Concetti Chiave
- Astolfo viaggia sulla Luna con un carro trainato da cavalli di fuoco per recuperare il senno perduto di Orlando, guidato dal santo evangelista.
- Sulla Luna, Astolfo scopre un luogo simile alla Terra ma con differenze significative, come fiumi, laghi e città diverse, e un deposito di tutte le cose perdute sulla Terra.
- Il senno, visto come un liquido sottile, è raccolto in ampolle; Astolfo trova il senno di Orlando, il più grande, e il proprio, restituendoselo al naso.
- Ariosto utilizza la Luna per ironizzare sulle vanità e follie umane, rappresentandola come un deposito di tutto ciò che è perso, inclusi desideri vani e tempo sprecato.
- Il poema offre una riflessione sull'equilibrio tra la Terra e la Luna, dove la pazzia è concentrata sulla Terra mentre il senno si trova sulla Luna.

Versi di Astolfo sulla luna
Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che ’l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.
Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.
Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autorità ch’ai suoi danno i signori.
I mantici 10 ch’intorno han pieni greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
"L’elemosina è" dice "che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte.
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.
Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.
Altri 14 in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un’altra volta gli levò il cervello.
La più capace e piena ampolla, ov’era
il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sì leggiera,
come stimò, con l’altre essendo a monte.
Prima che ’l paladin da quella sfera
piena di luce alle più basse smonte,
menato fu da l’apostolo santo
in un palagio ov’era un fiume a canto;
ch’ogni sua stanza avea piena di velli
di lin, di seta, di coton, di lana,
tinti in vari colori e brutti e belli.
Nel primo chiostro una femina cana
fila a un aspo traea da tutti quelli,
come veggiàn l’estate la villana
traer dai bachi le bagnate spoglie,
quando la nuova seta si raccoglie.
V’è chi, finito un vello, rimettendo
ne viene un altro, e chi ne porta altronde:
un’altra de le filze va scegliendo
il bel dal brutto che quella confonde.
"Che lavor si fa qui, ch’io non l’intendo?"
dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde:
"Le vecchie son le Parche, che con tali
stami filano vite a voi mortali.
Quanto dura un de’ velli, tanto dura
l’umana vita, e non di più un momento.
Qui tien l’occhio e la Morte e la Natura,
per saper l’ora ch’un debba esser spento.
Sceglier le belle fila ha l’altra cura,
perché si tesson poi per ornamento
del paradiso; e dei più brutti stami
si fan per li dannati aspri legami".
Di tutti i velli ch’erano già messi
in aspo, e scelti a farne altro lavoro,
erano in brevi piastre i nomi impressi,
altri di ferro, altri d’argento o d’oro:
e poi fatti n’avean cumuli spessi,
de’ quali, senza mai farvi ristoro,
portarne via non si vedea mai stanco
un vecchio, e ritornar sempre per anco.
Era quel vecchio sì espedito e snello,
che per correr parea che fosse nato;
e da quel monte il lembo del mantello
portava pien del nome altrui segnato.
Ove n’andava, e perché facea quello,
ne l’altro canto vi sarà narrato,
se d’averne piacer segno farete
con quella grata udienza che solete.
Commento di Astolfo sulla Luna
Astolfo è l'uomo-pianta, trasformato in questo modo dalla maga dell'isola di Alcina.
Riacquistate le sembianze umane, ricompare più volte nel coro del poema, come impavido protagonista di stravaganti avventure. L'ultima avventura che ha dovuto affrontare lo ha portato sul monte dove sta il Paradiso Terrestre. Proprio sul monte Astolfo incontra San Giovanni che gli affida il compito di ritrovare il senno perduto di Orlando. Per fare questo deve quindi andare sulla Luna, luogo in cui si trova tutto ciò che è stato perso sulla terra. Il cavaliere e il santo fanno un viaggio utilizzando un carro tirato da cavalli di fuoco, con il quale il profeta Elia fu portato in cielo secondo ciò che afferma la Bibbia.
Per ulteriori approfondimenti sull'opera di "Astolfo sulla luna" vedi anche qua
Il senno perduto di Orlando
L'episodio fa parte di quella parte della letteratura che comprende i viaggi ultraterreni. Il santo non ha tante caratteristiche religiose e morali, ma al contrario possiede quelle di mago buono, capace di allestire un carro e far sì che nemmeno si bruci. La luna all’interno del poema ha perduto qualsiasi legame sovrumano, essendo vista come grande deposito di oggetti perduti. Inoltre alla luna e alla Terra vengono attribuite funzioni complementari: quello che non c'è sulla luna sta sull'altra. Sulla Luna non c'è pazzia perché quella è concentrata sulla Terra ed è piena di senno perché sulla Terra ce ne sta poco. Ariosto descrive la Luna quasi per cercare di ironizzare sulle cose inutili e sulle pazzie della Terra, osservando il pianeta con uno sguardo distaccato.
Domande da interrogazione
- Qual è il tema principale del brano "Astolfo sulla luna" tratto dall'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto?
- Come viene descritta la Luna nel poema di Ariosto?
- Qual è il ruolo di San Giovanni nel viaggio di Astolfo?
- Quali oggetti e concetti si trovano sulla Luna secondo il poema?
- Qual è l'interpretazione ironica di Ariosto riguardo alla Luna e alla Terra?
Il tema principale è il viaggio ultraterreno di Astolfo sulla Luna per recuperare il senno perduto di Orlando, dove si trovano tutte le cose perse sulla Terra.
La Luna è descritta come un grande deposito di oggetti perduti, priva di pazzia, che invece è concentrata sulla Terra, e piena di senno, che sulla Terra scarseggia.
San Giovanni guida Astolfo nel suo viaggio sulla Luna, affidandogli il compito di ritrovare il senno perduto di Orlando, utilizzando un carro tirato da cavalli di fuoco.
Sulla Luna si trovano oggetti e concetti persi sulla Terra, come fama, preghiere, lacrime, sospiri, tempo perso, desideri vani, e il senno di molte persone, incluso quello di Orlando.
Ariosto ironizza sulle cose inutili e le pazzie della Terra, descrivendo la Luna come un luogo di raccolta di tutto ciò che è stato perso, osservando il pianeta con uno sguardo distaccato.