Concetti Chiave
- “La ginestra” è il testamento poetico di Leopardi, composto nel 1836 e pubblicato postumo nel 1845, che riflette sulla natura e fragilità umana.
- La poesia critica il suo secolo per aver abbandonato il razionalismo dell'illuminismo, inseguendo un progresso illusorio e irrazionale.
- Leopardi descrive la natura come indifferente alle vicende umane, paragonando l'uomo a una formica di fronte alla forza distruttiva del vulcano Vesuvio.
- La natura umana viene vista come infelice, e l'uomo nobile è colui che riconosce e accetta la sua condizione, abbracciando la solidarietà con gli altri.
- La ginestra simboleggia la saggezza e l'umiltà, accettando la sua mortalità senza superbia, un esempio per l'uomo nel suo rapporto con la natura.

Indice
- “La ginestra”, poesia di Giacomo Leopardi
- Dialettica uomo-natura: versi 1-51
- Critica al secolo: seconda strofa, versi 51-86
- La natura umana: terza strofa, versi 87-156
- Quarta strofa: la volta celeste. Versi 157-201
- Quinta strofa: versi 201-236. La natura disinteressata
- ersi 236-296: L’eruzione del Vesuvio
- Settima strofa: La ginestra. Versi 296-317
“La ginestra”, poesia di Giacomo Leopardi
“La ginestra” è una delle ultime opere di Giacomo Leopardi, scritta a Torre del Greco (Napoli) nel 1836, e pubblicata postuma, nel 1845.
È un poemetto lirico-filosofico considerato il testamento poetico di Leopardi. In esso l’autore riflette sulla natura e sulla condizione umana. Composta di 317 versi in endecasillabi e settenari, la poesia si presenta come una canzone libera, divisibile in sette stanze di diversa lunghezza. Il tono e lo stile dell’intera opera non è regolare, si alternano versi polemici a liriche più ispirate, e ogni strofa introduce un argomento indipendente dalle altre. In ognuna, il primo verso è libero (non fa rima con nessun altro verso), mentre quello finale è sempre un endecasillabo che fa rima interna con un altro verso della stessa strofa. La lirica si apre con un esergo-citazione del vangelo di Giovanni: “l'uomo preferisce stare nella tenebra che nella luce”. Oltre alla riflessione sulla natura e sull’uomo, Leopardi in questa poesia porta avanti una critica al proprio secolo, nella seconda strofa lo definisce "superbo e sciocco" (v. 53) perché insegue l’idea di progresso.
Per ulteriori approfondimenti su Giacomo Leopardi vedi qui
Dialettica uomo-natura: versi 1-51
Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor nè fiore,
toi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d’armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l’altero monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.
La Ginestra viene scelta da Leopardi come interlocutrice del suo dialogo. Il fiore è in realtà un arbusto che si trova in alta montagna, in particolare sulle falde del Vesuvio, che il poeta ha di fronte mentre compone l’opera. Il Vesuvio è rallegrato solo da questo fiore che cresce in una condizione estremamente solitaria “toi cespi solitari intorno spargi”. La ginestra viene infatti descritta come "contenta nei deserti” e ama i luoghi tristi e abbandonati. Nei versi 21-32 Leopardi descrive i territori limitrofi al vulcano prima dell’eruzione che distrusse le città di Pompei, Stabia ed Ercolano, “coi torrenti suoi l’altero monte / dall’ignea bocca fulminando oppresse / con gli abitanti insieme” (in questi versi troviamo la ripetizione di "fur” e della congiunzione “e”). Conclude poi dicendo: ora è tutto una rovina. La ginestra con il suo profumo consola tutte queste rovine “di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola”: è l’unica cosa positiva in mezzo a un mare di negatività (nella negatività di leopardi c’è sempre un anelito a cercare qualcosa di positivo).
Per ulteriori approfondimenti sull’eruzione del Vesuvio vedi qui
Critica al secolo: seconda strofa, versi 51-86
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra se. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch’io sappia che obblio
preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
In questa strofa Leopardi dà forma alla critica verso il suo secolo, che ha abbandonato il razionalismo tipico dell’illuminismo per inseguire credenze religiose irrazionali. Il poeta si scaglia contro la fede vuota del progresso “ma il disprezzo piuttosto che si serra / di te nel petto mio”, fiducia cieca nelle possibilità dell’uomo, che in realtà è un regresso culturale. Chi si oppone al progresso è condannato alla “damnatio memoriae”, “ben ch’io sappia che obblio / preme chi troppo all’età propria increbbe” ed egli preferisce l’oblio alla sottomissione.
Per ulteriori approfondimenti su Leopardi e il progresso vedi qui
La natura umana: terza strofa, versi 87-156
Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell'alma generoso ed alto,
non chiama se nè stima
ricco d'or nè gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra,
ma se di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest'orbe, promettendo in terra
a popoli che un'onda
di mar commosso, un fiato
d'aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sì che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell'uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così, qual fora in campo
cinto d'oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl'inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contro l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch'ha in error la sede.
In questa strofa Leopardi illustra la natura umana, una condizione di infelicità di cui l’uomo prende atto. Un uomo nobile è colui che riesce a guardare con occhi mortali il suo destino, senza togliere niente al vero e ammettendo il male che ci è stato dato “Nobil natura è quella / che a sollevar s'ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato”.
Cosa possono fare gli esseri umani di fronte a questa natura comune? "Umana compagnia", creare una "social catena" e stringersi insieme, solidali, contro questa "inimica", la natura.
Per ulteriori approfondimenti sulla natura per Leopardi vedi qui
Quarta strofa: la volta celeste. Versi 157-201
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e sulla mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senza alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
In questa strofa Leopardi polemizza contro la vanità dell’ipotesi antropocentrica: il mondo non è fatto per l’uomo, e basta guardare il cielo per ricordarcelo, “ma questo / globo ove l'uomo è nulla”. Il poeta critica anche le credenze religiose che sono colpevoli di aver illuso l’uomo della propria centralità facendolo peccare di presunzione e superbia. Guardando il cielo, allora, Leopardi non sa se provare pietà per l’uomo così piccolo e insignificante di fronte alla natura “Non so se il riso o la pietà prevale”.
Per ulteriori approfondimenti sul pessimismo cosmico leopardiano vedi qui
Quinta strofa: versi 201-236. La natura disinteressata
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
d'un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
di liquefatti massi
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là sull'estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
non avvien ciò d'altronde
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Leopardi inizia questa quinta strofa con una similitudine: come il frutto maturo quando cade dall’albero distrugge un formicaio “Come d'arbor cadendo un picciol pomo”, così la natura, incontrollabile, distrugge il lavoro degli uomini (l’eruzione del Vesuvio ce lo ha dimostrato “così d'alto piombando, / dall'utero tonante / scagliata al ciel profondo, / di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina”). L’uomo conta quanto una formica per la natura, che è totalmente disinteressata alle vicende umane “Non ha natura al seme / dell'uom più stima o cura / che alla formica”.
Per ulteriori approfondimenti sul pensiero di Leopardi vedi qui
V
ersi 236-296: L’eruzione del Vesuvio
Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell'ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall'inesausto grembo
sull'arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l'usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per voti palagi atra s'aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
In questa sesta strofa Leopardi torna a raccontare dell’eruzione del Vesuvio, nei dettagli (ci parla dei vigneti e dei campi). Tutto questo per dimostrare ancora una volta che la natura è indifferente alle vicende dell’uomo “ella nol vede: / e l'uom d'eternità s'arroga il vanto”.
Per ulteriori approfondimenti sul Vesuvio vedi qui
Settima strofa: La ginestra. Versi 296-317
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
nè sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell'uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
In chiusura, seguendo una struttura argomentativa circolare, il poeta torna a parlare della ginestra. Ne esalta le proprietà, in particolare la saggezza: anche lei muore, e non si crede immortale. Non si è innalzata, ma rimane umile di fronte alla potenza della natura. Gli uomini dovrebbero fare lo stesso, smettere di essere superbi e vivere con la stessa umiltà di questo arbusto “ma più saggia, ma tanto / meno inferma dell'uom, quanto le frali / tue stirpi non credesti / o dal fato o da te fatte immortali”.
Per ulteriori approfondimenti su La ginestra vedi qui
Domande da interrogazione
- Qual è il significato principale della poesia "La ginestra" di Giacomo Leopardi?
- Come Leopardi descrive la relazione tra l'uomo e la natura nei versi iniziali della poesia?
- Qual è la critica di Leopardi al suo secolo nella seconda strofa?
- Cosa rappresenta la ginestra nella poesia e quale lezione offre agli uomini?
- Come Leopardi utilizza l'eruzione del Vesuvio per esprimere il suo pensiero sulla natura?
"La ginestra" è considerata il testamento poetico di Leopardi, in cui riflette sulla natura e sulla fragilità umana, criticando il progressismo del suo tempo.
Nei versi 1-51, Leopardi descrive la natura come indifferente alle sorti umane, usando la ginestra come simbolo di resilienza in un ambiente desolato e distrutto dall'eruzione del Vesuvio.
Leopardi critica il suo secolo per aver abbandonato il razionalismo dell'illuminismo a favore di credenze irrazionali e di un progresso illusorio, definendolo "superbo e sciocco".
La ginestra rappresenta la saggezza e l'umiltà di fronte alla natura. Leopardi esorta gli uomini a smettere di essere superbi e a vivere con la stessa umiltà di questo arbusto.
Leopardi descrive l'eruzione del Vesuvio per dimostrare l'indifferenza della natura verso le vicende umane, sottolineando che la natura non ha più cura per l'uomo di quanto ne abbia per una formica.