Concetti Chiave
- Immanuel Kant distingue i pensieri in certi e regolativi, con i primi appartenenti a saperi fondati e i secondi utili a sollevare interrogativi senza offrire risposte definitive.
- Kant propone una "rivoluzione copernicana" nella conoscenza, dove gli oggetti si conformano alle strutture mentali come spazio e tempo, piuttosto che il contrario.
- Le categorie, secondo Kant, sono concetti a priori che organizzano i dati sensoriali, essenziali per la conoscenza scientifica.
- I noumeni rappresentano la realtà indipendente dalla nostra percezione, che resta inconoscibile poiché mediata dalle strutture mentali.
- La scienza per Kant si basa su leggi certe e universali, mentre la metafisica, non essendo verificabile empiricamente, non produce vera conoscenza.
Indice
- Immanuel Kant
- La critica della ragion pura
- Estetica trascendentale
- Logica trascendentale
- Le categorie
- Gli schemi trascendentali
- La deduzione trascendentale
- L’io penso
- Scienza e metafisica per Kant
- Fichte
- La dottrina della scienza
- Conoscenza teoretica e sapere pratico
- Attività della ragione e immaginazione produttiva
- Coscienza, volontà e progetto
- Etica e diritto: l’Io e gli altri
- Schelling
- La natura come spirito visibile
- Dall’Idealismo all’Assoluto
- La filosofia della natura
- La filosofia dell’arte
- L’Assoluto come libertà e storia
- In sintesi
- Hegel
- La dialettica
- La realtà come Spirito: logica, natura e storia
- L’importanza della storia: il razionale è reale
- Eticità, libertà e Stato
- In sintesi
- Kierkegaard
- Il dramma della libertà e la scoperta dell’angoscia
- La scelta come costruzione dell’io autentico
- La disperazione e la fuga dall’io
- L’io esiste: differenze con Nietzsche e Pirandello
- I tre stadi dell’esistenza
- Conclusione
- Schopenhauer
- Il mondo come rappresentazione
- La volontà: la cosa in sé
- La volontà come causa di dolore
- L’illusione del mondo e il velo di Maya
- La via di salvezza: arte e ascesi
- Marx
- L’uomo come essere sociale e storico
- La storia come lotta tra classi
- Il capitalismo: progresso e alienazione
- La volontà come forza primordiale e critica alla razionalità
- Dionisiaco e apollineo: due forze dell’esistenza
- La morte di Dio: crollo dei valori assoluti
- Due morali in conflitto: signori e schiavi
- “Così parlò Zarathustra”: nichilismo e oltre-uomo
- L’eterno ritorno: una prova per l’oltre-uomo
- Freud
- Le origini della psicoanalisi: l’isteria e il trauma rimosso
- La seconda topica: Es, Io e Super-Io
- La libido e le fasi dello sviluppo psicosessuale
- Religione, civiltà e disagio della cultura
- Eros e Thanatos: le due pulsioni fondamentali
Immanuel Kant
La questione fondamentale che si pone Kant è se esistano saperi certi e, in caso affermativo, quali siano. Il suo obiettivo è distinguere ciò che può essere conosciuto con certezza da ciò che, invece, resta nell’ambito della probabilità.Tuttavia, Kant è consapevole che in alcuni campi non si può giungere a una certezza assoluta. Per questo introduce una distinzione tra due tipi di pensieri:
• Pensieri certi, che appartengono ai saperi fondati (come la matematica e la fisica).
• Pensieri regolativi, che non forniscono risposte definitive, ma aprono direzioni di ricerca, sollevano interrogativi e suggeriscono ipotesi di lavoro.
Un esempio di pensiero regolativo è la questione se la materia sia infinitamente divisibile: non possiamo sapere con certezza la risposta, ma questo interrogativo ha aperto la strada a scoperte fondamentali, come quella dell’atomo.
In questo contesto, Kant rivede anche il concetto di metafisica. Per lui, essa non è una scienza certa, ma conserva comunque un valore: è ciò che ci spinge a riflettere sui grandi interrogativi dell’esistenza umana. La metafisica, quindi, non offre verità dimostrabili, ma stimoli e orientamenti. Al contrario, la scienza si fonda su risposte affidabili, verificate, che non si basano solo sulla probabilità.
Un punto centrale del pensiero kantiano riguarda proprio la scienza e il rapporto di causa-effetto. Kant sostiene che per fare scienza è necessario postulare che ogni fenomeno abbia una causa. Ma questa convinzione non deriva dall’esperienza: è la nostra mente, infatti, che possiede principi a priori, cioè regole innate che ci permettono di interpretare ciò che vediamo.
Da qui nasce quella che Kant definisce la sua “rivoluzione copernicana”: non è la mente a doversi adattare agli oggetti, ma sono gli oggetti a doversi conformare alle strutture della nostra conoscenza. In altre parole, non conosciamo le cose “in sé” (cioè come sono indipendentemente da noi), ma le conosciamo come appaiono a noi, attraverso le forme che la nostra mente impone: spazio, tempo e categorie come quella di causalità.
Kant contrappone quindi due visioni:
1. Quella comune, secondo cui la mente è passiva e si adatta alla realtà esterna.
2. La sua, secondo cui la mente è attiva e contribuisce a dare forma alla realtà, rendendo possibile la conoscenza scientifica.
Secondo Kant, l’uomo, vivendo, non si limita a osservare passivamente il mondo, ma lo interpreta attraverso principi propri della mente. La realtà, quindi, non ci appare mai come è “in sé”, ma sempre come risultato dell’attività conoscitiva dell’uomo: ciò che conosciamo è filtrato e strutturato dal nostro modo di percepire e pensare.
Tutti gli esseri umani condividono gli stessi meccanismi cognitivi: le leggi attraverso cui interpretiamo il mondo sono presenti ugualmente in ogni mente umana. Questo spiega perché la scienza funziona: è universale e necessaria, perché si basa su strutture cognitive comuni.
Una delle conseguenze più importanti di questa concezione è la distinzione tra:
• Fenomeni: sono gli oggetti della conoscenza sensibile, cioè ciò che appare a noi. È il mondo così come lo percepiamo, organizzato attraverso le forme della nostra mente.
• Noumeni (o “cose in sé”): sono la realtà profonda, come esiste indipendentemente da noi. Tuttavia, non possiamo conoscerla, perché ogni nostra conoscenza passa sempre attraverso l’elaborazione soggettiva della mente.
Un esempio chiarificatore è la percezione dei colori: i colori non esistono “oggettivamente” nel mondo, ma sono il risultato di come i nostri sensi interpretano certi stimoli luminosi. Questo vale per ogni esperienza: la realtà ci appare sempre filtrata, non possiamo accedere direttamente a ciò che è fuori di noi in modo assoluto.
Per Kant, ogni tipo di realtà (sia quella dei fenomeni, sia l’idea dei noumeni) è organizzata secondo una forma, ovvero un principio che consente agli oggetti di quel mondo di relazionarsi tra loro. Le prime strutture fondamentali con cui entriamo in contatto con la realtà sono i sensi. Ma i sensi non sono semplici strumenti passivi: sono dotati di forme a priori, cioè strutture presenti nella mente prima dell’esperienza, che ci permettono di ordinare ciò che percepiamo.
Le due forme a priori della sensibilità sono:
• Lo spazio, che struttura la percezione esterna.
• Il tempo, che struttura la percezione interna (il susseguirsi degli eventi, le emozioni, la memoria, ecc.).
Senza spazio e tempo, l’esperienza sensibile sarebbe impossibile: non potremmo organizzare ciò che ci arriva dai sensi. Ma Kant sottolinea che spazio e tempo non vengono dall’esperienza: sono condizioni necessarie affinché l’esperienza possa esistere.
Dopo la sensibilità, entra in gioco l’intelletto, che lavora sui dati forniti dai sensi. L’intelletto non percepisce, ma pensa, cioè organizza, giudica, collega. Lo fa attraverso le categorie, che sono anch’esse strutture a priori. Queste categorie ci permettono, per esempio, di attribuire una causa a un effetto o di riconoscere qualcosa come oggetto.
Kant si chiede dunque quali siano i presupposti del pensiero, e per farlo analizza il funzionamento del giudizio. In logica, giudicare significa attribuire un predicato a un soggetto (“il cielo è blu”), cioè collegare concetti. I dati che i sensi forniscono all’intelletto vengono così “etichettati” e organizzati tramite questi giudizi.
In sintesi, la conoscenza, per Kant, è possibile solo grazie a una cooperazione tra sensibilità e intelletto:
• I sensi ricevono gli input dall’esterno (dati grezzi).
• L’intelletto organizza questi input secondo categorie precise, creando così un mondo conoscibile e ordinato.
Per Kant, è fondamentale individuare i principi a priori che regolano il funzionamento dell’intelletto. La sua indagine parte dalla necessità di fondare la conoscenza su basi universali e certe. Questo significa che, alla base della scienza, devono esistere delle regole e dei giudizi fondamentali che siano indipendenti dall’esperienza, cioè a priori.
Tali giudizi servono come condizione per poter poi esprimere e comprendere anche i giudizi a posteriori, cioè derivati dall’esperienza.
Kant distingue due tipi di giudizi fondamentali:
1. Giudizi analitici: sono quelli in cui il predicato è già contenuto nel soggetto. Non aggiungono nuove informazioni, ma chiariscono un concetto già posseduto. Per esempio, dire “il triangolo ha tre lati” è un giudizio analitico, perché il concetto di “triangolo” implica già l’avere tre lati. Questi giudizi non ampliano la conoscenza, ma esplicitano ciò che è già incluso nei concetti: per questo sono detti anche esplicativi.
2. Giudizi sintetici: sono quelli in cui il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto, un’informazione non contenuta nel concetto stesso. Per esempio, “il corpo è pesante” unisce due concetti che non si implicano logicamente. I giudizi sintetici ampliano la conoscenza, e per questo sono centrali per la scienza.
I giudizi sintetici si dividono a loro volta in:
• A posteriori: dipendono dall’esperienza. Sono i giudizi empirici, che derivano dall’osservazione dei fenomeni (es. “questa mela è rossa”).
• A priori: sono indipendenti dall’esperienza e presenti nella mente già prima che questa si realizzi. Sono fondamentali per costruire la conoscenza scientifica, perché permettono di dare un ordine e una struttura stabile all’esperienza.
Un esempio di giudizio sintetico a priori è il principio di causalità: “ogni evento ha una causa”. Questo giudizio non è ricavato dall’esperienza (che non ci mostra la necessità del nesso causa-effetto), ma è una regola che la nostra mente applica all’esperienza per renderla intelligibile.
Kant si pone allora la grande domanda: come sono possibili i giudizi sintetici a priori?
Per rispondere, cerca di comprendere la struttura della mente umana. Secondo lui, lo spazio e il tempo sono forme a priori della sensibilità: condizioni che permettono di percepire gli oggetti. L’intelletto, invece, applica le categorie, cioè concetti a priori, per organizzare razionalmente i dati sensibili.
Tutta la nostra conoscenza, quindi, è resa possibile da queste forme e strutture trascendentali. Con questo termine, Kant indica ciò che rende possibile l’esperienza: tutto ciò che accompagna ogni nostra rappresentazione di un oggetto e che sta alla base della conoscenza oggettiva.
Per Kant, pensare significa produrre giudizi. La maggior parte dei giudizi che facciamo sono a posteriori, ma affinché abbiano validità e coerenza, devono poggiare su giudizi a priori, che ne garantiscono la struttura e l’universalità.
A questo punto Kant si chiede: come possiamo essere certi che le categorie dell’intelletto abbiano un uso legittimo e valido?
Per rispondere, elabora la deduzione trascendentale, un procedimento che serve a giustificare l’applicazione delle categorie (come causa, sostanza, unità, ecc.) all’esperienza. È il tentativo di mostrare che queste categorie non sono arbitrarie, ma necessarie per la conoscenza: senza di esse, non potremmo mai organizzare il flusso caotico delle impressioni sensibili.
La critica della ragion pura
Nella Critica della ragion pura, Kant analizza le tre principali facoltà conoscitive dell’essere umano: sensibilità, intelletto e ragione.1. La sensibilità è la facoltà che ci consente di ricevere i dati della realtà attraverso i sensi. Essa fornisce le intuizioni, che sono rappresentazioni singolari e immediate degli oggetti. Le intuizioni si basano su due forme a priori: spazio e tempo, che non derivano dall’esperienza, ma sono presenti nella mente umana prima di ogni esperienza.
• Lo spazio è la forma del senso esterno, quindi struttura tutto ciò che proviene dal mondo fuori di noi.
• Il tempo è la forma del senso interno, e struttura la nostra esperienza interiore, come il susseguirsi degli stati d’animo, dei pensieri e degli eventi mentali.
2. L’intelletto è la facoltà che elabora le intuizioni tramite i concetti. Il concetto è una rappresentazione discorsiva e mediata, che ci permette di pensare un oggetto, cioè di organizzare e collegare le informazioni fornite dai sensi. I concetti a priori dell’intelletto sono chiamati categorie, e costituiscono le strutture fondamentali con cui l’intelletto ordina la realtà.
3. La ragione è la facoltà che spinge l’uomo a cercare l’unità incondizionata del sapere, andando oltre l’esperienza. Essa produce le idee, che sono concetti a priori riferiti a oggetti soprasensibili, di cui non potremo mai fare esperienza diretta. Kant chiama “idee” i concetti della metafisica, come:
• Mondo: la totalità dell’universo.
• Anima: la totalità dei fenomeni interiori.
• Dio: l’ente che racchiude in sé ogni cosa.
Queste tre facoltà vengono studiate in sezioni diverse della Critica della ragion pura.
Estetica trascendentale
È la parte che analizza le condizioni a priori della sensibilità, ovvero le intuizioni pure di spazio e tempo. Kant distingue:• La materia dell’intuizione, che è fornita dalle sensazioni.
• La forma dell’intuizione, che è data da spazio e tempo.
Le sensazioni, senza spazio e tempo, sarebbero caotiche; è grazie a queste forme pure che possiamo organizzarle:
• Attraverso lo spazio, le percezioni si dispongono una accanto all’altra.
• Attraverso il tempo, si susseguono una dopo l’altra.
Spazio e tempo sono necessari per ogni esperienza sensibile e, pur essendo astratti, rendono possibile una conoscenza reale e certa.
Logica trascendentale
Si occupa del funzionamento dell’intelletto e della ragione. Qui Kant analizza:• I concetti a priori dell’intelletto, cioè le categorie, che ci permettono di sintetizzare e organizzare la molteplicità delle intuizioni.
• Le idee della ragione, che cercano un sapere totale, ma non possono mai essere verificate empiricamente.
L’intelletto, quindi, utilizza i concetti per collegare tra loro i dati forniti dalla sensibilità. Questo processo è chiamato sintesi, cioè l’atto di raccogliere insieme rappresentazioni diverse in una forma unitaria.
Kant afferma che ogni conoscenza deve contenere sia intuizioni che concetti:
• Senza le intuizioni, i concetti sarebbero vuoti.
• Senza i concetti, le intuizioni sarebbero cieche.
Le categorie
Kant si concentra anche sulle strutture fondamentali del giudizio, da cui ricava le categorie. Analizzando la funzione logica dei giudizi, individua quattro gruppi principali, ciascuno con tre sottocategorie:1. Quantità (unità, pluralità, totalità): serve a determinare il numero e l’estensione.
2. Qualità (realtà, negazione, limitazione): indica il modo in cui un predicato si riferisce a un soggetto.
3. Relazione (sostanza e accidente, causa ed effetto, reciprocità): descrive il tipo di legame tra due elementi.
4. Modalità (possibilità, esistenza, necessità): riguarda il modo in cui qualcosa esiste o può esistere.
A ciascuna di queste forme del giudizio corrisponde una categoria, cioè un concetto puro che la mente usa per dare senso all’esperienza.
Gli schemi trascendentali
Ma come fa la mente a decidere quando e come applicare un certo concetto o una categoria, ad esempio “sostanza” o “causa”? Kant introduce il concetto di schema trascendentale: una regola mentale che permette di collegare un concetto puro con un’esperienza sensibile. Gli schemi sono ciò che traduce le categorie in funzione dell’esperienza concreta. Senza di essi, non sapremmo come usare correttamente i concetti a priori dell’intelletto.Nel sistema di Kant, gli schemi trascendentali svolgono una funzione fondamentale: mettono in relazione i dati sensibili con i concetti dell’intelletto. Si trovano quindi a metà strada tra la sensibilità (che fornisce le intuizioni attraverso i sensi) e l’intelletto (che lavora attraverso concetti). Lo schematismo trascendentale è la dottrina che spiega come le categorie – cioè i concetti puri dell’intelletto – possano applicarsi alle intuizioni sensibili e organizzare l’esperienza.
Anche i concetti non puri, cioè derivati dall’esperienza, hanno un loro schema, che Kant chiama schema empirico: è un’immagine o rappresentazione costruita sulla base dell’esperienza concreta.
I concetti puri, invece, sono innati (non derivano dall’esperienza) e corrispondono a schemi puri, che non si fondano su immagini ma sulla forma pura del tempo, comune a ogni esperienza sensibile. Questi schemi puri sono regole generali a priori, e consentono di collegare i concetti dell’intelletto a fenomeni che si presentano nel tempo.
Gli schemi puri possono essere suddivisi in diversi sottotipi, corrispondenti alle principali categorie. Tra i più importanti troviamo:
• Lo schema della sostanza: consiste nella permanenza nel tempo. Per Kant, diciamo che qualcosa è una sostanza quando, all’interno della linea temporale, qualcosa rimane costante nonostante i mutamenti. Ad esempio: “X è entrata in classe ma ha cambiato colore di capelli” → il cambiamento è accidentale, X resta la stessa persona. È grazie a questo schema che possiamo riconoscere l’identità attraverso i mutamenti.
• Lo schema della causa ed effetto: consiste nella successione costante e necessaria nel tempo. Quando vediamo che un evento segue sempre un altro, attribuiamo il concetto di causalità. Per esempio: do un calcio al pallone, e il pallone rotola. Non osserviamo direttamente il “legame causale”, ma la regolarità temporale ci permette di applicare lo schema della causalità.
La deduzione trascendentale
A questo punto, Kant si pone una domanda decisiva: come possiamo sapere se l’uso di categorie e schemi è legittimo?Per rispondere, Kant introduce la deduzione trascendentale. In filosofia, “deduzione” non significa solo inferenza logica, ma soprattutto giustificazione dell’origine e dell’uso di qualcosa. La deduzione trascendentale serve quindi a dimostrare che le categorie e gli schemi sono validi, e che il loro impiego è necessario e fondato per rendere possibile l’esperienza.
Kant vuole cioè giustificare che i concetti puri dell’intelletto (le categorie) non sono applicati arbitrariamente, ma sono condizioni necessarie per strutturare i dati dell’esperienza. Se possiamo dire che stiamo facendo esperienza di qualcosa, è perché:
1. Abbiamo un contenuto sensibile (ciò che i sensi ci forniscono).
2. Abbiamo la consapevolezza soggettiva che quel contenuto si riferisce a noi, cioè che “sta parlando a me”.
Ad esempio, se percepisco il caldo, non sto solo ricevendo un dato fisico, ma lo interpreto come qualcosa che mi riguarda: è la mia conoscenza che entra in relazione con quel dato sensibile. Solo se un contenuto si organizza nella nostra mente secondo certe forme e concetti, può diventare esperienza.
L’io penso
Uno dei concetti centrali della filosofia di Kant è l’“Io penso” (Ich denke), che rappresenta la facoltà unificatrice della coscienza.Si tratta della capacità umana di ricondurre alla continuità e all’unità tutto ciò che accade nell’esperienza, riferendo ogni contenuto a una sola autocoscienza. In altre parole, l’“Io penso” è ciò che permette di attribuire ogni percezione, pensiero o desiderio al mio io: è ciò che ci consente di dire “è il mio pensiero”, “è il mio desiderio”.
Grazie a questa funzione unificatrice, possiamo riconoscere come nostre tutte le esperienze che viviamo, anche se diverse tra loro e distribuite nel tempo. Abbiamo quindi la possibilità di confrontare esperienze diverse, metterle in relazione e costruire una continuità tra esse, perché tutte fanno riferimento a uno stesso soggetto, cioè noi stessi.
L’“Io penso” è il centro dell’unificazione, il punto in cui si raccolgono tutti gli atti della conoscenza. È la funzione che permette di collegare soggetto e predicato in un giudizio e di attribuire unità alla molteplicità dell’esperienza. Tutte le esperienze possibili sono rese tali solo grazie all’“Io penso”, che le organizza secondo le categorie dell’intelletto. Infatti, per Kant:
• Le categorie sono concetti puri dell’intelletto (come causalità, sostanza, ecc.).
• I giudizi si fondano su queste categorie.
• E l’“Io penso” è ciò che unifica i giudizi, rendendoli riferibili a un solo soggetto.
Tutto ciò implica che ogni conoscenza è possibile solo attraverso questa autocoscienza unificatrice. Senza l’“Io penso”, le nostre esperienze sarebbero frammentarie, prive di connessione e senza significato.
Scienza e metafisica per Kant
Kant distingue con decisione tra ciò che può essere conosciuto e ciò che non può esserlo. La scienza, per lui, non ci offre una conoscenza della realtà “in sé”, cioè indipendente da noi, ma ci fornisce delle leggi certe e universali per interpretare ciò che vediamo. La scienza è dunque una forma di conoscenza valida, fondata sull’esperienza organizzata secondo categorie e schemi a priori.
La metafisica, invece, secondo Kant, non produce conoscenza vera e propria. È una disciplina che pretende di parlare di oggetti che si trovano al di là dell’esperienza, come Dio, l’anima o la totalità del mondo. Tuttavia, essendo questi oggetti fuori dallo spazio e dal tempo, non possiamo applicare loro le categorie (che operano solo sull’esperienza sensibile).
Ne consegue che la metafisica è impossibile come scienza: non possiamo dimostrare né che Dio esista né che non esista, perché ci manca qualsiasi esperienza sensibile a cui riferire i nostri concetti. Non possiamo nemmeno usare schemi puri per parlare di Dio o dell’anima, proprio perché non sono fenomeni, cioè non si manifestano nello spazio e nel tempo.
Dunque, secondo Kant:
• La scienza è una conoscenza legittima, perché opera entro i limiti dell’esperienza.
• La metafisica tradizionale, invece, pretende di superare questi limiti e cade così nell’illusione: cerca risposte dove la ragione non può arrivare.
Fichte
Johann Gottlieb Fichte nasce a Rammenau nel 1762. Fichte si dedica alla filosofia, proponendosi di rifondare il pensiero kantiano su basi più coerenti e unitarie. Il suo obiettivo è quello di costruire un sistema filosofico che parta da un unico principio primo, capace di spiegare sia il piano teorico (la conoscenza) sia quello pratico (l’azione). Questo principio viene chiamato in vari modi: “Io assoluto”, “Essere”, “Dio” o “Assoluto”, ma in tutti i casi rappresenta l’attività originaria dello spirito umano.
La dottrina della scienza
La filosofia di Fichte prende forma nella cosiddetta “dottrina della scienza”, che non è una scienza empirica né una descrizione del mondo, ma una teoria riflessiva del sapere stesso. Si tratta, infatti, di una scienza a priori fondata sulla ragione e sull’autocoscienza, che si propone di indagare le condizioni che rendono possibile il sapere.La dottrina della scienza non si limita a costruire un sistema statico, valido una volta per tutte: è piuttosto un esercizio attivo del pensiero, un’esperienza vissuta che ogni individuo deve compiere per comprendere le ragioni del proprio conoscere e del proprio agire. In questo senso, si configura come pratica filosofica, non come mera teoria.
I tre principi fondamentali della coscienza
Fichte articola il fondamento della coscienza in tre principi, che costituiscono la base della sua filosofia:
1. L’Io pone se stesso. L’Io è l’atto originario dell’autocoscienza: non è un soggetto empirico, ma una forma pura di soggettività. L’Io si pone da sé, cioè si autodetermina. Questo è il primato dell’Io: tutto ciò che esiste per noi è tale in quanto lo rapportiamo alla nostra coscienza. L’esperienza, dunque, non è ciò che crea l’identità, bensì è l’identità (la coscienza di sé) che rende possibile l’esperienza.
2. All’Io si oppone un non-Io. L’Io, nel suo agire, si trova limitato da un elemento esterno, il non-Io, che rappresenta ciò che si oppone all’attività soggettiva. Questo non-Io non viene creato dall’Io, ma è un dato che l’Io deve accogliere. L’esperienza del limite è quindi essenziale per la presa di coscienza.
3. L’Io contrappone nell’Io all’Io divisibile un non-Io divisibile. Il terzo principio spiega come Io e non-Io possano coesistere senza annullarsi a vicenda. Fichte introduce il concetto di limitazione reciproca, attraverso cui la coscienza riconosce se stessa nel rapporto con l’altro. Questo principio mostra come ogni rappresentazione nasca da una sintesi tra l’attività del soggetto e il dato dell’esperienza.
In sintesi: l’Io si autodetermina, si trova opposto a un limite, e nella relazione con tale limite trova la possibilità di conoscersi e agire.
Conoscenza teoretica e sapere pratico
La relazione tra Io e non-Io è alla base sia della conoscenza teorica sia dell’azione pratica:• Conoscenza teoretica: l’opposizione tra Io e non-Io costituisce la struttura rappresentativa, cioè il modo in cui conosciamo il mondo.
• Sapere pratico: la coscienza non si limita a subire il limite, ma cerca di superarlo e trasformarlo, affermando la propria libertà.
Fichte afferma che ogni conoscenza nasce da un interesse pratico: il sapere non è mai neutro o puramente contemplativo, ma nasce da un’esigenza concreta di orientamento e trasformazione del mondo.
Attività della ragione e immaginazione produttiva
L’attività della ragione non è mai definitiva, ma è sempre costretta a confrontarsi con resistenze e ostacoli. Per questo motivo, non può affidarsi a schemi rigidi: deve rinnovarsi costantemente per affrontare l’alterità.Un ruolo fondamentale è svolto dall’immaginazione produttiva, che ha il compito di mediare tra i sensi e l’intelligenza, raccogliendo i dati dell’esperienza e trasformandoli in modelli mentali attraverso cui possiamo rappresentare e comprendere il mondo.
Coscienza, volontà e progetto
Per Fichte, la coscienza è essenzialmente pratica: non è solo consapevolezza, ma azione orientata da uno scopo. Ogni nostra relazione con la realtà è guidata da un progetto: la nostra volontà si orienta verso uno scopo e lo realizza in azione.Alla base della coscienza vi è la possibilità che la volontà si autodetermini in modo puro, cioè indipendentemente da spinte sensibili. La volontà pura è ciò che rende l’Io veramente libero, capace di prendere su di sé la responsabilità della propria esistenza e di attuare la propria libertà.
Etica e diritto: l’Io e gli altri
Il pensiero morale e politico di Fichte si fonda sul riconoscimento dell’altro. L’autonomia dell’individuo è possibile solo se si riconosce anche l’autonomia altrui:• La libertà di uno implica il rispetto della libertà dell’altro.
• La moralità consiste nel rendere possibile l’indipendenza della ragione in generale.
• Il diritto nasce dalla necessità di limitare la libertà di ciascuno in modo da renderla compatibile con quella degli altri.
Solo così l’Io può autodeterminarsi veramente, nella consapevolezza che la propria libertà è possibile solo in una rete di relazioni razionali e riconosciute.
Schelling
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775–1854) è una delle figure principali dell’Idealismo tedesco, accanto a Fichte e Hegel.La sua filosofia si sviluppa in stretto dialogo con il pensiero kantiano e con l’elaborazione di Fichte, ma si distingue per un tentativo originale: quello di unificare natura e spirito all’interno di un unico sistema filosofico.
Mentre Kant e Fichte partivano dalla soggettività per spiegare la realtà, Schelling propone una filosofia della natura che non riduce il mondo fisico a un semplice oggetto dell’esperienza, ma lo concepisce come dinamicamente attivo, dotato di una propria razionalità.
In un secondo momento, elabora una filosofia dell’identità, in cui cerca di superare ogni opposizione (tra soggetto e oggetto, spirito e materia, finito e infinito) riconducendo tutto a un Assoluto originario, che è unità indifferenziata.
La natura come spirito visibile
Schelling parte dalla convinzione che la natura non possa essere spiegata solo come un meccanismo, cioè come un insieme di cause ed effetti materiali.Per lui, la natura è un organismo vivente e spirituale, dotato di una propria attività interiore. La natura non è solo ciò che si vede: è una forza dinamica, creativa, che sviluppa se stessa attraverso gradi sempre più complessi di organizzazione.
“La natura è lo spirito visibile; lo spirito è la natura invisibile.”
Questa frase riassume perfettamente la concezione schellinghiana: natura e spirito non sono opposti, ma due manifestazioni della stessa realtà. La natura tende verso lo spirito, e lo spirito si riconosce come prodotto evolutivo della natura.
Dall’Idealismo all’Assoluto
Nella sua prima fase, Schelling segue la linea dell’Idealismo soggettivo di Fichte, che parte dall’Io per fondare il mondo. Tuttavia, si accorge che questo modello esclude la natura come realtà autonoma, riducendola a semplice limite o ostacolo.Per questo, Schelling cerca un principio più ampio: l’Assoluto, inteso come unità originaria in cui non c’è distinzione tra soggetto e oggetto. L’Assoluto è l’identità tra pensiero e essere, spirito e materia, idea e realtà.
Questo porta allo sviluppo della sua filosofia dell’identità, in cui si afferma che tutto ciò che esiste è manifestazione di un unico principio. L’Assoluto è un’unità indifferenziata, priva di ogni opposizione, ma capace di esprimersi in forme molteplici (la natura, la coscienza, l’arte…).
La filosofia della natura
Schelling considera la filosofia della natura come un momento fondamentale del suo sistema.Essa studia come la natura, pur non essendo ancora cosciente, manifesta una razionalità intrinseca, che si sviluppa attraverso tre stadi:
1. La materia inorganica, cioè la natura come pura estensione e meccanismo fisico.
2. La vita, cioè l’organizzazione di sistemi complessi come le piante e gli animali.
3. La coscienza, cioè il punto in cui la natura diventa consapevole di sé stessa attraverso l’uomo.
La natura, quindi, non è passiva, ma è spontaneità produttiva: genera forme, strutture, autocoscienza.
La filosofia dell’arte
L’arte occupa un posto centrale nel pensiero di Schelling. È l’unico ambito in cui l’Assoluto può manifestarsi nella sua totalità.Nella scienza e nella filosofia, infatti, l’uomo tende a separare e analizzare, distinguendo tra soggetto e oggetto.
Ma nell’arte, queste opposizioni vengono superate in modo immediato: l’artista crea un’opera che unisce perfettamente forma e contenuto, soggetto e oggetto.
L’arte è, per Schelling, la rivelazione più alta dell’Assoluto.
Nell’opera d’arte, si realizza una sintesi vivente dell’unità originaria, e proprio per questo l’arte è superiore alla filosofia stessa nel manifestare il mistero dell’esistenza.
L’Assoluto come libertà e storia
Negli ultimi anni della sua riflessione, Schelling approfondisce il concetto di Assoluto non più come unità statica e indifferenziata, ma come libertà originaria.L’Assoluto diventa allora atto creativo, che si manifesta nella storia attraverso il male e il conflitto, ma sempre come tensione verso la riconciliazione.
La storia umana è vista come il luogo in cui l’Assoluto si realizza gradualmente, attraverso lo scontro tra finito e infinito, libertà e necessità. La libertà, per Schelling, è ciò che rende possibile sia il bene che il male, e solo assumendo la possibilità del male si può comprendere pienamente la realtà umana.
In sintesi
•Natura e spirito sono due lati dello stesso processo: l’uno visibile, l’altro invisibile.•L’Assoluto è unità originaria, identità tra soggetto e oggetto.
•La filosofia della natura mostra come la natura sia attiva, dinamica, creativa.
•L’arte è la manifestazione suprema dell’Assoluto.
•La libertà è il cuore dell’Assoluto, e la storia è il luogo in cui si realizza la tensione tra necessità e autodeterminazione.
Hegel
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770–1831) è l’ultimo grande rappresentante dell’Idealismo tedesco. A differenza di Kant e Fichte, che mettevano al centro il soggetto, Hegel sviluppa una filosofia in cui la ragione si realizza nella totalità dell’essere, nella storia, nella logica, nella natura e nello spirito.Il punto di partenza di Hegel è l’Assoluto, che non è qualcosa di statico, ma una realtà dinamica, che si sviluppa attraverso un processo dialettico. Il suo sistema si fonda sull’idea che la realtà è razionale e che ogni cosa si comprende nel suo divenire.
La dialettica
Il principio fondamentale della filosofia di Hegel è la dialettica, un processo attraverso cui ogni realtà si sviluppa superando le proprie contraddizioni. La dialettica si articola in tre momenti:1. Tesi – Affermazione di una determinata posizione o idea.
2. Antitesi – Negazione o opposizione alla tesi, che la mette in crisi.
3. Sintesi – Superamento di entrambe, in cui le due posizioni si conservano e si superano a un livello superiore.
Questo processo non è puramente logico: è la struttura stessa del reale. Secondo Hegel, tutto ciò che esiste si evolve dialetticamente, cioè attraverso conflitti interni che portano a una nuova unità più alta.
La realtà come Spirito: logica, natura e storia
L’Assoluto, per Hegel, è Spirito, cioè realtà in atto che si conosce, si sviluppa e si realizza. Il cammino dello Spirito si articola in tre momenti principali:1. Logica - Lo Spirito in sé, come pensiero puro. Qui Hegel espone le categorie fondamentali del pensiero (essere, nulla, divenire…) in modo sistematico. È l’equivalente della metafisica, ma rinnovata: l’essere è razionale, e le contraddizioni non sono un ostacolo, ma il motore del divenire.
2. Filosofia della natura - Lo Spirito si esteriorizza, si “aliena” nella natura, diventando altro da sé. La natura è il momento dell’esteriorità e della molteplicità, dove la razionalità si mostra in modo imperfetto.
3. Filosofia dello spirito - Lo Spirito torna a sé stesso, si riconosce nell’uomo, nella coscienza, nella cultura e nella storia. In questo terzo momento, lo Spirito si evolve:
•come spirito soggettivo (individuale: coscienza, autocoscienza, ragione);
•come spirito oggettivo (diritto, morale, eticità);
•come spirito assoluto (arte, religione, filosofia).
L’importanza della storia: il razionale è reale
Una delle tesi più celebri di Hegel è:“Tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale.”
Con questa affermazione, Hegel non giustifica tutto ciò che accade, ma sottolinea che la storia ha una logica, un senso, che va compreso.
Lo Spirito universale si realizza attraverso gli eventi storici, anche se a volte in modo contraddittorio o tragico. Le guerre, le rivoluzioni, le istituzioni: tutto rientra in questo cammino della libertà.
La filosofia della storia mostra come l’umanità avanzi verso una progressiva presa di coscienza della propria libertà, attraverso la mediazione di popoli e Stati. Ogni epoca ha il suo “spirito del tempo”, e ogni popolo che realizza lo Spirito assoluto per un certo periodo è “popolo guida della storia”.
Eticità, libertà e Stato
Per Hegel, la libertà non è l’arbitrio soggettivo, ma la capacità di riconoscersi nelle istituzioni:• La famiglia è il primo momento dell’eticità, basato sull’affetto.
• La società civile è il luogo della libertà individuale, ma anche del conflitto di interessi.
• Lo Stato è la sintesi superiore, in cui la libertà si realizza in forme razionali e condivise.
Lo Stato è l’incarnazione della ragione nel mondo, non perché sia perfetto, ma perché esprime la razionalità storica di un’epoca. Solo all’interno dello Stato l’individuo può essere veramente libero, cioè universale.
Arte, religione, filosofia: lo Spirito assoluto
L’ultima tappa del cammino dello Spirito è quella in cui esso si riconosce come tale.
Questo avviene in tre forme principali:
• Arte: l’Assoluto si manifesta nei sensi attraverso la bellezza.
• Religione: l’Assoluto si manifesta nella forma dell’immaginazione e della fede.
• Filosofia: l’Assoluto si conosce concettualmente, cioè nella forma più alta e consapevole.
La filosofia è dunque il sapere assoluto, perché riconosce se stessa come momento finale del cammino dello Spirito. Ma non nega l’arte o la religione: le ricompone in una sintesi più alta.
In sintesi
• Hegel costruisce un sistema razionale che abbraccia tutta la realtà.• Il cuore del suo pensiero è la dialettica, come sviluppo attraverso le contraddizioni.
• L’Assoluto è Spirito che si manifesta nella logica, nella natura e nella storia.
• La storia è il processo razionale attraverso cui l’umanità conquista la libertà.
• Lo Stato è il luogo della libertà etica e della razionalità storica.
• L’arte, la religione e la filosofia sono forme diverse in cui l’Assoluto si conosce.
Kierkegaard
Søren Kierkegaard è considerato il precursore dell’esistenzialismo, una corrente filosofica che pone al centro l’esistenza individuale, la soggettività, la libertà e il dramma della scelta. La sua filosofia nasce come reazione al sistema razionale e totalizzante di Hegel, che pretendeva di spiegare ogni aspetto del reale con la logica della dialettica.Dopo la morte di Hegel, si apre un vuoto: la fiducia nell’idea di una totalità razionale viene messa in crisi. Kierkegaard, insieme a Marx, rappresenta una delle risposte possibili a questa crisi: se Marx sceglie la via della storia e della collettività, Kierkegaard risponde affermando il primato dell’individuo e della sua libertà. Mentre Marx guarda al progresso storico, Kierkegaard si concentra sull’eterno e sull’interiorità.
Il dramma della libertà e la scoperta dell’angoscia
Alla base del pensiero kierkegaardiano c’è la libertà, vissuta non come possibilità astratta ma come esperienza drammatica. La libertà è la possibilità, e questa possibilità genera angoscia. Kierkegaard è il primo filosofo a parlare in modo esplicito dell’angoscia come elemento costitutivo dell’esistenza.Un esempio è l’episodio evangelico di Gesù e Giuda: non è il tradimento in sé a essere centrale, ma l’angoscia che Gesù prova al pensiero che Giuda possa tradirlo. L’angoscia nasce davanti alla possibilità, come accade anche ad Adamo nel momento in cui Dio gli concede la libertà di scegliere. Non è il peccato a contare, ma la consapevolezza della possibilità del peccato.
La scelta come costruzione dell’io autentico
La scelta è per Kierkegaard l’atto essenziale dell’esistenza. Essa ci obbliga a confrontarci con noi stessi, a diventare autentici, cioè ad assumerci la responsabilità della nostra vita.Scegliere è difficile perché significa creare qualcosa che prima non c’era, e ciò comporta solitudine, paura, angoscia. Ma anche non scegliere è una forma di scelta: l’uomo che rinuncia a decidere sceglie comunque di vivere passivamente, conformandosi alla massa.
Questa idea anticipa in parte Heidegger, che parlerà di esistenza inautentica: vivere senza scegliere, lasciandosi vivere, equivale a perdere se stessi. Kierkegaard invece insiste: è solo nella scelta che l’uomo può diventare sé stesso.
La disperazione e la fuga dall’io
La maggior parte delle persone vive nella disperazione: non una sofferenza visibile, ma una condizione esistenziale nascosta, fatta di fuga da sé o di illusione di onnipotenza.
Per Kierkegaard, la disperazione può assumere due forme:
• la paura di incontrare il proprio io, cioè evitare la responsabilità di essere sé stessi;
• la volontà disperata di evitare il proprio io, rifugiandosi nell’apparenza, nel ruolo sociale o nel piacere.
L’uomo che vive così accetta di essere ciò che gli altri si aspettano da lui, perde la propria autenticità, e quando arriva il momento della verità, si trova svuotato, privo di identità. L’io, se non costruito con responsabilità, si dissolve in un miraggio.
L’io esiste: differenze con Nietzsche e Pirandello
A differenza di filosofi successivi come Nietzsche e scrittori come Pirandello, che vedono nell’io un’illusione, una maschera sociale, Kierkegaard afferma con decisione che l’io esiste. E tradirlo è un dramma.Il problema, però, è che la società non si interessa dell’io autentico. Questo è il pericolo più profondo: scoprire chi si è veramente e rendersi conto che nessuno se ne cura. Ecco perché, per Kierkegaard, la realizzazione piena dell’io avviene solo nel rapporto con Dio.
I tre stadi dell’esistenza
Kierkegaard individua tre “stadi” o modi di vivere l’esistenza:1. La vita estetica - È la vita vissuta all’insegna del piacere, dell’istante, dell’evitamento della noia. L’individuo estetico rifiuta la responsabilità e si rifugia nell’apparenza. Ma la sua è una felicità fragile, e sotto la superficie si nasconde una disperazione profonda: egli teme la banalità e la ripetitività, e per questo rifiuta di costruire un’identità autentica.
2. La vita etica - È la risposta alla crisi della vita estetica. L’individuo accetta di scegliere, si assume la responsabilità della propria esistenza, vive secondo doveri, valori morali e norme sociali. È un’esistenza che mira alla coerenza e all’impegno, alla costruzione consapevole del proprio io.
3. La vita religiosa - È il vertice dell’esistenza umana, ma anche il passaggio più difficile. Kierkegaard lo chiama salto della fede: non si tratta di razionalità né di etica, ma di abbandono fiducioso a Dio. È un salto nel vuoto, nell’Assoluto, che supera ogni certezza razionale.
Conclusione
Kierkegaard ci mostra che l’esistenza è fatta di scelte, possibilità, angoscia e responsabilità. L’io autentico non è dato, ma va costruito, e solo chi affronta fino in fondo la possibilità e l’angoscia può realizzarsi come persona.L’alternativa è vivere una vita fatta di maschere, fuga, disperazione nascosta. Ma anche questa è una scelta. Kierkegaard ci invita a non avere paura di diventare noi stessi – anche se essere sé stessi significa essere soli.
Schopenhauer
Arthur Schopenhauer (1788–1860), contemporaneo di Hegel ma suo profondo oppositore, rappresenta una svolta decisiva nella filosofia occidentale: abbandona la fiducia nella razionalità come guida dell’esistenza e apre la strada all’irrazionalismo moderno. La sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), propone una visione completamente nuova della realtà, in cui la razionalità viene sostituita da una forza oscura, potente, non conoscibile con il pensiero: la volontà.Schopenhauer si oppone con forza all’idealismo hegeliano, che pretendeva di spiegare il mondo attraverso un sistema razionale e totalizzante. Al contrario, egli sostiene che la realtà è governata da un principio oscuro, irrazionale e inconscio, che la ragione non può comprendere pienamente.
Dietro l’ordine apparente del mondo si nasconde un caos vitale, che non segue leggi logiche ma è mosso da impulsi ciechi.
Il mondo come rappresentazione
Nella prima parte del suo libro, Schopenhauer descrive il mondo come rappresentazione, riprendendo in parte la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Per lui, la realtà che conosciamo è solo apparenza soggettiva: ciò che ci si presenta è sempre filtrato attraverso le forme a priori della nostra mente, cioè spazio, tempo e causalità.Il mondo è quindi ciò che rappresentiamo, non ciò che è in sé. Non esiste oggettivamente, ma solo in relazione a un soggetto che lo percepisce. Questa visione lo avvicina a Kant, ma mentre per Kant la “cosa in sé” resta inconoscibile, Schopenhauer ritiene che sia possibile intuirla — anche se non conoscerla razionalmente.
La volontà: la cosa in sé
Il vero fondamento della realtà, ciò che si cela dietro l’apparenza, è la volontà.Questa non va intesa come scelta consapevole o razionale, ma come forza cieca, primitiva, incessante, che si manifesta nella natura, negli uomini, negli animali, nelle pulsioni più profonde.
La volontà di vivere è il nucleo della nostra esistenza. Si esprime in modo continuo nei desideri, negli impulsi, nella spinta a sopravvivere. Il nostro corpo ne è la chiave: esso è, al tempo stesso, oggetto percepito (rappresentazione) e manifestazione della volontà (sentita internamente come fame, sete, bisogno…).
La volontà come causa di dolore
Secondo Schopenhauer, la volontà genera dolore.Perché? Perché desidera continuamente e non è mai soddisfatta. Ogni volta che otteniamo qualcosa, nasce un nuovo desiderio, oppure, peggio, arriva la noia.
La vita oscilla quindi tra dolore (causato dal desiderio insoddisfatto) e noia (che arriva quando il desiderio è appagato).
La nostra esistenza è perciò inevitabilmente segnata dalla sofferenza. E non solo la nostra: questa volontà cieca è universale, e si manifesta in tutta la natura. Non esiste alcun fine, alcun senso: tutto è guidato da una spinta irrazionale e cieca.
L’illusione del mondo e il velo di Maya
Per descrivere la nostra condizione, Schopenhauer utilizza un’immagine tratta dal pensiero orientale, che influenzò profondamente il suo pensiero: il velo di Maya.Questa divinità induista simboleggia l’illusione del mondo sensibile, che ci impedisce di cogliere la realtà autentica. Il mondo che vediamo è una maschera, un inganno, che nasconde la vera essenza delle cose.
La via di salvezza: arte e ascesi
Come si può sfuggire a questo ciclo di desiderio e sofferenza? Schopenhauer individua due vie di liberazione:1. L’arte - Nell’esperienza estetica, il soggetto si libera temporaneamente dalla volontà: contempla il mondo in modo disinteressato, senza desideri. L’arte è una pausa dal dolore, una forma di sospensione del volere.
È attraverso l’arte — soprattutto la musica, la più pura di tutte — che l’uomo può intuire la volontà in modo profondo e universale.
2. L’ascesi - È la via più radicale. Il santo, il mistico, colui che pratica la rinuncia, nega la volontà, spegne ogni desiderio, si distacca dalla vita e dalle sue passioni. Solo chi riesce a spegnere la volontà può liberarsi definitivamente dal dolore.
Schopenhauer ci offre una visione tragica dell’esistenza, in cui l’essere umano è schiavo di forze oscure, dominato da una volontà cieca. Tuttavia, ci indica anche una via di uscita, un modo per trascendere il dolore e raggiungere una forma di pace, anche se fragile o estrema.
Con lui nasce una filosofia nuova, profondamente influenzata dal pensiero orientale, che abbandona il mito del progresso razionale e guarda alla vita come lotta continua. È il primo filosofo moderno a parlare così profondamente di desiderio, corpo, sofferenza, arte e rinuncia, anticipando molte delle tematiche che saranno centrali nell’esistenzialismo e nella psicoanalisi.
Marx
Karl Marx prende spunto dal pensiero di Hegel, ma compie un’operazione rivoluzionaria: ribalta completamente la direzione della filosofia. Per Hegel, infatti, la realtà si sviluppa a partire dalle idee, attraverso una dialettica interna allo Spirito. Marx, invece, sostiene che non sono le idee a muovere il mondo, ma i fatti concreti e materiali: sono i bisogni reali, i rapporti di lavoro, le condizioni economiche a determinare la storia.Marx accetta la struttura dialettica del pensiero hegeliano (cioè il movimento per opposizioni e superamenti), ma la applica alla materia. Secondo lui, la vera forza che guida la storia non è lo Spirito, ma il lavoro umano, le relazioni economiche, le lotte tra classi. È così che nasce la dialettica materialista: una visione in cui l’uomo concreto e le sue condizioni di vita diventano il centro dell’analisi storica e filosofica.
L’uomo come essere sociale e storico
Per Marx, l’essere umano è legato in modo profondo alla realtà in cui vive. Non esiste un’essenza umana astratta o fissa. L’uomo si costruisce attraverso la storia, il rapporto con la natura e le relazioni sociali.Il lavoro è il primo elemento che definisce l’uomo: trasformando la natura, l’uomo trasforma anche sé stesso. E questo processo è sempre condizionato dal contesto storico: ciò che in un’epoca è considerato normale (come ad esempio la schiavitù) in un’altra può sembrare inaccettabile. Ogni caratteristica dell’uomo, quindi, dipende dall’ambiente e dal momento storico in cui vive.
Ma l’uomo non vive da solo. Per Marx, l’identità dell’individuo nasce dal rapporto con gli altri. Non siamo esseri isolati, ma creature sociali che vivono in comunità, lavorano insieme, si organizzano in classi. Ed è proprio il modo in cui sono organizzati i rapporti di lavoro a plasmare la società.
La struttura e la sovrastruttura della società
Per spiegare come funziona ogni società, Marx introduce due concetti fondamentali: struttura e sovrastruttura.
• La struttura è la base economica su cui si regge tutto il resto. Comprende:
• le forze produttive, cioè i lavoratori, le conoscenze tecniche, l’energia, le capacità;
• i mezzi di produzione, come le macchine, le terre, le fabbriche;
• i rapporti di produzione, ovvero le relazioni economiche tra le classi (come servo e padrone nel feudalesimo, o operaio e capitalista nel capitalismo).
•La sovrastruttura è tutto ciò che serve a giustificare e mantenere l’ordine economico esistente. Ne fanno parte:
• il diritto;
• lo Stato;
• la religione;
• le ideologie, cioè i valori, i principi, le convinzioni che la società presenta come universali, ma che in realtà servono a difendere gli interessi della classe dominante.
Un esempio: i diritti umani, pur presentandosi come principi astratti e neutri, in realtà, secondo Marx, servono a legittimare l’ordine borghese, difendendo la proprietà privata e il sistema capitalistico. Nessun valore, quindi, è davvero neutrale: ogni valore nasce dentro un contesto sociale ed economico preciso.
La storia come lotta tra classi
La storia, per Marx, è sempre il risultato di un conflitto tra classi. In ogni epoca c’è una classe dominante che possiede i mezzi di produzione, e una classe oppressa che produce ricchezza ma non ne gode.
Questa lotta si ripresenta sotto forme diverse:
• Nella fase primitiva, i beni erano condivisi;
• Nell’età antica, esisteva la schiavitù (come in Grecia e a Roma);
• Nell’età feudale, i servi lavoravano gratuitamente per i signori;
• Nell’età capitalista, gli operai sono pagati, ma non possiedono ciò che producono.
Queste trasformazioni avvengono attraverso rivoluzioni: la classe emergente entra in conflitto con i vecchi rapporti economici, e quando è abbastanza forte, li abbatte e crea un nuovo sistema. Il capitalismo stesso, secondo Marx, è nato da una rivoluzione borghese, che ha sconfitto la vecchia aristocrazia feudale.
Il capitalismo: progresso e alienazione
Marx non demonizza il capitalismo, ma lo considera una fase storica necessaria. Anzi, riconosce i suoi meriti: il capitalismo ha reso possibile uno sviluppo tecnico e produttivo senza precedenti. Ha rivoluzionato i rapporti di lavoro, ha portato progresso e ha fatto crollare i vecchi privilegi.Ma nonostante questo, è un sistema contraddittorio. Alla base del suo funzionamento c’è l’ingiustizia: il profitto nasce dallo sfruttamento del lavoro altrui. L’operaio crea ricchezza, ma non ne possiede i frutti.
L’operaio è alienato, cioè separato da sé stesso:
• non possiede ciò che produce;
• il lavoro non lo realizza, ma lo riduce a ingranaggio;
• perde la creatività, è sottomesso alla macchina;
• viene visto come un mezzo, non come una persona;
• e finisce per vedere il capitalista come nemico.
Ma questa condizione, secondo Marx, non è destinata a durare per sempre.
Verso la rivoluzione e il comunismo
La classe proletaria, la più numerosa e sfruttata, è anche quella che ha la maggiore forza rivoluzionaria. Quando prenderà coscienza della propria condizione, capirà di essere il vero motore della produzione. A quel punto, secondo Marx, non ci sarà alternativa: la rivoluzione sarà inevitabile.
Questa rivoluzione porterà:
1. a una fase di dittatura del proletariato, cioè a un potere temporaneo esercitato dalla classe operaia per eliminare le disuguaglianze;
2. alla nascita di una società comunista, dove non esistono più classi, né Stato, né sfruttamento. Ogni individuo contribuirà secondo le proprie capacità e riceverà secondo i propri bisogni.
Il celebre slogan di Marx è:
“Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.”
Marx costruisce una filosofia radicalmente nuova, che unisce analisi economica, pensiero critico e progetto politico.
Rifiuta l’astrazione della filosofia idealista, ma non per questo rinuncia alla teoria. Anzi: la sua è una filosofia della prassi, cioè del pensiero che cambia il mondo.
Il comunismo, per Marx, non è un’utopia, ma una possibilità concreta, che emergerà dalle contraddizioni interne del capitalismo stesso.
L’uomo, alienato e sfruttato, potrà finalmente riconquistare la propria umanità, non attraverso sogni o morali, ma attraverso un cambiamento reale dei rapporti materiali.
Nietzsche
Nietzsche
Nietzsche parte da un’intuizione condivisa con Schopenhauer: la realtà non ha un ordine razionale, ma è pura volontà, caos, energia vitale irrazionale. Non c’è uno scopo, né un disegno superiore. Il mondo è una tensione continua, una forza che spinge a desiderare e superare continuamente sé stessa.
Spesso Nietzsche è stato frainteso e persino associato al nazismo, ma questa interpretazione è storicamente falsa. La confusione nasce dalla manipolazione dei suoi scritti più tardi da parte della sorella Elisabeth, che ne distorse il pensiero per adattarlo a tesi nazionaliste e pangermaniste. In realtà, Nietzsche non parla mai di razza superiore, ma è certamente anti-egualitario, critico della democrazia, e aristocratico nello spirito: per lui, non tutti sono in grado di sostenere la forza dell’esistenza.
La volontà come forza primordiale e critica alla razionalità
Per Nietzsche, ogni essere vivente è espressione di una volontà irrazionale, senza scopo ultimo o direzione predeterminata. Questa volontà non vuole “qualcosa” in particolare: vuole volere, vuole continuare a desiderare.Per sostenersi, però, la volontà ha bisogno di illudersi, di costruire immagini e forme, mondi apparenti. È come se ognuno di noi fosse un personaggio illusorio dentro un gigantesco “videogame” animato da una sola forza. La religione, la scienza, la filosofia, lo Stato sono tutti tentativi umani di creare ordine nel disordine, di costruire impalcature che ci facciano sentire sicuri.
Ma nessuna di queste costruzioni è vera in senso assoluto: sono utili, servono alla vita, ma diventano dannose se vengono scambiate per realtà oggettive. Nietzsche critica, ad esempio, lo Stato hegeliano, visto da Hegel come “Dio sulla Terra”: per lui lo Stato è uno strumento utile, ma non deve mai diventare un idolo che annulla le individualità.
Dionisiaco e apollineo: due forze dell’esistenza
Un altro punto centrale è l’interpretazione dei valori della Grecia antica. Nietzsche distingue due atteggiamenti fondamentali:• Il dionisiaco rappresenta il caos, l’estasi, la fusione con il flusso vitale. I riti dionisiaci, la musica, la danza sfrenata sono espressioni di un’unità primordiale con la natura e con la vita.
• L’apollineo, al contrario, è la misura, la forma, l’equilibrio: serve a contenere, razionalizzare, separare.
L’uomo ha bisogno di entrambi. Senza una parte apollinea, sprofonderebbe nel delirio. Ma se si affida solo alla razionalità, si ammala: diventa un “razionalista assoluto”, rinnega la propria animalità, la propria spiritualità. La salute consiste nel saper alternare le due forze, senza scambiare l’illusione per realtà.
La morte di Dio: crollo dei valori assoluti
Nietzsche annuncia la “morte di Dio” come metafora del crollo di tutte le certezze metafisiche. Non si tratta solo della religione cristiana, ma di ogni schema oggettivo che pretende di spiegare il mondo: Dio rappresenta l’idea stessa di un ordine assoluto.Quando “Dio muore”, gli uomini si trovano disorientati, senza punti di riferimento. È il momento del nichilismo, cioè della presa di coscienza che nessun valore ha fondamento oggettivo.
Nietzsche descrive un processo storico di demitizzazione:
1. Con Platone, il “mondo vero” è il mondo delle Idee.
2. Il Cristianesimo sposta il mondo vero nel Paradiso, al di fuori della vita terrena.
3. Kant lo chiama “noumeno” e afferma che possiamo solo pensarlo, non conoscerlo.
4. Il Positivismo nega del tutto la dimensione trascendente.
5. Infine, Nietzsche dichiara che il mondo vero non serve più: i valori non sono dati, ma vanno creati dall’uomo.
Due morali in conflitto: signori e schiavi
Nietzsche individua due modi opposti di concepire la morale:• La morale dei signori nasce dall’affermazione di sé, dall’espansione vitale, dall’energia interiore. Non nega gli altri, ma esprime pienezza, superiorità spirituale e fisica. È la morale di chi è libero e forte.
• La morale degli schiavi, al contrario, nasce dal risentimento. È il “no” alla forza altrui, è la rivincita dei deboli, che rovesciano i valori e fanno passare la debolezza per bontà, l’umiltà per virtù.
Esempi di “moralità dei signori” possono essere: il guerriero eroico, il genio creativo, persino Gesù sulla croce che accetta il proprio destino senza odio. Ma questi modelli sono stati progressivamente soffocati da un’etica “per tutti” che condanna ogni forma di eccellenza e superiorità.
“Così parlò Zarathustra”: nichilismo e oltre-uomo
Nella sua opera più simbolica, Così parlò Zarathustra, Nietzsche presenta una figura profetica che predica un’anti-morale dopo aver scoperto che i valori tradizionali erano solo illusioni. Zarathustra non annuncia verità nuove: invita l’uomo a diventare creatore di nuovi valori.
A questo punto, Nietzsche individua due atteggiamenti possibili di fronte al crollo dei valori:
1. Nichilismo passivo – rappresentato dall’“ultimo uomo”: è colui che, preso atto dell’assenza di senso, si rifugia nella comodità e mediocrità quotidiana, evita il dolore e si anestetizza con piccoli piaceri. Non si dispera come Schopenhauer, ma nemmeno lotta per creare qualcosa di nuovo.
2. Nichilismo attivo – incarnato nell’oltre-uomo: è chi accetta il vuoto di senso e lo supera creando i propri valori. Per l’oltre-uomo, il senso della vita è lui stesso: è colui che si dà una forma e una missione, che ama la vita nonostante (e grazie al) suo caos.
L’eterno ritorno: una prova per l’oltre-uomo
Una delle immagini più potenti del pensiero nietzscheano è quella dell’eterno ritorno. Nietzsche chiede:“E se tutto ciò che hai vissuto dovesse ripetersi identico all’infinito?”
Accettare questa possibilità significa abbracciare totalmente la vita, con ogni gioia e dolore. Chi riesce a dire “sì” all’eterno ritorno, è colui che ha trasformato il caos in valore, che non ha bisogno di un senso oggettivo, perché dà significato a ogni cosa che vive.
Per Nietzsche, l’universo è privo di struttura, e gli uomini costruiscono sistemi razionali – religioni, scienze, morali – solo per proteggersi dal caos. Ma quando questi sistemi vengono presi come “verità”, diventano gabbie mentali.
La morte di Dio ci libera da questa illusione, ma ci lascia anche senza punti di riferimento. Qui si biforca il cammino:
• Possiamo accontentarci della mediocrità dell’“ultimo uomo”;
• Oppure possiamo diventare oltre-uomini, accettare il caos, amare la vita per quella che è e diventare creatori di nuovi valori.
In quest’ottica, Nietzsche non è un pessimista, ma un pensatore vitale, esigente, profondamente moderno, che ci invita a vivere con coraggio, senza illusioni, ma con immaginazione e forza creativa.
Freud
Freud non è un filosofo in senso stretto, ma uno psicoanalista che ha rivoluzionato profondamente il modo in cui l’essere umano guarda a sé stesso, portando alla luce dimensioni psichiche sconosciute prima della sua opera. La sua teoria si inserisce all’interno di una trasformazione culturale più ampia, accanto a pensatori come Darwin e Nietzsche: se Darwin aveva dimostrato che l’uomo è parte della natura e non superiore ad essa, Freud mostra che l’uomo non è padrone nemmeno di sé stesso, perché è governato da forze inconsce.Proprio come Nietzsche e Schopenhauer, anche Freud sostiene che gli esseri umani si raccontano delle storie razionali per giustificare comportamenti che in realtà nascono da impulsi istintivi e irrazionali. Insieme a Marx e Nietzsche, viene definito uno dei “maestri del sospetto”, perché smaschera ciò che si nasconde sotto le apparenze della coscienza, portando alla luce una verità scomoda ma fondamentale: le nostre scelte non sono del tutto consapevoli.
Le origini della psicoanalisi: l’isteria e il trauma rimosso
Freud sviluppa la sua teoria partendo da casi concreti: cercava di curare pazienti affetti da isteria, un disturbo psicosomatico ritenuto all’epoca legato a problemi sessuali o cerebrali. Collaborando con il medico Breuer, Freud inizia a usare l’ipnosi per aiutare i pazienti a ricordare eventi traumatici dimenticati. È celebre il caso di Anna O., una paziente con numerosi sintomi (paralisi, idrofobia, tosse nervosa), che migliorò una volta ricordato, durante l’ipnosi, un episodio infantile rimosso.Freud capisce così che i traumi troppo dolorosi vengono rimossi dalla coscienza e spinti nell’inconscio, dove continuano ad agire attraverso sintomi fisici e psicologici. È questa l’intuizione che segna la nascita della psicoanalisi.
La prima topica: conscio, preconscio, inconscio
Freud suddivide inizialmente la mente in tre livelli:
• Conscio: ciò di cui siamo consapevoli.
• Preconscio: pensieri e ricordi non presenti alla coscienza, ma recuperabili volontariamente.
• Inconscio: luogo profondo e oscuro dove si accumulano traumi, paure e desideri inaccettabili, rimossi dalla coscienza.
L’inconscio è il centro dell’indagine psicoanalitica. Il terapeuta esplora questo spazio nascosto attraverso:
• Libere associazioni: il paziente, sdraiato, lascia fluire i pensieri senza controllo. Le catene associative portano a ricordi rimossi.
• Analisi dei sogni: per Freud, ogni sogno è l’appagamento camuffato di un desiderio inconscio. Occorre distinguere tra:
• Contenuto manifesto: ciò che sogniamo in apparenza.
• Contenuto latente: il vero significato del sogno.
Un altro strumento sono gli atti mancati (es. dimenticanze, lapsus), che rivelano conflitti inconsci nascosti.
La seconda topica: Es, Io e Super-Io
Nella fase matura del suo pensiero, Freud riorganizza la struttura della personalità in tre istanze:•Es: è l’inconscio più profondo, un “calderone” di pulsioni primitive. Funziona secondo il principio del piacere, vuole ciò che è gratificante e immediato. È istintivo, irrazionale e amorale.
• Super-Io: è l’insieme delle regole, divieti e valori morali interiorizzati durante l’educazione. Agisce come una voce giudicante dentro di noi, spesso senza che ne siamo consapevoli. Non è del tutto cosciente, ma ci influenza profondamente.
• Io: è la parte razionale e cosciente. Funziona secondo il principio di realtà e ha il compito di mediare tra i desideri dell’Es e i divieti del Super-Io. L’Io cerca di soddisfare i bisogni senza entrare in conflitto con la realtà o con le norme morali.
Queste tre istanze sono sempre in conflitto tra loro, e da questo nasce il dinamismo psichico dell’individuo.
La libido e le fasi dello sviluppo psicosessuale
Un concetto centrale nella teoria freudiana è quello di libido, intesa non solo come energia sessuale, ma come forza vitale del desiderio. È simile alla “volontà” di Schopenhauer o alla “volontà di potenza” di Nietzsche, ma con un focus più marcato sul piacere.
La libido si sviluppa attraverso varie fasi psicosessuali:
1. Fase orale: nei primi mesi di vita, il piacere è concentrato sulla bocca (suzione).
2. Fase anale: tra 1,5 e 3 anni, il piacere deriva dal controllo delle funzioni escretorie.
3. Fase fallica: tra 3 e 5 anni, il piacere si concentra sui genitali. Qui si sviluppa il complesso di Edipo (attrazione per il genitore del sesso opposto e rivalità con l’altro) e, per le bambine, la controversa teoria dell’invidia del pene.
4. Fase genitale: nella pubertà, la sessualità si organizza in forma adulta e matura.
Freud introduce anche il concetto di sublimazione: la libido può essere deviata verso attività superiori (arte, scienza, spiritualità), trasformando il desiderio in creatività.
Religione, civiltà e disagio della cultura
Per Freud, la religione nasce da un bisogno infantile di protezione: Dio è la proiezione della figura paterna, amato e temuto. La religione è un’illusione rassicurante, ma non per questo priva di valore psicologico.La civiltà, invece, è il risultato della convivenza sociale, ma comporta un prezzo psichico: la necessità di reprimere desideri (soprattutto sessuali e aggressivi) per vivere in armonia con gli altri. Questa repressione crea frustrazione, senso di colpa e nevrosi.
Lo Stato, quindi, è un male necessario: serve a tenere a bada le pulsioni distruttive, ma deve cercare di non essere troppo repressivo. Un totalitarismo, che esaspera la funzione repressiva, è per Freud un pericolo. Al contrario, una democrazia equilibrata, che limita la sofferenza e valorizza la libertà individuale, è il modello ideale.
Eros e Thanatos: le due pulsioni fondamentali
Secondo Freud, dentro ogni essere umano agiscono due forze contrapposte:• Eros: è la pulsione di vita, che spinge verso la creazione, l’amore, la relazione, l’unione. Include la sessualità, ma anche l’amicizia, la solidarietà, l’arte.
• Thanatos: è la pulsione di morte, che spinge verso l’aggressività, l’odio, la distruzione, l’autodistruzione.
Queste due pulsioni non sono separabili, ma convivono in ogni individuo. Ogni nostra azione nasce da un equilibrio (spesso instabile) tra queste due forze.
Nella società, Eros permette la cooperazione e la costruzione di istituzioni, ma Thanatos è represso. Questa repressione crea disagio: l’aggressività non espressa si rivolge verso l’interno, causando senso di colpa e nevrosi.
Freud ci presenta una visione profonda, ma anche disillusa dell’essere umano: non è mosso solo da ragione e volontà, ma soprattutto da forze oscure e pulsionali. La cultura è un compromesso doloroso ma necessario, e lo Stato deve trovare un equilibrio tra ordine e libertà, tra repressione e appagamento.
Nel pensiero freudiano, l’uomo non è mai totalmente libero, ma nemmeno completamente determinato. Può conoscere le forze che lo abitano, portare alla luce i suoi traumi e le sue pulsioni, rielaborarli e trasformarli, raggiungendo un fragile ma possibile equilibrio.
Domande da interrogazione
- Qual è la distinzione fondamentale che Kant fa tra i tipi di pensieri?
- Come Kant definisce la sua "rivoluzione copernicana" nel contesto della conoscenza?
- Qual è il ruolo delle categorie secondo Kant?
- Cosa intende Kant con il termine "noumeni"?
- Qual è la differenza tra scienza e metafisica secondo Kant?
Kant distingue tra pensieri certi, che appartengono ai saperi fondati come la matematica e la fisica, e pensieri regolativi, che non forniscono risposte definitive ma aprono direzioni di ricerca e sollevano interrogativi.
La "rivoluzione copernicana" di Kant consiste nell'idea che non è la mente a doversi adattare agli oggetti, ma sono gli oggetti a conformarsi alle strutture della nostra conoscenza, come spazio, tempo e categorie.
Le categorie sono concetti a priori dell'intelletto che permettono di organizzare e collegare le informazioni fornite dai sensi, rendendo possibile la conoscenza scientifica.
I noumeni, o "cose in sé", sono la realtà profonda che esiste indipendentemente da noi, ma che non possiamo conoscere direttamente poiché ogni nostra conoscenza è mediata dalla mente.
La scienza offre una conoscenza valida e universale basata sull'esperienza organizzata secondo categorie a priori, mentre la metafisica non produce conoscenza vera poiché tratta di oggetti al di là dell'esperienza sensibile.