Appunti di Diritto romano.
Secondo una ricostruzione seguita da gran parte degli storici, la nascita di Roma rappresenta l’esito di un processo di unificazione di più città realizzatosi verso la metà dell’ VIII secolo a.C tra minori comunità stanziate sul Palatino e sui colli circostanti.
• Erano comunità a base familiare, aggregazioni di familiae, unite da un progenitore eroico, spesso mitico, e con interessi condivisi di varia natura, da quelli religiosi a quelli della difesa esterna.
• Queste aggregazioni familiari si riscontrano presso altri popoli di stirpe indoeuropea a cui appartenevano anche quei latini che avrebbero dato origine al nucleo cittadino più antico sul monte Palatino: i latini denominavano queste comunità “gentes”.
• Prevalente è l’ipotesi che Roma si sia presentata inizialmente come una federazione di gentes, cioè una lega con un’assemblea rappresentativa formata dai capi-famigia (patres) delle genti più potenti, che esprimevano, a loro volta, il rex.
• La sovranità stava quindi in questa assemblea gentilizia di cui il rex appare come delegato per l’esecuzione delle decisioni assunte dai patres e per la rappresentanza all’esterno della lega.
Con l’avvento della monarchia etrusca si sarebbe avuta, poi, una redistribuzione del potere pubblico a scapito dei patres e a vantaggio del rex che, da monarca delegato, sarebbe divenuto un tiranno. Da qui la reazione rivoluzionaria da parte dei patres e delle famiglie più antiche e influenti che vrebbero cacciato il rex e instaurato, in luogo del “regnum” la res publica. In questa il governo sarebbe spettato ancora all’assemblea dei patres, denominata senatus, tramite magistrati eletti nelle assemblee del popolo, la cui scelta non poteva però prescindere dal gradimento dello stesso senato.
Una conferma di questi assetti di potere si rinviene nell’interregnum e nella sua disciplina. Il potere di auspicare era prerogativa del rex e doveva precedere l’assunzione di ogni decisione rilevante in merito al governo della città. Morto il re questo potere ritornava ai patres.
Morto il re i patres governavano la città uno alla volta per 5 giorni a testa, fino a quando un interrex avesse ritenuto fosse giunto il momento per l’assemblea di scegliere un nuovo re: ciò lascia intendere che la titolarità del potere in questione fosse dell’assemblea come di ogni singolo pater e che il monarca fosse, anche in quest’ambito, nulla più di un delegato.
L’interregno era però presente anche nella costituzione della repubblica e aveva luogo quando fossero venuti a mancare entrambi i consoli, cioè i magistrati supremi che, caduto il regno, avevano preso il posto del re. E’ quindi possibile che l’interregnum sia stato così inteso al fine di sostenere la continuità tra regnum e res publica.
Per l’età monarchica resta la questione se la scelta del nuovo re fosse del senato o se quest’ultimo si limitasse a fare una proposta al popolo e sembra difficile ipotizzare che il popolo avrebbe potuto facilmente prescindere dall’indicazione dei patres.
Diritto e giuristi nella storia di Roma.
Il Corpus Iuris Civilis.
Quanto conosciamo del diritto romano si trova riunito in un’unica raccolta di testi, che durante il rinascimento cominciò a prendere il nome di corpus iuris civilis: questa fu compilata nella prima metà del VI secolo d.C da un gruppo di esperti su incarico di Giustiniano, imperatore della parte orientale dell’impero romano.
Il Corpus Iuris Civilis è composto da quattro distinte opere: i Digesta, il Codex, le Institutiones e le Novellae.
Giustiniano iniziò, nel 528, con l’ordinare una nuova raccolta di costituzioni, a partire dal principato di Adriano, fino ai suoi tempi: un ampio Codex che avrebbe dovuto sostituire i tre precedenti: il Gregoriano, l’Ermogeniano e il Teodosiano.
Il nuovo codice fu pubblicato già nel 529, ma ebbe tuttavia vita breve in quanto, dopo soli quattro anni, fu sostituito da una seconda edizione, con una struttura diversa.
Ben presto gli intenti dell’imperatore si rivelarono di più vasta portata; nel dicembre del 530, con la costituzione Deo Auctore, egli affidò al suo ministro Triboniano l’incarico di presiedere una commissione con il compito di redigere un’ampia raccolta di testi estratta dalle opere di antichi giuristi, ordinati non cronologicamente, ma per materia, e disposti secondo una divisione in libri e in titoli.
Lo scopo era versare la parte giudicata migliore dell’antico pensiero giuridico nella forma di un codice in modo da integrare organicamente gli antichi iura (opere dei giuristi del passato) con le nuove leges (costituzioni imperiali) nel rinnovato ordine.
I commissari giustinianei dovevano, quindi:
a) Scegliere i giuristi e le opere da utilizzare;
b) Scegliere tra queste opere i brani ritenuti meritevoli di essere trascritti nella raccolta;
c) Inserire i testi nel disegno della nuova compilazione;
d) Modificare le strutture originali dei brani riprodotti, ove sembrasse opportuno alterarne i contenuti per armonizzarli in modo adeguato con lo spirito e le disposizioni del nuovo impianto codificatorio.
In tal modo la storia effettiva del pensiero giuridico romano era cancellata e salvata: mentre se ne conservavano i testi, si oscurava la memoria del suo svolgimento reale, che sopravviveva solo nei nomi dei giuristi e nei titoli delle opere, riportati all’inizio di ogni brano riprodotto nella raccolta.
Le scritture originali e i profili individuali dei singoli autori venivano come polverizzati, proprio mentre se ne salvavano le dottrine, per formare i tasselli di una specie di imponente mosaico letterario e giuridico.
Il nuovo codice, cui fu dato il nome di Digesta, fu pronto in tre anni; pubblicato il 16 dicembre del 533 e entrò in vigore il 30 di quello stesso mese. E’ composto da 50 libri divisi in sette parti, di cui soltanto le prime tre hanno una certa coerenza architettonica. I libri erano quasi tutti ripartiti in titoli, dentro i quali erano riprodotti i testi dei giuristi selezionati, montati in una sequenza tale da suggerire al lettore l’impressione di trovarsi di fronte ai frammenti ricomposti di un unico discorso, che si svolgeva per l’intero titolo: effetto a volte riuscito, a volte del tutto mancato.
La promulgazione dei Digesta non esaurì l’impegno di Giustiniano: prima ancora che essi vedessero la luce, egli aveva incaricato Triboniano di provvedere alla stesura di un manuale istituzionale perché le scuole di diritto potessero disporre di un testo aggiornato per il loro insegnamento, in grado di sostituire le vecchie istituzioni di Gaio. Anche questa nuova opera fu rapidamente conclusa, nel novembre del 533.
Sempre nelo stesso anno, Giustiniano decise anche di procedere a una nuova stesura del primo Codex, che tenesse conto dell’importante legislazione che aveva accompagnato la preparazione dei Digesta. Il nuovo codice fu pubblicato nel novembre del 534. Era diviso in 12 libri, ripartiti in titoli, all’interno di ciascuno dei quali erano collocate in ordine cronologico constitutiones da Adriano e Giustiniano stesso, sui cui testi i commissari avevano avuto facoltà di intervenire con libertà non inferiore a quella ottenuta per i Digesta.
L’attività legislativa di Giustiniano non si arrestò e, fino al 542, fu varato un notevole numero di provvedimenti legislativi, che, raccolti on il nome di Novellae, dopo la morte del sovrano, entrano a far parte dell’insieme della sua opera.
I Digesta.
Delle quattro opere che componevano il Corpus Iuris Civilis, maggior attenzione da parte dei giuristi fu attirata dai Digesta, in quanto in quelle pagine era stata conservata la parte più importante e originale dell’intera esperienza giuridica nel mondo antico.
Essi erano un insieme di un codice e un’antologia e avrebbero infatti dovuto assolvere una duplice funzione:
- Un’immediata vigenza normativa, di un’autentica codificazione che garantisse con l’autorevolezza dei classici la certezza del diritto per la rinascita della società e dello stato bizantini nel VI secolo.
- Salvare la parte ritenuta migliore dell’eredità letteraria del pensiero giuridico romano, sottraendola al disastro della sua trasmissione.
Questo salvataggio era però avvenuto sotto il peso di una doppia condizione: esso aveva implicato per prima cosa una drastica selezione. Gli scritti dei giuristi antichi non erano stati recuperati nella loro interezza, ma vennero, invece, selezionati e smembrati affinché solo una piccola parte dei resti poté essere inserita nei digesta: tutto quel che rimase fuori non fu più ricopiato in nuove edizioni e andò definitivamente disperso.
Si pensava inoltre che i testi dei digesta serbassero traccia di un diverso tipo di alterazioni, prodottesi prima della compilazione giustinianea, nella vicenda della loro tradizione manoscritta, dalla prima edizione, fino all’arrivo nelle biblioteche bizantine; e che inoltre alcune opere non fossero altro se non veri e propri falsi, composti molto più tardi e pubblicati sotto il nome di qualche antico maestro. Si ipotizzava così l’esistenza di un terzo strato di scrittura nei digesta, imputabile a interventi sia consapevoli, sia involontari da parte degli editori che avevano pubblicato nel corso del tempo l’opera utilizzata infine dai compilatori.
Il salvataggio giustinianeo implicò tuttavia un altro pesante prezzo:oltre alla selezione di ciò che si salvava e ciò che si condannava all’oblio,esso comportò sui resti conservati, la sovraimpressione di un’impronta a loro del tutto estranea: la forma del codice. Questa fu scelta da Giustiniano e dai suoi collaboratori per consentire l’impiego pratico, a fini normativi, della loro opera di recupero dell’antica tradizione giuridica. Si trattò di una decisione che facilitò il cammino moderno del diritto romano, preservandolo entro un involucro che ne assicurava la maneggevolezza e ne migliorava la fruibilità.
La forma di codice risultava quindi un contenitore resistentissimo, ma anche uno specchio deformante, che cancellava i termini autentici dell’antica cultura giuridica romana, nel momento stesso in cui contribuiva a salvarne la memoria.
Il lavoro dei giuristi romani.
Secondo i compilatori del Corpus Iuris la storia della giurisprudenza romana doveva apparire come un blocco monolitico, dotato di coesione. Se non lo immaginiamo mosso da un simile convincimento, l’intero progetto che ha ispirato la costruzione dei digesta risulterebbe incomprensibile.
Tale intuizione era giusta solo per metà: la parte di vero corrispondeva all’esistenza reale di una struttura profonda di metodi, di concetti e di paradigmi rintracciabili in modo uniforme nell’intero svolgimento del pensiero giuridico romano. La costanza di uno stile di analisi formatosi definitivamente negli ultimi secoli della repubblica e mai più abbandonato. L’errore consisteva invece nell’oscurare il lato essenziale che intorno a quel nucleo uniforme si era venuta sviluppando sin dall’inizio anche una rete di diversità, di linee evolutive non coincidenti, di individualità e situazioni storiche particolari, di contrasti culturali e di potere, la cui attenta comprensione non era meno importante per la conoscenza dell’insieme di quanto lo fosse l’esatta determinazione dei punti di unità.
Un dato rimane comunque indubbio: nella visione giustinianea come nella nostra il cuore dell’intera civiltà giuridica romana si identifica con l’attività scientifico-letteraria dei giuristi, che riguardò essenzialmente quello che noi oggi chiamiamo diritto privato.
Certo, la corrispondenza non è totale. Accanto al lavoro della giurisprudenza, l’esperienza giuridica romana conobbe un’imponente presenza della legislazione: dalle XII tavole ancora in piena epoca arcaica (metà V secolo a.C), all’attività normativa delle assemblee popolari, in età repubblicana e augustea (IV-I secolo a.C), sino all’articolarsi della legislazione imperiale.
Un ruolo non di minore importanza fu svolto dall’editto del pretore: un testo che si era venuto stratificando per secoli attraverso un lavoro che aveva coinvolto centinaia di magistrati almeno dal III secolo a.C. fino alla definitiva stabilizzazione del suo dettato all’epoca di Adriano. Ma questo insieme così vario non era mai stato concretamente operante al di fuori della fitta trama di prescrizioni, interpretazioni e integrazioni che vi aveva costruito intorno la giurisprudenza.
I giuristi romani non furono quindi solo dei sapienti, dei conoscitori o degli scienziati del diritto, ma per una parte della loro storia ne furono anche i più importanti costruttori e produttori. Anzi, l’età dell’oro del sapore giuridico romano coincise quasi completamente con la stagione della piena affermazione, nel tessuto istituzionale della società romana, di un modello che noi chiamiamo di “diritto giurisprudenziale”: di un ordine giuridico, cioè, dove la creazione del diritto era concentrata nelle mani dei giuristi, indipendentemente dal fatto che ricoprissero cariche pubbliche. Essi infatti assolvevano alla loro funzione non come magistrati del popolo romano, o come funzionari del principe, anche se durante la repubblica furono quasi sempre magistrati e spesso collaboratori o funzionari del principe nell’epoca del principato.
Quel che indichiamo come diritto romano è dunque il diritto di questi prudentes: un diritto non di leggi, non di testi normativi, non di codici, ma di giuristi, di un ceto di esperti privati non identificabile con l’amministrazione o con il governo. Quando la centralità del lavoro della giurisprudenza si venne appannando, nel III secolo d.C., a vantaggio di un’inedita concentrazione legislativo-burocratica della creazione normativa, fu l’intero diritto romano a entrare in una zona d’ombra.
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