da tali ricchezze, e dopo aver indagato con l’anziana signora su chi fosse Andreuccio, lo mandò a chiamare da una serva, con precise istruzioni. Quest’ultima, arrivata da Andreuccio, invitò l’uomo dalla giovane donna, facendogli intendere che essa si era invaghita di lui. Andreuccio, eccitato dalla notizia, accettò l’invito a casa della giovane. Ad un certo punto della serata, la donna portò Andreuccio nella sua camera da letto, dove gli spiegò il motivo del suo invito: lei era sua sorella illegittima, nata dal suo stesso padre. Per non tralasciare dubbi all’uomo sul suo conto, ella gli raccontò tutta la storia della sua vita passata raccontatagli dall’anziana donna la mattina, in modo che Andreuccio riconoscesse dei fatti a lui familiari.
Andreuccio sembrava convinto. E preso dall’entusiasmo accettò l’invito della donna a passare lì la notte. La giovane accompagnò allora il fratello in camera, lasciando a sua disposizione un servo. Rimasto solo con quest’ultimo Andreuccio iniziò a spogliarsi dei suoi abiti e del suo denaro e si recò in bagno, dove, a causa di una trave rotta, cadde nella latrina sottostante. Iniziò a chiamare aiuto ma nessuno gli rispose: il servo, avendo sentito l’uomo cadere, si era recato a chiamare la giovane donna che, approfittando del momento, gli rubò il denaro. Andreuccio, ancora nella melma maleodorante, continuò a chiamare aiuto sempre più forte finché non si rese conto di essere stato truffato. Così Andreuccio uscì maleodorante dalla casa e si incamminò disperato verso l’albergo. Lungo la strada incontrò due uomini che lo invitarono ad aiutarli in una rapina per fargli riavere i soldi perduti, e l’uomo disperato accettò. Prima di recarsi nel luogo del colpo, i due portarono Andreuccio, ancora maleodorante, a lavarsi in un pozzo. Una volta calatosi giù e lavatosi fece per richiamare i due uomini ma scoprì che erano fuggiti. Andreuccio quindi uscì dal pozzo, ancora confuso per l’accaduto e, da solo, si avviò vagando per la strada. Incontrò di nuovo i due compagni che stavano tornando a recuperarlo che gli spiegarono cosa era successo: erano dovuti scappare perché il pozzo si stava affollando di gente.
Così i tre complici s’incamminarono verso il luogo del furto. Una volta lì i due compagni obbligarono Andreuccio a scendere nella tomba dell’Arcivescovo per rubare il prezioso anello. Andreuccio, ormai divenuto più scaltro, capì l’imbroglio: appena sceso nell’arca recuperò l’anello dicendo di non trovarlo e lo nascose, mentre intanto porgeva ai due complici gli altri oggetti meno lucrosi. Terminata l’operazione, i due scapparono via chiudendo nella tomba Andreuccio che, solo e senza possibilità di uscita, pensava alla sua tragica fine.
Poco dopo però, in quella stessa chiesa arrivarono altri ladri: quando uno di loro si calò nella tomba, al sentirsi strattonato da Andreuccio, scappò via insieme agli altri. Lasciò però l’arca aperta, e Andreuccio poté uscire con l’anello.
Andreuccio finalmente arrivò all’albergo, dove, i suoi amici e l’oste, saputa l’intera storia, gli consigliarono di allontanarsi subito da Napoli e tornarsene a Perugia, con il prezioso anello.
Per ulteriori approfondimenti su Andreuccio da Perugia vedi qui

Prima novella del quarto giorno: Tancredi e Ghismunda

Tancredi, principe di Salerno, era il padre di Ghismunda, verso cui era molto affettuoso nonostante la gelosia nei suoi confronti.
Quando Ghismunda raggiunse l’età per maritarsi, si sposò con il duca di Capua. L’uomo però morì dopo poco tempo la ragazza fu costretta a ritornare dal padre.
Tancredi, felice per avere di nuovo la figlia con sé, non si preoccupò di dare nuovo marito alla giovane donna, che però era insoddisfatta e scontenta di questa scelta. Così iniziò lei stessa a osservare gli uomini che frequentano la corte, per trovare nuovo marito. Fra tutti, si innamorò di un giovane valletto del padre, Guiscardo.
Ghismunda si confessò in una lettera a Guiscardo, che iniziò a ricambiare il sentimento. I due avrebbero dovuto incontrarsi di nascosto e la donna comunicò al ragazzo come fare: attraverso una grotta ormai nascosta dalle erbacce e sconosciuta ai più, l’uomo potrà arrivare alla porta della camera di Ghismunda e così lei lo potrà accogliere nella stanza. Così i due iniziarono ad incontrarsi.
Tancredi, che era solito visitare la figlia nella sua camera, una sera si recò da lei e nell’attesa che la giovane arrivasse, si addormentò. Quando Ghismunda entrò non si accorse della presenza del padre, così invitò Guiscardo ad entrare. Tancredi si svegliò e vide i due amanti. Pur essendo estremamente arrabbiato, decise di rimanere in silenzio e aspettare che i due si salutino. Quando entrambi i giovani uscirono dalla stanza, Tancredi si calò dalla finestra e raggiunse la sua camera. Devastato dal tradimento della figlia decise immediatamente di far arrestare Guiscardo, che venne imprigionato in una della stanze del castello senza che Ghismunda ne fosse a conoscenza.
Successivamente Tancredi si recò dalla figlia e la rimproverò di aver compiuto atti illeciti con un uomo di umile classe. Le dichiarò anche di aver fatto rinchiudere il suo segreto amante. La giovane, disperata per l’arresto del ragazzo, rispose alle accuse padre dicendo di aver agito per amore. Guiscardo era un uomo rispettabile, nobile non per stirpe ma per grandezza d’animo, sostenne la ragazza. Tancredi però, indignato, fece uccidere Guiscardo e fece mandare alla figlia il cuore del giovane. Alla vista di tale orrore, Ghismunda, con in mano il veleno per uccidersi, si avvelenò. Il padre, venuto a sapere dell’azione della figlia, corse nella sua camera arrivando poco prima che la giovane morisse: la ragazza aveva come ultima volontà di essere sepolta con Guiscardo. Ghismunda morì, raggiungendo così il suo amante nella morte, e lasciando il padre, devastato dai sensi di colpa.
Per ulteriori approfondimenti sulla novella Tancredi e Ghismunda vedi qui

Quinta novella del quarto giorno: Lisabetta da Messina

Nella città di Messina abitavano tre fratelli mercanti con una bellissima e giovane sorella, Lisabetta, non ancora sposata.
Nei loro commerci, i fratelli, si facevano aiutare da un umile aiutante, Lorenzo, giovane ragazzo. Con il tempo, Lisabetta s’innamorò segretamente di Lorenzo, che ricambiava. Lisabetta, sapendo che i tre fratelli non avrebbero acconsentito a questo suo amore per un umile ragazzo, mantenne segreto il suo sentimento. Per incontrare l’amato, usciva silenziosamente di casa di notte, ma una sera venne vista da uno dei fratelli, che raccontò tutto agli altri. Così i fratelli uccisero il ragazzo. Nei giorni seguenti Lisabetta, non vedendo più Lorenzo, era sempre più malinconica e infelice. Una notte a Lisabetta apparve in sogno Lorenzo che le rivelò di essere stato ucciso dai tre fratelli e le indicò il luogo dove era stato seppellito. La giovane quindi, il giorno seguente, andò a cercare il corpo dell’amato e lo trovò. Massacrata dal dolore, tagliò la testa all’amato e la portò a casa con sé, la sotterrò in un vaso sotto una pianta di basilico e pose tutto nella sua camera. La giovane prese così l’abitudine di piangere ogni giorno sulla pianta di basilico che cresceva rigogliosa. I tre fratelli, essendosi accorti della particolare abitudine giornaliera della sorella, un giorno, in sua assenza, decisero di dissotterrare la pianta di basilico per cercare la causa della tristezza della giovane. Trovarono la testa del cadavere di Lorenzo e capirono quindi di essere stati scoperti. I ragazzi fuggirono quindi a Napoli e Lisabetta, sempre più devastata dalla malinconia morì dal dolore.
Per ulteriori approfondimenti sulla novella di Lisabetta da Messina vedi qui

Nastagio degli onesti: ottava novella del quinto giorno

Nastagio degli Onesti

, uomo ravennate, ereditò le molte ricchezze di suo padre e di suo zio, così, non essendosi ancora sposato, decise di cercare moglie. Si innamorò di una giovane, figlia di Paolo Traversaro, ma era un amore non corrisposto. Preoccupati, i suoi amici gli consigliarono di allontanarsi da Ravenna e quindi dalla donna. L’uomo per molto tempo non considerò l’idea, ma successivamente, quasi obbligato, accettò di stabilirsi a Chiasso, e lì passare una lussuosa vita con il suo denaro.
Un giorno Nastagio stava passeggiando nel bosco quando, improvvisamente, vide una giovane donna nuda e impaurita correre disperatamente. Era inseguita da mastini guidati da un cavaliere a cavallo. Nastagio quindi cercò di aiutare la donna ma il suo inseguitore gli consigliò di allontanarsi e gli spiegò il perché del suo atto: un tempo egli era molto innamorato di quella donna, ma essa per molto tempo lo aveva rifiutato provocandogli molto dolore. Così, disperato l’uomo si era dato la morte e ora egli, irato con la donna, la inseguiva ogni giorno della settimana in un luogo diverso in cui essa gli aveva recato danno. Ogni venerdì si recavano nel bosco come in quel momento, ed egli la faceva mangiare dai cani.
Sconcertato dalla visione, Nastagio chiese agli amici di portare la famiglia Traversaro e la donna protagonista della vicenda a sedersi a tavola di fronte al luogo dove prenderà luogo la scena della caccia infernale, come di consueto ogni venerdì. Concluso il banchetto i commensali videro la scena e ne rimasero inorriditi. Più di tutti la donna protagonista della visione che si rese conto del male fatto a Nastagio e, preoccupata che tale visione potesse avverarsi nella realtà, lo sposò.
Per ulteriori approfondimenti su Nastagio degli Onesti vedi qui

La nona novella del quinto giorno: Federigo degli Alberighi

Federigo degli Alberighi

era uno dei giovani più rinomati di Firenze, per ricchezze, bel parlare e comportamento. Egli si innamorò di monna Giovanna che non lo considerava e Federigo per lei sperperò inutilmente il suo denaro, e andò a vivere in una casa, con un falcone. Successivamente poi Giovanna si sposò, ed ebbe un figlio. Quando però il marito morì lasciò al figlio tutto il suo denaro, sottoscrivendo lei come successiva erede se esso fosse morto senza figli. Nell’estate Giovanna ed il figlio andarono ad abitare in una villetta vicino alla casa di Federigo, così quest’ultimo e il figlio della donna strinsero amicizia. Il giovane figlio si ammalò e chiese alla madre, come tentativo per stare meglio, di portargli il falcone di Federigo. Giovanna si recò da Federico, provocando nell’uomo un’immensa gioia. La invitò a pranzo ma non avendo nulla da offrirle, le cucinò il falcone. Alla fine del pranzo, Giovanna, con un lungo di discorso, chiese all’uomo ciò per cui era andata, ma Federigo, disperato, spiegò l’accaduto. Il figlio della donna, poco dopo morì e lei, rimasta sola con i fratelli, riconoscendo l’amore e il rispetto che Federigo nutriva per lei, si decise a sposarlo. E con il matrimonio la donna ereditò anche la cospicua dote che il primo marito, e quindi il figlio, le avevano lasciato.
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Cisti fornaio: la seconda novella del sesto giorno

Papa Bonifacio

aveva inviato alcuni suoi ambasciatori a Firenze per trattare dei suoi affari. Essi erano ospiti di messer Geri Spina e con lui sono soliti ogni mattina camminare per la strada dove si trova la bottega di Cisti, che li osservava passare.
Cisti era un umile fornaio padrone di una locanda a Firenze che offriva i migliori vini della città. Vedendo ogni giorno passare i signori, pensò di potergli offrire del suo buon vino. Ma, essendo lui di classe inferiore alla loro, e molto umile, riconosceva di non poterli invitare espressamente nella sua locanda. Quindi elaborò un piano: ogni mattina, all’ora in cui solitamente i signori passavano di fronte alla sua bottega, stanchi ed accaldati, Cisti si sarebbe seduto accanto alla porta della locanda sorseggiando il suo buon vino con gusto, in modo da essere notato dai suoi importanti futuri clienti.
Dopo alcuni giorni che messer Geri vedeva il fornaio allegro e intento a bere il suo buon vino, gli chiese di fargliene assaggiare un po’. Così Cisti lavò personalmente dei bei bicchieri e versò il vino al messere e al suo seguito che ne rimasero estasiati. Tanto da ripresentarsi ogni mattina alla locanda a sorseggiare tale buon vino.
Messer Geri in seguito organizzò una cena per salutare gli ambasciatori in partenza per Roma, e invitò anche Cisti, che però, essendo umile, rifiutò l’invito. Allora, messer Geri, inviò un suo servo a prendere del vino per offrirlo agli ospiti.
Il servo, non avendo mai potuto assaggiare quel buon vino perché sempre finito dagli ospiti, portò a Cisti un fiasco molto grande in modo che un poco del vino rimanesse per lui a cena finita. Ma, arrivato da Cisti, egli rifiutò inaspettatamente il fiasco per due volte. Così il servo, confuso, tornò dal messere che, vedendo il fiasco, si accorse subito della costernazione di Cisti e fece riportare al servo un fiasco di minori dimensioni.
Quando Cisti riportò il fiasco riempito al messere, gli spiegò il perché dei suoi rifiuti, che Geri aveva già capito, al contrario del servo. Il vino di Cisti, tanto buono, non era da lasciare ai servi per bere, era un vino pregiato, quindi, era più adatto un fiasco più piccolo per contenerlo. Messer Geri, riconoscendo grande stima per Cisti, divenne così suo grande amico.
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Guido Cavalcanti: riassunto della nona novella del sesto giorno

Usanza del 1300 in Firenze era fondare ristrette comitive, dette “brigate”, per ritrovarsi insieme a banchettare, festeggiare, divertirsi insieme.
Una di queste brigate era capeggiata da Betto Brunelleschi, il quale era desideroso di riunire sotto la sua combriccola un uomo di alta levatura sociale e culturale e molto conosciuto: Guido Cavalcanti. La brigata progettava imboscate per parlare con lui e così convincerlo ad entrare nel gruppo, ma egli sempre si rifiutava.
Un giorno, la brigata, vedendo Cavalcanti passeggiare presso San Giovanni, vicino alla porta del battistero, tra le colonne e i sarcofagi, si avvicinò velocemente a lui. Betto subito lo assalì con una curiosa domanda: egli non voleva aggregarsi alla brigata per conseguire altri interessi, apparentemente superiori. Ma cosa avrebbe fatto se egli avesse dimostrato che Dio non esiste, secondo la sua credenza da eretico?
Cavalcanti, asserragliato dagli uomini del gruppo, riuscì a liberarsi da loro dicendo che egli, Betto, poteva dire tutto ciò che desiderava, trovandosi a casa sua, e così, con un gesto atletico, scavalcò un’arca e fuggì dai suoi inseguitori.
La brigata era sconvolta dalle parole di Cavalcanti, e molti iniziarono a pensare che egli fosse pazzo. Ma Betto, essendo l’unico ad aver capito le parole dell’uomo, le spiega agli altri. Egli aveva detto loro una terribile cosa: trovandosi nelle case dei morti (vicino ai sarcofagi) essi si trovavano a casa loro, perché, a confronto di lui e di tutti gli altri uomini letterati, essi sono, per mentalità, equiparabili ai morti.
La brigata capì così cosa egli volesse dire e tutti si vergognarono di loro stessi e, da quel momento considerarono Betto un intelligente uomo e, di comune accordo, decisero di lasciare Cavalcanti ai propri pensieri.
Per ulteriori approfondimenti sulla novella Guido Cavalcanti vedi qui

Frate Cipolla: decima novella del settimo giorno

Frate Cipolla

era un buon oratore, che sapeva come parlare bene e come ammaliare i suoi ascoltatori.
Doveva recarsi a Certaldo, un piccolo paese di contadini, per raccogliere le offerte per la chiesa. Arrivato al paese, egli spiegò agli abitanti che l’elemosina era un debito alla Chiesa, e chiese loro di pagarlo, in cambio della visione della reliquia di una delle penne dell’Angelo Gabriele.
Due astuti giovani del paese, non credendo all’inganno del frate decisero di fargli uno scherzo: rubare la penna per osservare la reazione del frate di fronte alla popolazione.
Frate Cipolla si allontanò dalla sua camera lasciando il suo servo, Guccio Porco, a guardia delle sue bisacce. Il servo, un uomo di brutto aspetto e senza intelligenza, che amava le donne senza esserne mai ricambiato, decise di andare a visitare la cuoca nelle cucine della locanda. Lasciò così la stanza del padrone aperta e incustodita. I due giovani riuscirono ad entrare nella camera senza il minimo sforzo e rubare la penna e sostituirla con del carbone.
Il giorno seguente i contadini, ansiosi di vedere la reliquia, si recarono al luogo dell’appuntamento. Il frate mandò il suo servo a prendere la piuma e gli fece suonare la campana per far ascoltare il suo lungo discorso di presentazione della penna. Quando alla fine dovette far vedere la reliquia, aprì la cassetta e, vedendo al suo interno il carbone, si dilungò in lungo discorso, scusandosi con la gente. Raccontò il suo lungo cammino e le sue avventure per arrivare al paese, e presentò, alla fine, non più la penna dell’Angelo Gabriele ma il carbone, su cui era stato bruciato San Lorenzo. Concludendo il discorso il frate indicò il suo sbaglio come una scelta divina e assicurò ai contadini che chiunque avesse toccato il carbonr, sarebbe rimasto immune per un anno dal fuoco. Così raccolse le numerose e cospicue offerte.
I due giovani, presenti al discorso del frate, si divertirono molto ad osservare l’effetto della loro azione e successivamente restituirono al frate la piuma.
Per ulteriori approfondimenti sulla novella Frate Cipolla vedi

Calandrino e l’elitropia: la terza novella dell’ottavo giorno

A Firenze vivevano tre amici pittori, Calandrino, conosciuto per il suo scarso intelletto, Bruno e Buffalmacco.
Un giorno Calandrino si trovava in chiesa, venne visto da Maso del Saggio che, con un suo amico, decise di giocargli uno scherzo. I due, avvicinatisi all’uomo, iniziarono a parlare ad alta voce di alcune magiche pietre, causando l’interesse di Calandrino. Quest’ultimo chiese ai due uomini le caratteristiche di tali pietre, e dove esse si trovassero. I due complici, felici di rispondergli, gli spiegarono che le pietre magiche erano due, una con il potere di macinare la farina, e l’altra con il potere di far diventare invisibile chiunque la tenesse in mano. Tali pietre, inoltre, si trovavano vicino a un luogo in cui tutto era fatto di cibo, persino montagne di formaggio e fiumi di vino.
Calandrino molto incuriosito dalla seconda pietra, si fece spiegare dove trovarla, e corse dai suoi amici a raccontare la scoperta. I due amici, riconoscendo la beffa di Maso e divertiti per questo, continuarono il gioco e accettarono di partire con lui alla ricerca della preziosa pietra il giorno seguente.
I tre cercarono tutta la mattina, finché, all’ora di pranzo, Bruno e Buffalmacco decisero di giocare un ultimo scherzo all’amico: quando egli prese in mano l’ennesima pietra, essi fecero finta di non vederlo più.
I tre tornarono a casa e Calandrino fu molto sorpreso quando si accorse di non essere invisibile agli occhi della moglie. Ritenne quindi che ella, essendo donna, aveva fatto perdere la virtù alla pietra e la picchiò con tutta la forza.
Nel frattempo Bruno e Buffalmacco che stavano ancora ridendo dello scherzo, sentirono le urla della donna dalla casa di Calandrino e corsero a vedere cosa stesse succedendo. L’uomo li fece entrare in casa e spiegò loro la situazione. I due amici, ancora più divertiti dai pensieri sconclusionati dell’amico, ma dispiaciuti per la povera donna dolorante, cercarono di calmare Calandrino. Gli assicurarono che la perdita della virtù della pietra non era colpa di sua moglie. La colpa era la sua, perché egli, sapendo che le donne, pur senza volerlo, cancellano le virtù dalle cose, doveva avvertirla che non si avvicinasse a lui quel giorno. Calmato l’amico quindi, i due compagni lo lasciarono in casa malinconico con la moglie che, grazie alle parole dei due, si era riconciliata con il marito.
Per ulteriori approfondimenti su Calandrino e l’elitropia vedi qui
Giovanni Boccaccio: riassunto di alcune novelle del Decameron articolo

Biondello e Ciacco: riassunto breve della nona novella dell’ottavo giorno

Ciacco

viveva a Firenze e amava mangiare. Non avendo soldi per permettersi di banchettare decise di fare il cortigiano. Un giorno incontrò Biondello al mercato intento a comprare due lamprede. Quando Ciacco si informò su quel pesce, venne a scoprire che Corso Donati, un nobile fiorentino, stava per offrire un banchetto per i suoi amici nobili. Così Ciacco, deciso a partecipare al banchetto, si recò presso casa del nobile per autoinvitarsi. Ma si accorse di essere stato ingannato da Biondello e decise di fargliela pagare: ingaggiò un vagabondo affinché si recasse da Filippo Argenti con un fiasco vuoto per farsi dare del vino per rallegrare la compagnia di Biondello. Filippo Argenti sentendosi preso in giro cacciò il vagabondo e si arrabbiò con Biondello: quando lo incontrò per strada nei giorni seguenti lo picchiò. Così Biondello capì che dietro c’era Ciacco e decise di non prendersi mai più beffa di lui.
Per ulteriori approfondimenti sul Decameron vedi qui

Griselda: l’ultima novella dell’ultimo giorno

Gualtieri

era un marchese di Saluzzo, non ancora sposato, perché trovare la donna giusta era per lui molto difficile.
Si infatuò però di un’umile donna di basso ceto, e annunciò ai suoi amici di aver trovato la moglie adatta a lui. Essi, entusiasti per la notizia, organizzarono il matrimonio. Il giorno previsto per le nozze, Gualtieri si recò a cavallo, seguito dai suoi amici e dai suoi sudditi, dal padre della sua futura moglie per chiedere la mano della figlia. Egli accettò quindi e i due si sposarono.
Tutti si meravigliarono della bellezza di Griselda e facevano i complimenti al marito per averla presa in moglie. Tempo dopo Griselda rimase incinta e Gualtieri decise di mettere alla prova il suo amore per lei e la sua forza d’animo, necessaria per diventare marchesa. Si finse arrabbiato dell’arrivo di una figlia e, dopo la sua nascita, disse alla moglie di aver ucciso la bambina. La donna, pur essendo triste e addolorata, non rivelò i suoi sentimenti. In realtà Gualtieri non aveva fatto uccidere la figlia, ma l’aveva mandata a Bologna.
Poco tempo dopo Griselda rimase ancora incinta, di un maschio, e Gualtieri ancora ripeté la stessa procedura, causando un ancora più forte dolore nella povera donna che ancora non dimostrava la sua tristezza.
Quando i due figli furono ormai cresciuti abbastanza, decise di mettere un’ultima volta alla prova la moglie, dicendole di volersi sposare con un’altra donna e facendo arrivare delle lettere contraffatte dal papa che lo abilitavano a ripudiare la moglie. Griselda era devastata dal dolore ma, dimostrando ancora grande forza d’animo, non lo mostrò al marito. Inoltre rinunciò all’offerta dell’uomo di restituirle la dote donatagli per il matrimonio. Gualtieri era però molto dispiaciuto per il dolore inflitto alla moglie, nonostante fosse deciso ad andare fino in fondo. Così la fece chiamare alla sua casa per lavorare come cameriera, terribile sgarbo per una donna che egli diceva di amare.
Gualtieri, fece portare i suoi figli da Bologna, e decise di presentare la figlia come sua futura moglie. Griselda augurò alla bellissima nuova moglie di non dover passare gli stessi dolori che aveva dovuto sopportare lei a causa di Gualtieri, riconoscendo che essa, essendo probabilmente curata e cresciuta in pace, non supererebbe il dolore.
Durante la cena il marchese si rese conto della grande padronanza di sé stessa della moglie, e decise di svelare l’intricato inganno, spiegando così il perché delle sue cattiverie e scusandosi con la moglie.
Sciolto l’intrigo, Griselda si strinse al marito e ai figli, e così la famiglia si riunì felicemente. Gualtieri poté ora essere sicuro di aver scelto la donna giusta per lui.
Per ulteriori approfondimenti sulla novella di Griselda vedi qui

Domande da interrogazione

  1. Qual è lo scopo principale del proemio del Decameron di Boccaccio?
  2. Il proemio del Decameron serve a Boccaccio per presentare la sua opera, spiegando i fini per cui è stata scritta e il pubblico a cui è riservata, in particolare le donne che necessitano di svago e distrazione.

  3. Come viene descritta la peste a Firenze nel Decameron?
  4. Boccaccio descrive la peste a Firenze come un castigo divino che colpisce indiscriminatamente, portando degrado e sporcizia, con la legge non rispettata e la città in uno stato di abbandono e paura.

  5. Chi è Ser Ciappelletto e quale ruolo ha nella prima novella del Decameron?
  6. Ser Ciappelletto è un uomo irriverente e meschino che, nonostante la sua vita spregevole, riesce a ingannare un frate con una falsa confessione, diventando un santo agli occhi della gente.

  7. Qual è la trama della novella di Andreuccio da Perugia?
  8. Andreuccio da Perugia, un mercante di cavalli, viene truffato a Napoli, ma attraverso una serie di avventure e inganni, riesce a tornare a casa con un prezioso anello rubato dalla tomba di un arcivescovo.

  9. Qual è il significato della novella di Tancredi e Ghismunda?
  10. La novella di Tancredi e Ghismunda esplora temi di amore proibito e gelosia paterna, culminando in una tragica fine per Ghismunda, che si avvelena dopo la morte del suo amante Guiscardo, ucciso per ordine del padre.

Domande e risposte

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