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Concetti Chiave

  • L'estetismo e il simbolismo influenzano la cultura del tardo '800, con l'estetismo che promuove l'idea dell'arte per l'arte e il simbolismo che utilizza un linguaggio analogico per decifrare la realtà sensibile.
  • La letteratura italiana del periodo post-unitario riflette la crisi del Risorgimento, con diverse correnti letterarie che reagiscono in modi unici ai problemi dell'Italia appena unita.
  • Il movimento della scapigliatura è caratterizzato da un forte ripudio della politica italiana e si ispira a modelli francesi, utilizzando temi provocatori e linguaggio irriverente per scandalizzare la borghesia.
  • Giosuè Carducci rappresenta una figura centrale nella letteratura italiana post-unificazione, noto per la sua doppia anima di poeta celebrativo dell'Italia e critico della sua realtà sociale e politica.
  • Il simbolismo si sviluppa come reazione alla crisi del positivismo, con poeti che esplorano la realtà attraverso simboli e corrispondenze nascoste, trovando ispirazione in Baudelaire, considerato il padre della poesia moderna.

Indice

  1. L'influenza dell'estetismo e simbolismo
  2. La crisi post-unitaria in Italia
  3. Movimenti letterari dell'Italia unita
  4. La scapigliatura e il suo impatto
  5. Emilio Praga e la poesia scapigliata
  6. Giosuè Carducci: il poeta nazionale
  7. La vita e le opere di Carducci
  8. La poesia intima di Carducci
  9. Il dolore di Carducci in "Pianto Antico"
  10. L'amore e la malinconia di Carducci
  11. La neve e la vecchiaia in Carducci
  12. La crisi del positivismo
  13. Il decadentismo e il simbolismo
  14. Baudelaire e la poesia moderna
  15. L'albatro e il poeta
  16. Corrispondenze: il simbolismo di Baudelaire
  17. Paul Verlaine e i poeti maledetti
  18. Il languore di Verlaine
  19. Arthur Rimbaud: il poeta veggente
  20. Rimbaud e le vocali
  21. Mallarmè e la poesia pura

L'influenza dell'estetismo e simbolismo

A influenzare la cultura del tardo '800 sono l'estetismo e il simbolismo.

L'estetismo nasce in Inghilterra da un gruppo di intellettuali che si incardina al principio dell'arte per l'arte, un'idea secondo cui l'arte sia un'esperienza superiore con lo scopo di ricercare la bellezza in se stessa e non un fine civile o psicologico. Gli esponenti più importanti dell'estetismo sono Oscar Wilde e Gabriele D'Annunzio. Il simbolismo nasce in Francia ed è una corrente la cui poetica pone al centro un linguaggio analogico, si muove quindi non attraverso collegamenti logici diretti ma su altri parametri come il simbolo che deve avere capacità di illudere e di alludere per decifrare ciò che si cela dentro la realtà sensibile.

La crisi post-unitaria in Italia

La letteratura italiana appena nata in questo nuovo Stato, in un'Italia del 1861 affetta da gravi problemi politici, economici e sociali ma anche strutturalmente (mancano infatti palazzi, scuole e ospedali). Il Paese deve essere costruito anche fisicamente e non solo idealmente. Restano ancora presenti questioni sociali come quella meridionale contro il brigantaggio e la malavita.

La fase finale della svolta risorgimentale coincide con la presa di coscienza riguardo la crisi profondissima che non si è vista bene fino a quando il Paese non si è formato. Le speranze devono ora scontrarsi con fatti reali di difficile gestione; si raggiungono i sogni ma crollano gli ideali e le speranze. De Sanctis afferma come “quando si è formata l'Italia si è formata”

Movimenti letterari dell'Italia unita

Nasce quindi una nuova struttura intellettuale del Paese che si riforma, rinasce, e contemporaneamente si sforma la struttura precedente. Gli intellettuali dell'Italia unita hanno un ruolo in contrasto con il loro ruolo pre-unificazione. La struttura intellettuale cambia direzione, il Paese non deve nascere ma deve crescere. La letteratura fino al primo conflitto mondiale è la conseguenza dei tentativi di risposta al sistema italiano. I diversi modi di affrontare la realtà sono vincolati a questa situazione. Tale fase presenta tante sensibilità diverse in risposta ai problemi dell'Italia unita.

1. Gli scapigliati, del movimento della scapigliatura, un movimento composto da intellettuali e scrittori che soffrono a causa del momento storico e rispondono in modo violento, scomposto, non trovando pace.

2. Carducci, che propone in risposta al caos culturale e strutturale un ritorno tentato e illusorio al classicismo che però ormai sa di stantia e di vecchio.

3. I veristi, del movimento del verismo, che come massimo esponente hanno Verga, che formulano una lettura amara e complessa che punta al vero, lo guarda in faccia e ne mostra la realtà.

4. Pascoli, che fa della poesia lirica la sua arma, pone al centro del cuore della sua poesia l'Io e scrive versi visionari e angoscianti tanto personali quanto legati a ogni uomo.

5. Gli estetisti, del movimento dell'estetismo, fra cui Gabriele D'Annunzio, caratterizzato da un moto di orgoglio fortissimo che esalta il bello, il dominio del superuomo, figura introdotta da Nietzsche, e la bellezza come valore assoluto.

Dopo la fase dei grandi dubbi si arriva al conflitto mondiale che chiude la fase della Nuova Italia e dà inizio ad una fase che si porta dietro i fermenti e le questioni ancora attive e vive.

La scapigliatura e il suo impatto

Il termine “scapigliatura” viene dal romanzo di Cletto Arrighi in cui si fa riferimento a una data importante, ossia il 6 febbraio 1853, giorno in cui scoppia una rivolta mazziniana fallita. Arrighi lo riferisce a un gruppo di uomini ribelli e rivoltosi di giovani insofferenti e poco affini al governo. Questi giovani compongono il primo gruppo di fermento letterario e prendono nome di scapigliati nel decennio '60-'70 in cui si svolgono una serie di proteste verso la cultura ufficiale dell'Italia appena nata e la borghesia. Gli scapigliati provano un forte ripudio verso la politica italiana e la accusano di non aver perseguito fino in fondo gli ideali di libertà e uguaglianza e di negare i problemi che dopo l'unità stanno venendo sempre più alla luce. Tanti obiettivi sono stati schivati, l'Italia è unita ma è ancora lontana da un'uguaglianza sociale, non si è favorito in particolare lo sviluppo democratico del Paese perché la classe dirigente è la borghesia che ha bisogno di essere forte economicamente e non è quindi nel suo interesse raggiungere un'uguaglianza. La scapigliatura nasce nelle grandi città dove le disuguaglianze sono più evidenti come Milano e in generale Lombardia e Piemonte.

Il fulcro tematico e i modelli si ispirano a quelli degli autori francesi come Charles Baudelaire e Edgar Allan Poe con cui si rifiutano le forme sognanti e gli ideali romantici a cui vengono contrapposti la violenza e accesi toni realistici. Lo scopo degli scapigliati è quello di scandalizzare, stupire, di suscitare sconcerto attraverso testi e atteggiamenti provocatori.

Chi deve essere scandalizzata è la borghesia, l'uomo conformato e conformista attraverso anche il brutto, il blasfemo, il demoniaco e forme di anticlericalità in forma scandalistica. Per rispondere alle proprie esigenze l'autore ricorre a un linguaggio, a un lessico e a una sintassi prosastici. Nei testi c'è un'irriverenza, un prendere in giro in modo aggressivo, un profondo sarcasmo. I temi tipici della scapigliatura sono tabù come la pazzia, la necrofilia, il masochismo, con uno sbilanciamento linguistico da elevato a un volgare più basso. In questo momento storico l'intellettuale rifiuta il ruolo di guida che aveva avuto fino a qualche decennio prima. L'artista viole sconvolgere, scandalizzare, c'è piena coscienza dell'emarginazione che vive lo scrittore in quanto non è utile. L'artista non ha l'interesse per l'utile, per il concreto, ma vuole gridare la sua condizione. La figura dell'intellettuale isolato dalla società che riguarda questo periodo viene dalla Francia sul modello esasperato e anti-conformista dei poeti maledetti.

È in questa chiave che si motiva la breve vita dei poeti, scrittori, intellettuali scapigliati che non hanno stili di vita regolari e che spesso abbracciano anzi la povertà e gli abusi. Pur con buone idee seguono la corrente anti-conformista, l'idea di rivolta segue modelli autodistruttivi e in realtà finiscono per adattarsi conformisticamente a un certo tipo di vita distruttiva e che riguarda ogni istante della vita dell'autore. Emilio Praga è esemplare perché rappresenta la vita di molti autori scapigliati morendo di tisi a 37 anni in solitudine. Negli anni che seguono il 1870 la scapigliatura sarà vista come una parentesi scomoda da dimenticare nel clima di una cultura ottimistica ufficiale aperta a un progresso che deve risolvere tutto. La scapigliatura, con la sua strenua e decisa opposizione nei confronti dell'ottimismo dell'Italia appena fatta è invece una tappa importante perché è un termine di confronto al movimento polemico del verismo che farà un percorso simile.

Emilio Praga e la poesia scapigliata

Noi siamo i figli dei padri ammalati:

aquile al tempo di mutar le piume,

svolazziam muti, attoniti, affamati,

sull'agonia di un nume.

Nebbia remota è lo splendor dell'arca,

e già all'idolo d'or torna l'umano,

e dal vertice sacro il patriarca

s'attende invano;

s'attende invano dalla musa bianca

che abitò venti secoli il Calvario,

e invan l'esausta vergine s'abbranca

ai lembi del Sudario...

Casto poeta che l 'Italia adora,

vegliardo in sante visioni assorto,

tu puoi morir!... Degli antecristi è l'ora!

Cristo è rimorto !

O nemico lettor, canto la Noia,

l'eredità del dubbio e dell'ignoto,

il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo,

e il tuo loto !

Canto litane di martire e d'empio;

canto gli amori dei sette peccati

che mi stanno nel cor, come in un tempio,

inginocchiati.

Canto le ebbrezze dei bagni d'azzurro,

e l'Ideale che annega nel fango...

Non irrider, fratello, al mio sussurro,

se qualche volta piango :

giacché più del mio pallido demone,

odio il minio e la maschera al pensiero,

giacché canto una misera canzone,

ma canto il vero!

Composta nel novembre del 1864 apre la raccolta poetica di Praga.

“noi” al vv 1 intende tutti gli scapigliati, generazione esausta alla fine della sua vita;

gli aquilotti svolazzano attoniti sull'agonia di un nume, ossia un dio morente (riferimento a Nietzsche); Praga intende un dio sia nel senso religioso che negli ideali civili e politici come Manzoni che ormai anziano e agonizzante (vengono quindi meno i caposaldi che hanno caratterizzato l'inizio del secolo);

al vv 5 “l'arco” si riferisce all'immagine biblica dell'arca dell'alleanza su cui si trovavano le tavole di dio e mostra la scomparsa dei valori religiosi dal mondo contemporaneo;

al vv 6 “l'idolo d'or” è il vitello d'oro (immagine sacra) che simboleggia il denaro, l'utile e l'economico cui è tornato l'uomo;

al vv 7 scrive come dal vertice sacro (immagine biblica) si attenda invano, invano perchè non arriverà, un nuovo Mosè, un salvatore per gli uomini del mondo contemporaneo;

al vv 9 scrive come si aspetti invano dalla “musa bianca”, ossia la poesia religiosa, e quindi gli inni sacri del Manzoni, che da secoli si è ispirata a valori angelici, al Calvario, monte dove fu crocifisso Gesù. Si aspetta una poesia religiosa, un nuovo vate, invato: la poesia religiosa è ormai spenta e “l'esausta vergine”, ossia la musa bianca, tenta invano di appigliarsi ai lembi del Sudario, lenzuolo che avvolgeva il corpo di Cristo, ossia ai temi sacri che hanno ispirato fior fiori di poeti;

al vv 35 il “casto poeta” è il poeta della purezza, e quindi Manzoni: “vegliardo in sante visioni assorte” che significa “nobile vecchio che ti perdi nei tuoi pensieri religiosi”, “tu puoi morir! Degli anticristi è l'ora! Cristo è rimorto!”(allude al dio morto di Nitzsche);

nella quinta strofa il lettore è chiamato “nemico”. “Canto la noia” è una citazione di Baudelaire che dà una definizione del lettore che dice “Tu ipocrita lettore, mio simile, mio fratello”. Leopardianamente il poeta può scagliarsi contro gli uomini ma siamo tutti fratelli. Praga dice di cantare la noia, il frutto dell'incertezza e dell'ignoto. Il “re, pontefice e boia”, rappresentanti del potere religioso, politico e di chi tronca la vita con la violenza, sono gli oppositori della noia.

il “loto” al verso 20 simboleggia lo schifo, il fango, la tristezza. “Il tuo cielo e il tuo loto” rappresenta l'oscillazione fra ideali e realtà;

il canto delle preghiere può essere cantato sia dal martire che dal blasfemo, sia dal bene che dal male senza saper distinguere cosa giova e cosa fa male;

Praga dice come i sette peccati capitali siano inginocchiati nel suo cuore a pregare come in un tempio;

al vv 25 i “bagni d'azzurro” rappresentano la purezza dell'Ideale opposti all'Ideale che sprofonda nel fango;

nel corso di dieci versi il lettore passa da “nemico” a “fratello” (vv 27), Praga prova pietà e compassione verso tutti gli uomini per il senso di malessere e sofferenza diffusi e condivisi da molti; riferendosi al lettore, gli chiede di non prenderlo in giro se qualche volta piange;

scrive nel vv 29 che la sofferenza interiore lo fa impallidire, odia il minio, quindi la falsità, e la maschera del pensiero, l'ipocrisia di chi, fatta l'Italia, ne nega i problemi; dato che canta una misera canzone canta il vero. Vede in faccia l'acerbo vero di Leopardi ancora più doloroso.

La poesia è estremamente senza speranze, il punto di arrivo è dire le cose come stanno: Manzoni è ormai un cadavere, un residuo di valori della prima metà del secolo. La poesia è mortifera, fatta di energie distruttive ma che nel distruggere mostra la realtà.

Emilio Praga è un autore scapigliato rappresentativo del nuovo tipo di intellettuale. Praga soffre molto nella sua vita, è artista, letterato e pittore. Viene abbandonato dalla moglie che porta con sé il figlioletto. Colma la delusione con l'alcolismo e le droghe che aggravano la sua tubercolosi a causa di cui muore giovane a 37 anni di tisi.

La sua natura travagliata, in modo più diretto rispetto al Leopardi, lo porta a descrivere situazioni di sofferenza e alienazione. La sua vita denota un disagio personale, soffriva di nevrosi, e un disagio storico, sociale e politico. Il suo lavoro poetico oscilla fra gli estremi della componente idilliaca, festosa, serena, delicata, a cui contrappone un gusto per il satanismo, il demoniaco e l'oscuro. Praga ha una serie di affinità con il capostipite dei simbolisti Charles Baudelaire e dopo aver letto l'opera “I fiori del male” rimane folgorato. Baudelarie si ritaglia una posizione di primissimo piano sul panorama letterario.

Arrigo Boito dà una definizione dell'opera di Praga “Penombra” del '64 che si ispira a “I fiori del male” chiamandola come “una bestemmia sublime e strana”. La definizione piace a Praga perché lui stesso aveva dato una definizione simile al testo di Baudelarie dicendo come l'opera fosse “un'imprecazione cesellata nel diamante”. Un altro punto di somiglianza fra Praga e Baudelarie è il modo di rivolgersi al lettore. Baudelarie si era rivolto al lettore chiamandolo “nemico” e “amico” insieme, allo stesso modo Praga mostra un'ostilità dovuta a un senso di impossibile legame con la società e quindi con il lettore. Nonostante i punti di contatto fra i due autori Praga ha un'individualità come autore. La peculiare funzione della poesia spapigliata è quella di misurarsi con la cultura ufficiale italiana classicista che ha idoli come Manzoni. Il manifesto della scapigliatura è “Preludio” che apre la raccolta “Penombre” composta da una poesia provocatoria e ribelle; una ribellione di chi soffre (chi si mette in mostra è spesso chi soffre di più). L'argomento riguarda come la vecchia poesia sia defunta e ne stia nascendo un altro, che non ha certezze, garanzie o modelli a causa di un disagio, una sofferenza, una debolezza. Praga afferma come “ciò che dice sia il vero” e che quindi la situazione devastata che descrive sia la realtà più netta.

Arrigo Boito, pur essendo una scapigliata, dà alla scienza un ruolo importante nella sua poesia.

Igino Ugo Tarchetti scrive il romanzo Fosca che tratta il tema della bruttezza. Tarchetti va contro la condizione imposta dal canone di bellezza e mostra un interesse per i temi lasciati in sordina. Il brutto è inteso come ciò che è veramente orrendo, in modo sconvolgente, che lascia senza parole. Tale idea di bruttezza si concretizza nel romanzo Fosca. Fosca è una venticinquenne epilettica e brutta, da una magrezza eccessiva. Giorgio è un giovane soldato baldanzoso a servizio di un colonnello parente di Fosca. Giorgio è innamorato della bella Clara ma quando incontra Fosca, ospite dal colonnello, inizia una perversa e morbosa attrazione per la giovane. I due consumano una notte d'amore dopo la quale Fosca muore.

Giosuè Carducci

Giosuè Carducci: il poeta nazionale

Giosuè si pronuncia con la e accentata ma l'autore si è sempre chiamato Giosue senza accento. Giosuè Carducci nasce nel 1835 a Val di Castello in provincia di Lucca e muore a Bologna nel 1907.

La letteratura della nuova Italia appena unita trova in Carducci un esponente fondamentale e illustre. Carducci se me rende conto, si accorge della sua grande fama, e nel corso degli anni si atteggia a poeta nazionale, a poeta del destino della patria che glorifica la nazione e le sue grandi imprese. Carducci diventa celebre perché rende l'Italia unita anche in poesia ma oggi è famoso per un altro lato della sua poetica. Il Carducci retorico e celebrativo che innalza l'Italia e la celebra ci interessa poco; il valore letterario di questo Carducci lascia il tempo che trova. Il lato del Carducci che ci interessa è quello che sa interpretare il paesaggio autentico, travagliato e difficile dall'Italia pre-Unità all'Italia post-Unità. Il Carducci affronta con satira e sarcasmo una polemica e una critica sulla situazione italiana ma non arriva mai all'ebbrezza e alla morbosità degli scapigliati prendendo di mira questo periodo. Carducci non ha paura di far ricorso anche all'ironia, alla malinconia o alla cupezza. Fino alla sua morte coesisteranno nel poeta due anime: quella che celebra l'Italia e quella che, invece, la critica.

Carducci è un classicista a tutti gli effetti. A volte usa una poesia celebrativa formale e retorica, altre il classicismo diventa strumento di evasione, di fuga, dallo squallore e dalla decadenza del quotidiano.

Le sue due anime vedono il Carducci che da un lato cerca di resistere alla crisi celebrando l'Italia, e dall'altro partecipando alla crisi, osservandola e criticandola dall'interno, descrivendola ironicamente e satiricamente. Da un lato Carducci rifiuta la crisi ma dentro sé la vede e prova verso di essa il sentimento di frustrazione di tanti altri. Carducci capisce che i problemi ci sono ed è inutile nasconderli dietro una poesia celebrativa. Allo stesso tempo è consapevole della sua portata mediatica e vuole mantenere la sua fama, fama che lo porterà a vincere nel 1906 il premio Nobel per la letteratura.

La vita e le opere di Carducci

Giosuè Carducci nasce a Val di Castello in provincia di Lucca e cresce nella Maremma Toscana, diviso fra la natura salvaggia (selvaggia davvero, è stata infatti invasa fino a buona parte del '900 da zanzare che portavano la malaria) e i libri del padre medico e con a cuore l'Unità d'Italia. I libri sono sia classici che romantici e Carducci riceve una formazione duplice. Nel '49 inizia a studiare lettere antiche a Firenze. Nel '53 pubblica un testo che gli costerà un'accesa polemica, motivo per cui usa un falso nome, intitolato “Inno a Satana” in cui attacca la Chiesa e in cui mostra la sua posizione anticlericale.

Nel '53 viene ammesso alla Normale di Pisa e dopo essersi laureato nel '56 inizia l'insegnamento nei licei fra cui quello a San Miniato. Nel '57 si trasferisce a Firenze dove lavora per l'editore Barbera per cui cura una lunga raccolta di classici, lavoro che richiede buone conoscenze di filologia. Nel '59 sposa Elvira Menigucci da cui avrà cinque figli di cui il primo muore pochi giorni dopo la nascita e Dante a tre anni di epilessia. Il dolore per la perdita di quest'ultimo figlio lo porterà a scrivere “Pianto Antico”.

Nel '60 insegna al liceo Forteguerri di Pistoia per poco tempo. A 25 anni è chiamato a insegnare a Bologna alla cattedra di eloquenza dove lavorerà fino al 1904. Intorno gli '60 cresce la fama di Carducci che è sempre più stimato per la sua poesia che celebra le grandi imprese della seconda e della terza guerra d'indipendenza. Grazie a questa poesia diventa il poeta nazionale. Il pubblico lo preferisce a forme di poesia antinazionale, ai tentativi di scandalizzare e di creare disagio. La prima stagione di poesia celebrativa si conclude nel '68 con la raccolta “Levia Gravia” (“Levia” sono i fatti leggeri mentre “Gravia” quelli pesanti). In Carducci emerge la vena battagliera, patriottica, anti-clericale e democratica. Vuole glorificare l'idea dell'Italia fatta e forte.

Nel '72 conosce Carolina Cristofori Tina di cui si innamora perdutamente e con cui inizia una relazione amorosa. Nelle lettere la chiama Lina o Lidia per mascherarla. È una donna colta e brillante che incontra a Bologna mentre insegna all'università. L'epistolario dedicato a Carolina Cristofori è fra le cose più belle che il Carducci scrive. Da qui in avanti la sua fama cresce a dismisura e nessuno mette in discussione il suo ruolo. Nel '72 escono le tre Primavere Elleniche mentre nel '77 pubblica la prima edizione della sua opera più celebre, “Odi Barbare” e nell'82 esce l'opera “Giambi ed Epoli”.

Nell'87 esce “Rime Nuove” e nell'89 l'ultimo libro in versi intitolato “Rime e Ritmi”. A 24 anni si innamora di Annie Vivanti, una poetessa con cui trova un'affinità di gusto e vocazione. I due si influenzano a vicenda e Carducci incoraggia la carriera di lei. È l'ultimo grande amore del poeta a cui scrive fior fiori di lettere e a cui dedica molte liriche. In questo amore in particolare emerge il lato ironico e appassionato del poeta. Nel 1890 inizia un progressivo ma inesorabile allontanamento del Carducci dal poeta nazionale, che è sempre più uomo e sempre meno simbolo della nazione.

Nella vecchiaia, lui che era fermamente democratico, si avvicina agli ambienti monarchici, incontra il re e la regina e inizia a nutrire una fiducia verso la monarchia costituzionale. Inizia così a scrivere anche in una direzione monarchica vivendo una conversione politica, appoggiando anche l'arrivo di Crispi. Nel 1904 abbandona l'insegnamento all'università e lascia la sua cattedra al allievo principale, Giovanni Pascoli. Nel 1906 vince il premio Nobel per la letteratura e nel 1907 muore a Bologna.

Quando muore viene subito celebrato da tutti come il poeta dell'unità nazionale. Il Carducci in realtà ha il merito di avere raccontato meglio gli anni degli impulsi della nascita della nazione, di aver fatto da sottofondo, di aver accompagnato con la poesia le vicende dell'Unità.

Carducci è stato poeta e critico letterario. Come tutte le grandi fame anche la sua basata su meriti patriottici ma ben presto il Carducci retorico e patriottico viene rivalutato. Già dal 1910 i critici definiscono il Carducci antiquato dal punto di vista stilistico e riducono il loro giudizio alla figura di un formalista classicista estraneo alle inquietudini dell'età moderna. Il Carducci poeta nazionale finisce imbalsamato nell'immaginario collettivo perchè visto prigioniero di un classicismo retorico e esteriore che non ha spazio per una poesia ispirata celebrativa. Si inizia a guardare all'altro lato del Carducci che parla anche di sentimenti e di amore. Viene rivalutato il Carducci che è testimone sarcastico dell'amara realtà che caratterizza l'Italia.

Alla fama non giova la conversione politica dovuta all'incontro con il re Umberto e la regina Margherita da cui si lascia convincere e suggestionare, con cui passa da essere un repubblicano convinto a un sempre più forte acclamatore della monarchia. La prospettiva politica di una futura monarchia costituzionale è però un abbaglio; Carducci vede nella coppia una garanzia di stabilità e la sua vicinanza alla destra storica e in particolare a Crispi è malvista soprattutto dai giovani, fra cui molti suoi studenti che nel 1891 lo insultano davanti l'università.

La sua conversione politica descrive e parla di lui così come delle contraddizioni e delle tensioni che tutta Italia sta vivendo. Tale passaggio qualcuno lo identifica in modo diretto ma c'è anche chi, come Carducci, lo celebra o chi è portato a cambi di prospettiva radicali.

La poetica del Carducci più che da un classicismo parte da un nazionalismo letterario che si pone in contrasto con un romanticismo cosmopolita degli anni precedenti. Il Romanticismo si basa sulla coesistenza di più Stati, di tante nazioni alla pari, mentre nel nazionalismo una nazione si pone sopra le altre. Col passare degli anni Carducci legge testi francesi e tedeschi e si interessa alla cultura europea; è quindi ingiusto dire che è soltanto un classicista retrogrado quando invece si interessa a ciò che è innovativo. Nonostante la sua libertà mentale, si rifiuta di entrare volontariamente in quella modernità. C'è qualcosa che lo trattiene, lo ferma al di là di quella modernità, e questo qualcosa è l'incapacità di accettare il clima malato, polemico e critico dell'Italia post-unificazione; il disagio profondo che gli scapigliati e i veristi pongono al centro delle loro opere, Carducci quasi non lo vuole ammettere ma emerge nelle sue poesie più belle. Pur non volendo parlare del dolore condiviso e pur non essendo sua volontà trattare certi temi, alcune poesie danno voce a una malinconia. Carducci non vuole parlare di amarezza o di disagio, non vuole trattare il male di vivere. Il poeta per Carducci non può essere una figura malinconica che coglie un disagio e lo trasmette in un testo. Per il Carducci il poeta deve essere “il lavoratore della parola con muscoli d'acciaio”quindi deve rivolgersi al pubblico per inseganre qualcosa e non per dar voce a pulsioni viscerali ed emotive.

Lo vediamo ad esempio nei frequenti attacchi al suo pubblico, attacchi satirici e sarcastici ma mai come gli scapigliati: Carducci lascia il pubblico provocato e punto, non vuole lasciarlo scandalizzato, non è della scuola del Praga o di Baudelaire. Il Carducci strapazza e punge il suo pubblico ma alla fine lo vuole educare, vuole mantenere integra la sintonia fra lettore e autore. La missione del poeta deve essere essere ascoltato e visto come colui che può insegnare.

Questo è il Carducci posto come vate e modello ma esiste anche un Carducci più intimo, meno veemente, retorico e politico ed è il Carducci che troviamo nell'opera “Rime Nuove” che comprende le poesie scritte fra il '61 e l'87. Contemporaneamente alle opere politiche e retoriche inizia quindi a interessarsi alla sua intimità e interiorità e in questi testi pur non volendo, tocca una sofferenza condivisa. In questa raccolta, coesistono spinte esuberanti e esibizioniste ma anche un universo di ripiegamenti malinconici in cui il Carducci parla di sé e non dell'Italia e se ne parla, pur non ammettondolo esplicitamente, mostra di percepire un disagio. Scrive diverse poesie di carattere autobiografico in cui il tema fondamentale sono la Maremma Toscana, il luogo dell'animo del poeta, della sua infanzia serena, un luogo positivo a cui il poeta fa ritorno attraverso il ricordo, e la tragica morte del figlio Dante che muore a tre anni di meningite.

La morte del figlio è un lutto devastante per il poeta che esprime il suo strazio incommensurabile nella poesia “Pianto Antico” e nelle lettere al fratello. La svolta decisiva della poetica del Carducci si ha negli anni '70 quando arriva il secondo amore della sua vita Carolina che dà un impulso fortissimo alla sua vena lirica e privata del poeta che compone tre poesie dichiaratamente amorose: le tre Primavere Elleniche scritte dal '71 al '72 in cui la donna amata è celata dietro il nome di Lidia (dal nome dell'amata di Orazio).

Davanti a una poesia d'amore il lettore prova stupore ed è sconvolto ulteriormente dal fatto che Carducci sogna di evadere da un mondo meschino e squallido, da un presente malato come lo intendono gli scapigliati, e di evadere insieme a Lidia in una Grecia esotica e mitica, in una sorte di arcadia. Improvvisamente l'immagine del poeta patriota e di austero professore inizia a incrinarsi e lui stesso ne è consapevole, il pubblico è sorpreso da questa nuova ispirazione e su un piano stilistico Carducci si catapulta indietro a forme classicheggianti dei primi anni di attività poetica. Nel corso degli anni '70 ha un'ispirazione poetica che lo conduce al vero Carducci. Dà vita a una nuova forma sperimentale formale e metrica del tutto nuova che prende il via dalle Odi Barbare del 1877 (per i greci coloro che venivano da fuori erano balbuzienti).

Le Odi suonano in modo strano agli orecchi dei lettori perchè il poeta introduce il metro barbaro. La lingua italiana si basa su accenti sulle sillabe mentre le lingue latina e greca basano il loro ritmo sulla lunghezza delle vocali (esistono la e breve e la e lunga, la o breve e la o lunga). Carducci applica la lunghezza delle vocali all'italiano e crea una combinazione di metriche della tradizione antica attraverso cui vuole conferire alla poesia italiana una sensibilità musicale e ritmica nuova, tipica delle lingue classiche. Non ha più importanza solo l'accento ma anche la lunghezza delle sillabe. L'esito paradossale è che il Carducci prende di quanto più antico per introdurre una modernità usando un metro antico per rinnovare una forma metrica antica. Il Carducci è sia il classicista retorico che scopiazza, sia il classicista vero che ha saputo cogliere attraverso una forma sperimentale e innovativa la base della poesia moderna. Nel farlo abolisce la rima, stravolge la lunghezza a cui il lettore è abituato, spezza la musicalità quasi cantabile della poesia tradizionale italiana. Dà a una poesia barbara un ritmo e una musicalità che non sono più quelle italiane, dà una diversa sillabazione che spiazza e disorienta il lettore che sente qualcosa di troppo diverso da ciò a cui è abituato. Il vero paradosso del Carducci è che approda ad una modernità tornando indietro e lo fa meglio di chiunque altro.

La poesia intima di Carducci

Dolce paese, onde portai conforme

L’abito fiero e lo sdegnoso canto

E il petto ov’ odio e amor mai non s’addorme,

Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

Ben riconosco in te le usate forme

Con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto,

E in quelle seguo de’ miei sogni l’orme

Erranti dietro il giovenile incanto.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;

E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;

E dimani cadrò. Ma di lontano

Pace dicono al cuor le tue colline

Con le nebbie sfumanti e il verde piano

Ridente ne le pioggie mattutine.

Fra i temi più cari del Carducci c'è la Maremma Toscana in cui ha vissuto gli anni da bambino. A fine aprile 1875 torna nei luoghi della sua infanzia; Carducci è ormai adulto e qualche settimana prima ha avuto una lieve paralisi al braccio destro che lo ha portato ad avere un senso di morte immenente che lo angoscia molto. La poesia Traversando la Maremma Toscana fa parte della raccolta Rime Nuove che comprende testi scritti fra il 1861 e il 1887 in cui appare sia il Carducci retorico e patriottico che il Carducci più intimo. Traversando la Maremma Toscana è un tipico esempio in cui emerge la vena più intima e lirica dell'autore, se ne va la componente retorica pesante e prevalgono l'interiorità e il sentimento.

Se la sua personalità deriva dalla terra il Carducci ha sì un carattere fiero e orgoglioso e consapevole del suo ruolo ma è anche dolce (“dolce paese” vv 1). Non fa solo l'autodescrizione che corrisponde all'idea che tutti hanno di lui. Nel vv 5 cita il Petrarca “ben riconosco in te le usate forme”. Scrive Carducci in una lettera all'amico Chiarina “il verso 5 è del Petrarca ma non se ne vuole andare”. Le prime due strofe sono sognanti mentre le ultime due mostrano il sentimento di morte e di angoscia che sovrasta il Carducci. Si prospetta defunto, dice che non arriverà mai a realizzare i suoi sogni. La poesia si chiude con una caparbia e una speranza grazie al paesaggio maremmano, bello e suggestivo, che dona al poeta una serenità e un sollievo dall'angoscia che prova. È un'esempio di lirica che crea scompiglio perchè è una delle prime e delle più evidenti poesie in cui il Carducci mostra un altro lato di sé, quello dolce e sensibile, di una sensibilità del bambino che fu nella Maremma.

Il dolore di Carducci in "Pianto Antico"

L’albero a cui tendevi

la pargoletta mano,

il verde melograno

da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo

rinverdì tutto or ora,

e giugno lo ristora

di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta

percossa e inaridita,

tu de l’inutil vita

estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra

né il sol più ti rallegra

né ti risveglia amor.

Il Carducci vulnerabile è ancora più testimoniato nell'opera “Pianto Antico” scritta nel giugno del '71 che confluisce nelle Rime Nuove. La morte del figlio Dante a causa di meningite a tre anni porta il poeta a scrivere lettere strazianti al fratello Valfredo in cui dice “Povero il mio bambino! Povero il mio caro Dante! E avevo riposto su quel capo tutte le mie speranze, tutto il mio avvenire! Oh che strappo del cuore e della vita!” e ancora “il mio povero bambino mi è morto, morto di un versamento al cervello [...]così amoroso! Povero il mio bambino! Povero il mio caro Dante! E mi ero avviticchiato a lui con quanto amore mi restava nell'anima! Oh che strappo del cuore e della vita! È inutile parlare di consolazione: il tempo potrà rimarginare un po' la ferita ma guarirla non mai”.

Il testo poetico ha lo scopo di riuscire a esprimere delle sensazioni che ci pervadono. Il ruolo del poeta è toccare i cuori pulsanti dell'interiorità che non è possibile raggiungere e spiegare con il razionale, con la sua capacità creativa. Un aspetto interessante è il metro odicina, ossia una piccola ode, una scrittura poetica usata per temi leggeri, spesso frivoli. Carducci vuole come cullare il piccolo defunto nel sonno eterno con una sorta di ninna-nanna. Il titolo ha creato dibattito, per alcuni “Pianto antico” è inteso come un pianto che segue una metrica antica mentre l'interpretazione forse più bella è quella che vede il pianto antico come il pianto più straziato ossia il pianto del genitore che perde il figlio. L'immagine che impernia la lirica è quella del melograno, albero che si trova nel giardino di casa Carducci di Bologna mentre ha la cattedra di eloquenza, che rappresenta la forza vitale del bambino che è destinata a spegnersi.

La poesia è composta da 4 strofe. I primi 8 versi sono vitali, luminosi e colorati (il rosso del fiore, il verde della pianta). La cadenza della rima è marcata per sembrare ancor più il canto per un bambino in culla. La vita è inutile per il poeta dopo la morte del figlio che non può essere svegliato nemmeno dall'amore e giace defunto nella “negra terra”.

Il melograno è un'immagine forte; le prime due strofe incarnano il ritorno alla vita, la stagione della primavera, e sono a contrasto con le ultime due che rappresentano la morte, con Dante morto che giace nella terra nera. La scelta metrica è anche dovuta al rischio di arrivare al melodramma e evita quindi di estremizzare il dolore. Ogni volta che Carducci parla della morte nelle sue poesie compaiono due connotazioni ricorrenti: il freddo e il buio (che porta all'assenza di luce e quindi di calore). Carducci ha una concezione laica, non vede una vita nell'aldilà, la morte è nera e fredda (il pessimismo è dato dalla morte già avvenuta). Con l'arrivo della morte muore ogni speranza, men che mai di tipo religioso.

L'amore e la malinconia di Carducci

Oh quei fanali come s’inseguono

accidïosi là dietro gli alberi,

tra i rami stillanti di pioggia

sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia

la vaporiera da presso. Plumbeo

il cielo e il mattino d’autunno

come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi

a’ carri fòschi, ravvolta e tacita

gente? a che ignoti dolori

o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera

al secco taglio dài de la guardia,

e al tempo incalzante i begli anni

dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono

incappucciati di nero i vigili,

com’ombre; una fioca lanterna

hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre

rintócco lungo: di fondo a l’anima

un’eco di tedio risponde

doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere

paion oltraggi: scherno par l’ultimo

appello che rapido suona:

grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica

anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei

occhi sbarra; immane pe ’l buio

gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile

sbattendo l’ale gli amor miei portasi.

Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo

salutando scompar ne la tenebra.

O viso dolce di pallor roseo,

o stellanti occhi di pace, o candida

tra’ floridi ricci inchinata

pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’ aere,

fremea l’estate quando mi arrisero:

e il giovine sole di giugno

si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei

la molle guancia: come un’aureola

piú belli del sole i miei sogni

ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine

torno ora, e ad esse vorrei confondermi;

barcollo com’ebro, e mi tócco,

non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,

continua, muta, greve, su l’anima!

io credo che solo, che eterno,

che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,

meglio quest’ombra, questa caligine:

io voglio io voglio adagiarmi

in un tedio che duri infinito.

Alla stazione in una mattina d'autunno fa parte delle Odi Barbare ed è l'opera in cui viene fuori un Carducci nuovo e innamorato di Carolina. Il momento più straziante, ancor più per un amore clandestino, è quello del saluto dopo aver passato del tempo insieme. In questo caso Carducci si trova alla stazione di Bologna con l'amata che deve prendere la locomotiva per raggiungere il marito a Civitavecchia. I due devono quindi salutarsi ma inizierà fra loro un fittissimo epistolario. La poesia, scritta nel '75, è composta da 11 strofe, ciascuna composta da 4 versi. Introduce una metrica nuova: il metro barbaro, che porta un innovamento formale che disorienta il lettore. Scandisce quindi le strofe con un ordine antico che è poco familiare ai suoi contemporanei. Il suono è quasi zoppicante. Il poeta raffigura immagini oscure, mortifere, legate al dolore causato dalla donna che deve andarsene. Nei vv 21-22 il poeta dice come il suono dei freni battuti (che dovevano essere testati per essere sicuri risuonassero nel modo giusto) rimbombi come un eco di tedio dentro di sé. I primi versi della poesia trattano della locomotiva, il mezzo nuovo che sta collegando sempre più l'Italia e che il poeta definisce “mostruosa”, soprattutto per lui che è cresciuto in Maremma e perché sta portando via la sua amata che saluta dal finestrino fino a scomparire nelle tenebre. Mentre il treno parte il Carducci torna con la mente ai momenti felici passati con Lidia ma poco dopo torna alla realtà e vorrebbe confondersi nella nebbia e si tasta per vedere se è diventato un fantasma. Tutto sembra materializzarsi in una situazione surreale e alla fine resta solo, sotto la pioggia, nell'oscurità. Carducci afferma come per chi ha perduto il senso della vita questa nebbia e questa ombra sono la condizione migliore in cui adagiarsi in un tedio che duri per sempre. Dopo che Lidia se ne è andata il tedio gli resta addosso.

Carducci immagina Lidia che deve raggiungere Civitavecchia e parte da Bologna separandosi dolorosamente dall'amante e amato. La separazione dolorosa si vede anche da come si ripartisce la poesia. Dal 1-36 vv dominano lo squallore climatico dell'autunno con la nebbia e una pioggia incessante, e il tempo reale con l'arrivo alla stazione e la preparazione alla partenza. Dai 37-48 vv si ha una parentesi luminosa, estiva, in cui torna la luce nel ricordo dei bei momenti trascorsi. Dai 49-60 vv c'è il ritorno all'autunno dal clima ostico e difficile, con una malinconia gelida e sconsolata che è ancor più forte se vista in contrasto con la seconda parte che accentua i sentimenti disperati. L'Ode è composta in strofe alcaiche, metro tipico del romano antico, a cui farà ricorso anche Pascoli, che rientra nel discorso stilistico rivoluzionario.

La neve e la vecchiaia in Carducci

Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi,

suoni di vita più non salgono da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,

non d’amore la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore

gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici

spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –

giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò

Nevicata è una poesia scritta nell'81 che chiude le Odi Barbare ed è composta da 5 distici elegiaci, strofe di due versi utilizzate dai poeti latini. Ha infatti carattere di chiusura ed è ispirata all'inverno bolognese rigido e freddo. Non è solo occasione per una descrizione paesaggistica ma il pallore della neve è il riflesso dell'interiorità di Giosuè. Nel finale si rivolge al proprio cuore in una svolta soggettiva che rende evidente la funzione simbolica della poesia. Le prime tre strofe sono descrittive, non c'è contrasto fra vita e morte ma solo un lento ma inesorabile avvicinarsi alla fine. La neve che cade lenta è metafora della vecchiaia. Carducci descrive il modo in cui lentamente ogni forma di vitalità si spenge nel tempo e resta l'accettazione, senza dramma o paura. C'è solo uno spirito dolce e rassegnato. Carducci si sente prossimo alla morte che consiste nel sottoterra buio e freddo.

La crisi del positivismo

La seconda metà dell'800 è dominata dalla cultura positivista. Verso la fine del secolo questa convinzione entra in crisi; il modello positivista è supportato dal ceto borghese ma anche da marxisti e operai. Nonostante abbia fatto presa su così tante categorie diverse, messo in prospettiva di una crisi generale, il modello positivista mostra i suoi limiti e si comprende come non sia possibile affrontare i problemi con un atteggiamento positivista. Il Darwinismo sociale circuisce e estremizza il contrasto fra classi sociali e nazioni diverse. Aumentano in tutta Europa spinte anti-democratiche e si diffonde l'ideologia del colonialismo. Da questa situazione in Europa aumentano i contrasti e maturano un disagio e una sfiducia nei confronti dell'efficacia della mentalità positivista verso il mondo e la struttura sociale (Leopardi l'aveva visto quasi un secolo prima).

Il decadentismo e il simbolismo

La letteratura europea deve fare i conti con un nuovo modo di vedere il mondo politico. Non ha mai abbandonato la componente irrazionale. Le guerre mettono in crisi la prospettiva illuministica, ciò che è irrazionale, folle e i sogni restano latenti, fornendo agli artisti una serie di suggestioni e immagini. Il positivismo diminuisce ed elimina tutto ciò che è oscuro, che riprende però il suo ruolo nella seconda metà del '700 con il ritorno del bagaglio che è stato messo a tacere. In questo ambito si sviluppano due correnti: il decadentismo e il simbolismo.

Prima in Francia e poi in tutta Europa si diffondono queste nuove sensibilità con alla base l'idea della realtà che non deve essere letta attraverso nessi causali, razionali o scientifici, ma piuttosto attraverso una serie di libere associazioni sensoriali e analogiche. Il poeta decadente e simbolista guarda alla realtà e vede collegamenti misteriosi fra le cose. Anche se gli intellettuali non sono apertamente in contrasto con l'ideologia borghese hanno modo di interpretare percorsi letterari diversi dal ruolo di poeta vate, maestro, non ha quindi funzione civile, è anzi una creatura inquieta, in preda a fantasia e allucinazione.

È Paul Verlaine che conia il termine “decadents”, ossia “decadenza” per indicare un nuovo tipo di sensibilità che darà vita al decadentismo. Nel sonetto “Languore”, ossia il desiderio di appagamento, di Verlaine, appaiono dei versi fondamentali: “sono l'impero alla fine della decadenza che guarda passare i grandi barbari bianchi”. Fa riferimento all'impero romano che sta andando verso una disfatta per parlare in modo analogico della condizione esistenziale del poeta come di un impero prossimo a crollare.

Il disagio, la noia e il rifiuto è rivolto verso i valori della società borghese che è di fatto al tramonto e di cui il poeta pregusta con un piacere morboso la fine. Le rovine e la distruzione sono il languore mentre sentire che la fine è prossima e pregustarla è il decadentismo.

Con i versi la “Languore” di Verlaine si indica il gusto, quel piacere inappagabile nel fatto che siamo prossimi alla fine. Si vuole esprimere il senso di disagio, noia, rifiuto verso il mondo moderno. Nel 1884 Verlaine pubblica un'Antologia di poesie dal titolo provocatorio di “i Poeti maledetti” dove si trovano poesie di Verlaine, ma anche di Arthur Rimbaud, Corbiere e Mallarmé. Dà un volto, una sostanza concreta, a un movimento ancora agli albori. La critica ufficiale ha una reazione infastidita e fa un attacco pesante chiamando questi poeti “decadents” in senso dispregiativo. I poeti apprezzano però l'appellativo e qualche anno dopo si perde del tutto l'accezione negativa del termine. Infatti nel 1886 si inaugara un periodico intitolato “Le Decadents” e con l'etichetta di Decadentismo si intende a pieno il carattere così forte di percepire il degrado contemporaneo e il senso di fine, il modo di vedere e sentire il mondo che si incarna nella percezione di disagio da cui nasce una poesia diversa. I poeti maledetti non si limitano a contestare la tradizione o a smontare tutto ciò che non accettano ma hanno proposte e fanno scelte nuove nei temi e nella forma. Il modello fortissimo per i decadentisti è un autore più anziano di una generazione, morto da 15 anni, ossia Baudelaire che già incarnava la sensibilità decadente ed è stato un pioniere e un precursore. Con “I fiori del male” rompe il legame con la poesia tradizionale e con la posia romantica. Baudelaire è considerato il padre della poesia moderna che ha inventato un filone di temi e un reportorio di immagini, sensibilità e scelte morali.

Baudelaire e la poesia moderna

Baudelaire nasce nel quartiere latino di Parigi ed è un punto di riferimento fondamentale per gli autori decadenti. Conduce una vita sregolata e fuori controllo, frequenta dei club di hashish, usa a scopo creativo alcool e altre sostanze, accumola debiti: rappresenta un modello di vita oltre che in letteratura. È un modello di poeta maledetto ante-litteram. La sua vocazione letteraria coincide con la sua vita e la sua esistenza. È un anticonformista, vive in un disordine profondo, conduce una vita bohemien (il boheme è colui che vive sregolato, alla giornata). Ha un atteggiamento provocatorio e ambiguo, ambiguo perchè fa scandalo fra i borghesi.

Mentre nella seconda metà dell'800 ci sono i poeti maledetti, sempre in Francia nasce un'altra etichetta, il simbolismo. Nel 1886 esce la rivista “Le simbolist”, ossia il simbolista che si dedica ad una poetica basata sul simbolo, quella dimensione nascosta, segreta, invisibile che sta dentro a ogni oggetto visibile e concreto, dimensione alternativa alla realtà che la ragione non può spiegare. La poetica simbolista si propone di immergersi in una dimensione alternativa e simbolica in una ricerca spesso disperata e inefficace di corrispondenze nascoste e segrete, di legami che intessano la realtà e che possono analogicamente spiegare e decifrare i simboli che altrimenti non possono essere spiegati. La poesia scende nei meandri dove la ragione non arriva.

Così come per i decadentisti, anche i simbolisti il modello di ispirazione è Baudelaire, autore del sonetto “Corrispondenze”, manifesto della poetica simbolista. Baudelaire descrive la realtà come una foresta di simboli in cui i colori, gli odori e i suoni, in modo sinestetico (la sinestesia è l'unione di elementi sensoriali non legati fra loro), che si incastrano e combaciano in modi apparentemente oscuro, non spiegabile con la ragione, ottenendo significati reconditi, sotterranei, nella mente del poeta. Baudelaire parla di una realtà sempre più avvulsa in cui l'uomo è sempre più alieno che è alla base del movimento simbolista.

Baudelaire si può considerare il padre della poesia moderna. Sia la sua vita che le sue opere riflettono alla perfezione la condizione conflittuale propria dell'arte nell'epoca moderna con la società. La sua intera esistenza è contrassegnata da una sofferenza o meglio da un'insofferenza verso il quotidiano, il buonsenso, la morale comune borghese che domina il mondo in cui vive. È una figura che vive di scelte avventate. È un poeta che sente di non appartenere alla società ed è alienato, circondato da noia, tedio e malinconia. Anche il poeta romantico si sentiva diverso dall'uomo medio ma era un diverso eroico, si sentiva veicolo di valori e sentimenti, passioni forti e ardori travolgenti. In Baudelaire la diversità è umiliazione, un qualcosa che diminuisce ma non accresce, la perdita di ogni orientamento. Il poeta è infatti disorietato, non ha più il ruolo che aveva l'intellettuale qualche decennio prima. Nel mondo romantico l'artista parlava alle masse, ispirava il popolo mentre con Baudelaire non si sa più quale sia il ruolo del poeta. L'immagine ironica e calzante è quella di Baudelaire dell'aureola del poeta che cade nel fango. Il poeta antico era spesso raffigurato con l'aureola per simboleggiare la sua portata di valori, il suo eroismo e il suo ruolo civile. Lo racconta nel brano in prosa del '69 con cui mostra la caduta dell'aureola non solo in modo figurato tratti dall'opera “Piccoli poemi in prosa”. Il brano diventa emblematico sulla condizione del poeta nella seconda metà dell'800 che segue un modello dissidente e anticostituzionale. Baudelaire si immagina di camminare per i quartieri parigini e in un movimento brusco di far cadere la sua aureola nel fango. Qualcuno vede il poeta in un bordello e resta stupito, domanda dove sia la sua aurealo e il poeta racconta di come gli sia scivolata nella melma. Con profonda ironia e sarcasmo Baudelaire mostra come accetti la nuova condizione del poeta, come ne sia felice, se ne bea. L'intellettuale perde la dignità che ha sempre avuto, l'aureola diventa lercia e irrequieta.

Nella sezione de I fiori del male Spleen e Ideale appare un altro testo ironico, l'Albatro. In questo testo ricorre a un uccello marino per descrivere la condizione stessa del poeta. L'uccello plana e scende sulle navi, sulle imbarcazioni dei navigatori, così come il poeta entra a contatto con gli uomini. Appena appoggia le zampe sulla nave l'uccello prova un senso di disagio, di disorientamento e di spiazzamento che prova anche il poeta a contatto con la società da cui si sente estraneo e inutile, inutile perché non porta a un'utilità, a un guadagno a un compenso. Baudelaire è un poeta urbano, vive infatti nella Parigi ottocentesca che fa di sfondo squallido alle sue opere. La grandezza della città corrisponde alla sua degradazione. Il modo in cui descrive Parigi, immensa sia a livello spaziale che nel suo squallore, è grandiosa nel suo essere decadente e decaduta. La Parigi che vede la vede attraverso una lente di ciò che è negativo e sporco su tutti i livelli, anche i più profondi.

Nel 1857 Baudelaire pubblica una raccolta che doveva essere intitolato “Le lesbiche”, titolo che per non creare scandalo è costretto a cambiare ne “I fiori del male”. “I fiori del male” non è un titolo meno complesso; è infatti un titolo ossimorico (l'ossimoro è una figura retorica che pone vicini due elementi contrapposti). Il fiore si collega infatti a un immaginario idilliaco, di luce, di valori positivi mentre il male sta all'opposto. Dà questo titolo perché le sue poesie sono fiori che germogliano dal dolore e dalla sofferenza, vengono da zone dell'animo oscura, misteriosa, inconoscibile, perversa, malata e dolorosa ma pur sempre di fiori si tratta ed è alla bellezza suprema e assoluta che essi ispirano.

Baudelaire non vuole rompere a tutti gli effetti con la tradizione come gli scapigliati e i poeti maledetti. Vuole veicolare e piegare la tradizione a una realtà moderna nuova.

Vuol far interagire la società e il suo contesto culturale con la malsanità del suo tempo. L'opera raccoglie un decennio di attività poetica e comprende 120-130 liriche divise in sei sezioni che sono interconnesse fra loro e tracciano un percorso narrativo unico con cui Baudelaire racconta la sua stessa anima e con una lucidità consapevole il conflitto fra bene e male, inferno e cielo, carne e spirito, tedio e noia e spinta ideale.

L'anima soffre, sa di soffrire e fa di tutto per evadere. L'evasione è il nucleo tematico della raccolta, un'evasione dal carcere del mondo sensibile, del quotidiano. Per dare nome alla sua condizione usa due termini: uno inglese, “Spleen” (milsa) e uno francese “Ennui” (noia). Il primo termine, più usato anche dallo stesso Baudelaire, ha prevalso. La milsa è l'organo che nella medicina antica si pensava fosse la sede della malinconia e del nostro malessere interiore che da lì nasceva per poi propagarsi in tutta l'essenza dell'uomo. La malinconia di cui parla Baudelaire non è il sentimento di tristezza inteso come una forma esterna ma una malinconia più profonda e radicata, un disagio che non si placa, un disgusto per il mondo e un'irascibilità.

Lo Spleen si associa spesso alla Parigi del suo tempo. Molti autori prendono esempio dalle metropoli piene di uomini scontenti che vivono angosciati con un senso di vuoto che sentono il bisogno di evadere. Si fugge dalla realtà col sogno, con l'immaginazione, con la fantasia, con i viaggi in terre lontane (Rimbaud) o con paradisi artificiali (sostanze che inibiscono l'uomo come droghe o alcool) che alleviano la sensazione di angoscia.

La poesia fa nascere una nuova figura di poeta ironico e distaccato con un cinismo e una disperazione talmente grande da dover scappare anche con atteggiamenti provocatori e ritrovabili nella realtà.

Baudelaire è quel tipo di intellettuale che deve esternare con l'estetica negli usi e nei costumi, la propria sofferenza. Baudelaire è il primo Dendi, ossia un esteta, della tradizione letteraria europea. Vive una vita irregolare, sregolata, eccentrica nei modi, negli atteggiamenti e nell'abbigliamento. Ha la volontà di mostrarsi e di essere visto. I nemici, le nemesi e gli avversari fondamentali sono il perbenismo, il materialimo borghese, la buona morale spesso ipocrita e para-cristiana, il senso dell'utile, chi critica il declino generale.

Baudelaire sente di dover affrontare lo spleen con una ricerca esasperata del bello e del raffinato, una bellezza e una raffinatezza assolute che tuttavia non possono essere raggiunte in modo definitivo. Il contrasto lo lascia frustrato, il contrasto con il reale e l'esterno non si e supera mai.

Il Baudelaire dendi e esteta ispira figure come Oscar Wilde e D'Annunzio, esteti in cerca di esistenze eccezionali, fuori dalla norma. Sia loro che i loro personaggi sono sempre in bilico fra il culto ossessivo e quasi malato del bello e l'ostentazione compiaciuta dell'eccesso, del vizio e della perdizione.

La forma e lo stile di Baudelaire vogliono dar voce alla drammatica condizione psicologica e esistenziale non solo sua privata ma che riguarda tutti i poeti. Per farlo deve quindi assorbire, scandagliare, la tradizione poetica ottocentesca. Legge quindi molti autori, impara le loro forme e i loro stili, ed è grazie alla sua conoscenza che arriva a quella che praga definisce “un'imprecazione cesellata nel diamante”. Il carattere scandaloso e scandalistico e la perfezione stilistica vengono da un gruppo di poeti francesi chiamati parnassiani (il Parnaso è il monte greco dove vivono le Muse) attivo nei suoi stessi anni e lontanissimo da lui per sensibilità, gusto e condizione interiore ma che sono maestri di stile assoluti. I poeti parnassiani hanno come riferimento di perfezione suprema i modelli classici, propongono un controllo rigido delle emozioni che non devono mai trapelare troppo, hanno una forma impeccabile e pongono una separazione netta fra arte e vita civile e politica.

L'albatro e il poeta

Spesso, per divertirsi, gli uomini d'equipaggio

Catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,

Che seguono, indolenti compagni di vïaggio,

Il vascello che va sopra gli abissi amari.

E li hanno appena posti sul ponte della nave

Che, inetti e vergognosi, questi re dell'azzurro

Pietosamente calano le grandi ali bianche,

Come dei remi inerti, accanto ai loro fianchi.

Com'è goffo e maldestro, l'alato viaggiatore!

Lui, prima così bello, com'è comico e brutto!

Qualcuno, con la pipa, gli solletica il becco,

L'altro, arrancando, mima l'infermo che volava!

Il Poeta assomiglia al principe dei nembi

Che abita la tempesta e ride dell'arciere;

Ma esule sulla terra, al centro degli scherni,

Per le ali di gigante non riesce a camminare.

L'Albatro è un uccello che diventa in Baudelaire metafora della vita del poeta. Il poeta ride di chi gli tira le frecce, vede oltre, è superiore agli altri uomini. L'Albatro è maestoso e meraviglioso in volo mentre quando scende fra i navigatori è ridicolo, goffo, occasione di scherno per i marinai così come il poeta quando si avvicina alle masse si sente incompreso ma il poeta in realtà è colui può raggiungere un mondo diverso che l'uomo non può comprender e nemmeno pensare di avvicinarvisi.

L'Albatro è un uccello marino enorme e maestoso che quando scende fra i marinari viene preso a colpi di pipa, gli uomini se ne fanno scherno e lo deridono. Si identifica nel poeta, un tempo visto come maestoso e con un'aureola dal ruolo di vate che insegna alti valori e ora incompreso e isolato. Quando l'Albatro plana e scende fra i navigatori diventa oggetto di scherno, diventa ridicolo e goffo. Il subire passivamente rafforza però la sua grandezza, allo stesso modo il poeta è una creatura eccezionale, al di fuori degli uomini comuni che sono legati al valore dell'utile. Il poeta non è più visto come modello alto ma come figura ridicola, goffa, inutile (senza un'utilità).

La poesia fondamentale di Baudelaire è però “Corrispondenze”.

Corrispondenze: il simbolismo di Baudelaire

E' un tempio la Natura ove viventi

pilastri a volte confuse parole

mandano fuori; la attraversa l'uomo

tra foreste di simboli dagli occhi

familiari. I profumi e i colori

e i suoni si rispondono come echi

lunghi che di lontano si confondono

in unità profonda e tenebrosa,

vasta come la notte ed il chiarore.

Esistono profumi freschi come

carni di bimbo, dolci come gli òboi,

e verdi come praterie; e degli altri

corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno

l'espansione propria alle infinite

cose, come l'incenso, l'ambra, il muschio,

il benzoino, e cantano dei sensi

e dell'anima i lunghi rapimenti.

Il poeta è una figura superiore, con una sensibilità fuori dal comune, capace di cogliere i legami sottili e oscuri che creano la realtà, inaccessibile con gli occhi della ragione. L'essenza della realtà è nascosta alla logica e raggiungibile solo per mezzo della sensibilità del poeta. Baudelaire rappresenta la realtà come una foresta di simboli, simboli connessi fra loro analogicamente. Il poeta va oltre l'apparenza che costituisce il reale vedendo ciò che si trova al di sotto, ossia gli elementi intricatissimi che dialogano fra loro. La realtà per Baudelaire è accessibile dietro il velo del quotidiano.

“Corrispondenze” è il manifesto del simbolismo e della poesia moderna. È una lirica del '61 in francese. La natura per l'autore comunica con l'uomo per mezzo di segni che non è possibile comprendere con la logica e la ragione.

al vv 8 c'è una sinestesia che ai versi 9-10 è portata all'estremo.

Per Baudelaire la conoscenza razionale dà a tutte le cose un posto preciso in una prospettiva logica e razionale ma in realtà c'è qualcosa che ci impedisce di vedere oltre ed è il poeta a poter leggere le analogie fra i simboli e a poterle spiegare.

dai versi 1-8 Baudelaire mostra la natura come una foresta di simboli che manda messaggi apparentemente incomprensibili e crea un continuo gioco di simboli e corrispondenze che ci lasciano nel dubbio e ci mostrano la realtà come una sorta di campo sensoriale aperto. È propria del poeta la capacità di leggere le analogie fra i simboli; la realtà è una dimensione in cui percezioni diverse di sovrappongono e dialogano fra loro in una lingua che la ragione non può comprendere;

Paul Verlaine

Paul Verlaine e i poeti maledetti

Baudelaire muore nel '67 di sifilide. Qualche anno dopo la morte, a svolgere la funzione di capogruppo, capostipite, dei poeti maledetti troviamo Paul Verlaine. Ed è a capo sia perchè ha scritto il sonetto “Languore” in cui si parla della decadenza, sia perchè è lui che propone un canone che dà risonanza al gruppo in tutta Europa con la sua raccolta del 1884 dei “Poeti Maledetti”. È fondamentale perchè stabilisce una sensibilità precisa della nuova poesia in Francia.

Scrive inoltre un'altra lirica intitolata “Arte poetica” per chiarire meglio la direzione del gruppo in cui stabilisce e dichiara i suoi obiettivi fondamentali. Le due direzioni fondamentali sono da un lato l'avversione per la cultura accademica, universitaria, basata su un buon gusto, l'eloquenza e il bel dire fine a se stesso, e dall'altro lato l'attenzione per il valore musicale della poesia, il fonosimbolismo, la forza evocativa dei suoni stessi che le parole emettono. Il compito del poeta non è più quello classico del vate, della figura che parla a un pubblico portando dei valori e degli insegnamenti, ma è quello di suggeritore che deve alludere, accennare, permettere al lettore di avvicinarsi alla realtò attraverso il potere analogico e suggestivo, dare una strada che conduca al di là del velo che copre la realtà, vicino all'essenza che la ragione non può spiegare.

Il languore di Verlaine

Sono l’Impero alla fine della decadenza,

che guarda passare i grandi Barbari bianchi

componendo acrostici indolenti dove danza

il languore del sole in uno stile d’oro.

Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore.

Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente.

O non potervi, debole e così lento ai propositi,

o non volervi far fiorire un po’ quest’esistenza!

O non potervi, o non volervi un po’ morire!

Ah! Tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo?

Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!

Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme,

solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica,

solo, un tedio d’un non so che attaccato all’anima!

Nel 1884 scrive un sonetto “Languore”, in cui il tedio, la noia non sono solo una sensazione privata ma anche collettiva. L'autore paragona la fine dell'impero romano alla civiltà francese intorno all'ultimo quarto di secolo dell'800.

Verlaine mostra l'impero romano alla fine della sua esistenza mentre i barbari entrano in massa come forze minacciose.

“acrostici indolenti” (l'acrostico è il gioco in cui ogni lettera è l'iniziale di un'altra parola)

Verlaine mostra come il poeta osservi la fine e scriva poesie effimere e vuote. È come se l'impero crollasse e la reazione dell'uomo fosse comporre “acrostici indolenti”.

I “barbari bianchi” sono la razza nuova, fresca a cui il poeta non può opporsi, non ha vigore o volontà. L'impero romano nella sua decadenza è metafora dell'epoca in cui vive il poeta. Con i barbari bianchi, al di là della situazione storica, si allude a una serie di paure e inquietudini del suo tempo che portano a una rivalsa della società operaia, di chi era rimasto in fondo e che ora sembra avere la forza sia economica che politica. Gli stravolgimenti porteranno la storia a favore del proletariato che è in maggioranza: se il popolo sa unirsi il pericolo per i pochi è grande. I poeti guardano la storia passare e passano il tempo a cullarsi nell'oro della superiorità culturale, nella bolla di convenzioni e sicurezze. In questo campo di battaglia il poeta non può e non vuole partecipare.

“Batillo” è un attore dell'antichità da Alessandria amico di Mecenate ed è posto da Verlaine per rappresentare l'arte e la cultura che non ride più. Tutto ciò che resta da fare all'artista è continuare a scrivere una poesia superficiale che non può insegnare nulla, che viene scritta e subito distrutta (nichilismo).

Anche gli schiavi sono creature disinteressate ai padroni. La realtà sociale si sta sgretolando e i ruoli si stanno perdendo.

Si parla di malattia della volontà. Il poeta sta perdendo la sua forza viscerale, la “volontà di potenza” di cui parlava Shopenhauer.

Tutto si incentra su un'indolenza e una profonda passività. In un mondo in cui tutto sta decadendo non c'è assertività, tutto perde di energia. L'artista abbraccia la decadenza mentre i barbari bianchi irrompono nel tessuto sociale-politico che si sta ribaltando. Il poeta diventa un individuo solo, inutile e prova uno strano, malato, piacere inquieto di assaporare la fine inevitabile e certa ancor prima che arrivi. C'è una spossatezza e una debolezza.

Arthur Rimbaud: il poeta veggente

Il più giovane fra i poeti simbolisti è Arthur Rimbaud che in confronto alla tradizione è il più coraggioso, il più radicale, il più innovativo. Scrive i suoi capolavori fra i 16 e i 19 anni, gira l'Europa, si innamora di Verlaine con cui intraprende una relazione amorosa intensa alla fine della quale Verlaine si rifiuta di essere abbandonato e spara a Rimbaud ferendolo alla mano. Dopo la fine della relazione Arthur scappa in Africa dove diventa un trafficante occupandosi anche del traffico di armi. Nel 1884 Verlaine pubblica la raccolta dove appare anche l'amato. Nel 1891 Arthur si accorge di avere un tumore alla gamba e torna a Marsiglia per operarsi ma muore comunque poco tempo dopo.

Così come la sua vita, anche la sua poetica è altrettanto sregolata ed estrema. È un poeta importante per le avanguardie del dadaismo e del surrealismo. Si pone infatti come poeta veggente, ruolo che raggiunge attraverso una sregolatezza dei sensi, uno stordimento totale, una mancanza di regole e sanità. Rimbaud vuole una mancanza di stabilità dei sensi; scrive all'amico Paul Demeny: “Dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca egli stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni, per conservarne soltanto le quintessenze. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il gran malato, il gran criminale, il gran maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la propria anima, già ricca, più di ogni altro! Giunge all’ignoto, e anche se, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe viste! Crepi pure, in quel balzo tra le cose inaudite e ineffabili: altri lavoratori orribili verranno; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro è crollato!”.

La realtà è ancora più subliminale e surreale in Rimbaud che vuole arrivare all'ignoto, dove non ci sono più nemmeno le corrispondenze, solo l'assoluto inspiegabile. È il precursore più illustre delle correnti avanguardiste del dadaismo e del surrealismo.

Il dadaismo sarà la totale casualità nel fare arte, la forma più estrema, più ardita e che risulta più d'effetto. Il surrealismo sarà invece l'impiego di immagini surreali, talvolta così ermetiche da non riuscire a interpretarle. Rimbaud è colui che per primo giunge ad una poesia che unisce fra loro elementi che non hanno senso. La forma di espressione poetica di Rimbaud mira all'essenza ultima dell'ignoto, una realtà senza forma insondabile e irraggiungibile dentro l'individuo, una totale mancanza di senso. Rimbaud si pone come poeta veggente che può vedere ciò che abita il labirinto allucinato e sconvolgente dell'Io umano, il profeta del caos più assoluto.

Rimbaud e le vocali

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,

Io dirò un giorno le vostre nascite latenti:

A, nero corsetto villoso di mosche splendenti

Che ronzano intorno a crudeli fetori,

Golfi d’ombra; E, candori di vapori e tende,

Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d’umbrelle;

I, porpora, sangue sputato, risata di belle labbra

U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,

Pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe

Che l’alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;

O, suprema Tromba piena di strani stridori,

Silenzi attraversati da Angeli e Mondi:

O l’Omega, raggio viola dei suoi Occhi!

Fin dal verso 1 si instaura una rete di oscure analogie fra il suono fonico e la forma grafica delle vocali e i loro colori. Le associazioni sono arbitrarie, non hanno un senso condiviso, vengono dall'angoscia del poeta in cui la razionalità è completamente deposta e dismessa.

per Rimbaud l'anatomia delle mosche ricorda il corsetto peloso e nero di una donna. Le mosche ronzano su materiali organici poco profumati.

le “umbrelle” sono il modo in cui si dispongono i petali a formare un fiore

si teorizza che le parole correlate alle vocali siano ispirate dall'abecedario di Manzoni

la E è degli emiri, i principi del deserto, e dei re bianchi

l' “ebbrezza” sono gli eccessi d'amore, esperienze sensoriali portate all'estremo o “espirati” (passati) o goduti con piacere furioso.

La I è rappresentata da belle labbra che sorridono che incarnano o i passati o i presenti amori.

La U evoca la pace attribuita sia alle bestie che agli uomini. Gli anziani sono visti come figure colme di umanità e pietà. La pace è simboleggiata dai visi scavati dall'alchimia del tempo, dallo scorrere degli anni.

La “supreme trombe” alla lettera O sono il simbolo del giudizio universale e sono piene di “strani stridori”. Le trombe suonano in un suono inconfondibile, così profondo e grave da stordire.

La vocale O simboleggia l'Omega, l'ultima lettera dell'alfabeto greco; la vocale di compimento, di fine, viene associata agli occhi, quelli della morte, creatura rappresentata come un destino fatale certo.

Tutte queste sono però congetture e ipotesi, ogni tentativo di comprensione è inutile. La forza evocativa è ciò che rimane al di là delle parole. Rimbaud rifiuta il gusto medio corrente in una poesia moderna più coraggiosa. Si rifugia in un reportorio un po' insensato, idiota (idios = solo ai margini), lontano dal centro, per essere solo nel delirio della sua interiorità. I sensi liberi e incontrollabili sono la strada da privilegiare, le sinestesie raggiungono un livello massimo, tutto dialoga in una lingua oscura.

Mallarmè e la poesia pura

Mallarmè è il poeta in cui il valore del potere conoscitivo che gli permette di accedere alla verità ultima è assoluto. Se Baudelaire introduce la foresta di simboli e mostra la caduta dell'aureola del poeta nel fango, se Verlaine si sente solo nella decadenza, se Rimbaud è il poeta veggente che porta ad un'allucinazione inconscia, Mallarmè ha una missione demiurgica. Il poeta per Mallarmè deve evocare l'essenza stessa delle cose e della realtà, l'esistenza ultima e l'essenza assoluta. La strada che deve percorrere è quindi una poesia pura che, similmente a Rimbaud, deve comunicare per mezzo di un linguaggio ermetico oscuro.

La differenza fra significato e significante è che il significato genera delle immagini nell'ascoltatore mentre il significante è la traccia sonora delle parole. Mallarmè, attraverso una serie di significanti, dà una forza evocativa alle parole che non sono poste in un determinato modo tanto per significare qualcosa quanto più per dare una traccia sonora.

Attraverso ritmi e suoni il poeta giunge ai significati delle cose. Stravolge così la sintassi, la metrica e la tradizione, addirittura nell'assetto grafico dando un significato anche dalla composizione grafica delle parole poste a formare delle immagini. La poesia viene quindi concepita anche come un fatto visivo.

La carne è triste, ahimè! e ho letto tutti i libri.

Fuggire là, fuggire! Io sento uccelli ebbri

D'esistere tra cieli ed ignorate spume.

O notti! né il chiarore deserto del mio lume

Sulla pagina vuota che il candore difende,

Riterrà questo cuore che al mare si protende,

Né la giovane donna che allatta ad una culla,

Né antichi parchi a specchio d'occhi pensosi, nulla.

Io partirò! Veliero dall'alta alberatura,

Salpa l'ancora verso un'esotica natura!

Un Tedio, desolato dalle speranze inani,

Crede ancora all'addio supremo delle mani!

E questi alberi forse, amici alle-tempeste,

Sono quelli perduti che il vento adesso investe,

Perduti, senza vele, né verdi isole ormai...

Ma tu, mio cuore, ascolta cantare i marinai!

È il sonetto che pone al centro tematico il tedio, lo Spleen, già scandito da Baudelaire e ripreso da decadentisti e simbolisti, che viene messo in chiaro già dal verso 1.

Mallarmè afferma come neanche la poesia lo soddisfi più, così come la carne, e quindi la componente erotica e sessuale, non gli dia più stimoli, non trae più piacere dalla sua vita: vuole partire, scappare in viaggio per mare. Scrive il poeta come il richiamo del mare lo attragga verso sé anche nel caso di tempesta. Mentre per tutta la poesia il viaggio sembra possibile, Mallarmè sembra in procinto di salpare, nell'ultimo verso rimane solo il rimpianto. Una possibilità passata, una suggestione, un sogno inarrivabile. Mallarmè afferma come niente lo trattenga, non gli dia piacere neanche la cultura antica, come il suo foglio sia “bianco” perché non sa cosa scriverci e “innocente” perché non è macchiato, e come nemmeno la donna che allatta suo figlio lo sollevi (nell'87 sta per avere un figlio).

“Partirò” lo scrive, lo urla, lo grida, sembra essere a un passo dalla partenza.

Gli alberi richiamano il temporale e indicano il fallimento impetuoso e inevitabile e l'affondamento della nave.

Mallarmè si accorge di vivere in un mondo diverso in cui il piacere è ormai passato e può solo ascoltare il canto dei marinai, vecchieggiare il rimpianto, sapendo di non avere neanche qualche salvezza. È un Ulisse che non parte, vive un senso di noia, di sazietà, ha una pienezza satura che lo tiene fermo dove si trova.

Domande da interrogazione

  1. Qual è l'influenza dell'estetismo e del simbolismo sulla cultura del tardo '800?
  2. L'estetismo e il simbolismo influenzano profondamente la cultura del tardo '800. L'estetismo, nato in Inghilterra, promuove l'idea dell'arte per l'arte, mentre il simbolismo, nato in Francia, utilizza un linguaggio analogico per esplorare la realtà sensibile attraverso simboli.

  3. Quali sono le principali sfide affrontate dall'Italia post-unitaria?
  4. Dopo l'unificazione del 1861, l'Italia affronta gravi problemi politici, economici e sociali, oltre a una mancanza di infrastrutture come palazzi, scuole e ospedali. La crisi post-unitaria richiede una costruzione fisica e ideale del Paese.

  5. Chi sono gli scapigliati e qual è il loro impatto sulla cultura italiana?
  6. Gli scapigliati sono un gruppo di intellettuali e scrittori che, insoddisfatti della cultura ufficiale e della borghesia, esprimono il loro dissenso attraverso testi provocatori e atteggiamenti scandalistici, influenzati da autori francesi come Baudelaire e Poe.

  7. Qual è il ruolo di Giosuè Carducci nella letteratura italiana?
  8. Giosuè Carducci è considerato il poeta nazionale dell'Italia unita, noto per la sua poesia celebrativa e critica. Sebbene famoso per esaltare l'Italia, è apprezzato anche per la sua capacità di interpretare il paesaggio autentico e travagliato dell'Italia pre e post-unitaria.

  9. Come viene percepita la scapigliatura nel contesto della cultura italiana ufficiale?
  10. La scapigliatura è vista come una parentesi scomoda da dimenticare nel clima di ottimismo ufficiale dell'Italia post-unitaria. Tuttavia, rappresenta un'importante tappa di confronto con il movimento del verismo, che affronta la realtà in modo simile.

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