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LEINHENZ
1975, pp. 145-58. 47
delle nuove classi mercantili della Toscana e dell’Italia per le ambages pulcerrime dei
cavalieri di re Artù, quanto il loro disincanto di fronte a ideali e comportamenti che
erano certo giudicati molto lontani dalla realtà e apparivano come esagerazioni o
semplici finzioni romanzesche (Zambon 2012, p. 132; corsivo del testo).
Praticamente ogni comparsa di Dinadano sortisce l’effetto di provocare l’ilarità generale.
Tuttavia di fatto – conclude Zambon –, il senso profondo delle beffe contro Dinadano non è
quello di suscitare il riso gratuito del lettore:
In realtà, i cavalieri e le dame che ridono come matti agli scherni di Dinadano sono i
veri bersagli della derisione: le loro risate hanno la funzione di scatenare quelle del
pubblico borghese, che si riconosce autoironicamente nel «cavaliere disamorato», nel
suo buon senso, nelle sue espressioni pittoresche e popolaresche. Fra le pieghe di un
mondo di finzione fa la sua comparsa una nuova realtà, fondata su ideali di praticità, di
razionalità, di moralità: quella della borghesia comunale (Zambon 2012, p. 133).
L’articolo di Zambon vuole dunque sottolineare l’affinità tra la cultura borghese che
affiora nella Tavola Ritonda e la figura di Dinadano, che vede accentuati nel romanzo
dell’anonimo compilatore toscano i suoi tratti misogini e anticortesi.
Quando lesse le pagine di Zambon, Tagliani sentì l’esigenza di correggere il tiro delle
idee espresse dallo studioso, dedicando un’ampia sezione del suo articolo per smontare le
sue tesi. Alludendo apertamente alle pagine di Zambon riportate, Tagliani le critica in
questi termini:
Mi pare … che questa evoluzione – che, per come è presentata, definirei più una
trivializzazione che non una specializzazione funzionale – non debba essere ascritta
ad una volontà di superamento del modello francese. Sostenere che il Dinadano della
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Tavola Ritonda non è più parte integrante nel mondo cavalleresco che lo circonda, ma
un «pesce fuor d'acqua» (così lo definisce Zambon) che pretende di farsi il porte
parole del buon senso borghese è vero solo se si tiene in considerazione il tono
complessivamente filoborghese dell’intero romanzo italiano (Tagliani 2010, p. 110).
Lo studioso, infatti, non vede come possa conciliarsi la visione di un Dinadano
liquidatore del mondo cortese con l’ultima missione da lui compiuta, ossia la spedizione
punitiva contro re Marco assassino di Tristano. Nel Tristan en prose, Dinadano visita la
tomba di Tristano, e di fronte al tumulo dell’amico sente risvegliarsi dentro di lui un
desiderio insopprimibile di vendetta. Il personaggio mette allora da parte gli antichi indugi
che lo avevano visto in passato così riluttante davanti all’azione e decide di giocarsi il tutto
per tutto, incitando i compagni a intraprendere una guerra che detronizzi re Marco e gli
infligga la giusta punizione per il brutale assassinio. Spiega Tagliani:
In quest’ultima impresa, Dinadano si trasfigura e assume i caratteri dell’eroe, per metà
addolorato (e, a causa del dolore, mutato da esercente dell’envoiseure a cantore della
douleur) e per metà pieno di odio, di desiderio di vendetta, che scorda la mèsure e la
sua tradizionale diffidenza verso i combattimenti. A ben guardare, l’astinenza militare
professata da Dinadano non è stata mai generica e apodittica, quanto piuttosto
motivata dalla vacuità delle intenzioni: vendicare Tristano è, per contro, un motivo
valido per imbracciare le armi e combattere. È un motivo onorevole che gli fa
recuperare la sua dignità di cavaliere della Tavola Rotonda, di membro di quella
società nata per la difesa dei valori cardine del consorzio umano e che il sovrano
traditore a messo in discussione con il suo gesto di couardise (Tagliani 2010, p. 111).
La ragione per cui Dinadano, con questa eclatante azione punitiva, si dimostra degno
rappresentante della cavalleria cui appartiene, non risiede solo nella prodezza insita
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nell’azione stessa, ma anche e soprattutto nel fatto che il traditore Marco, rendendosi
responsabile di un’uccisione così ignominiosa, riuscirà a trovare scampo alla morte solo in
virtù del suo rango sociale, di cui gode per diritto atavico e non grazie a reali meriti
personali. Nel Tristan en prose re Marco incarna quindi – secondo Tagliani – un sistema di
valori ormai obsoleto e logoro, che mostra le sue numerose falle proprio nel momento in
cui concede di fatto l’impunità a sovrano reo di un turpe omicidio, il che viene per la prima
volta contestato proprio da Dinadano.
Siamo di fronte all’ultima, disperata e forse anche velleitaria critica alla desmesure
cavalleresca: se, infatti, cavalleria errante e feudalità cavalleresca permettono a re
Marco di salvarsi, e lasciano morire Tristano, allora quel sistema ha qualcosa che non
funziona. La fine di un mondo è presagita, forse anche annunciata da questo
assassinio: Dinadano, che fu prima guida di Tristano nel mondo della cavalleria
errante, diviene non solo l’ultimo paladino di quel sistema, ma anche l’ultima vittima
illustre (Tagliani 2010, p. 111).
Dinadano non come cavaliere anticortese, liquidatore del mondo arturiano, insomma, ma
viceversa come ultimo baluardo in difesa dei più genuini valori della cavalleria.
Tra i romanzi italiani, l’unico che riporta l’episodio della vendetta è la Tavola Ritonda: gli
altri testi significativi, quali il Tristano Panciatichiano o il Tristano Veneto, pongono infatti
Lancillotto in capo alla spedizione punitiva. La Tavola Ritonda presenta tuttavia
un’importante variante. Il capitolo che racconta l’episodio, il CXXXVII, si conclude con il
repentino assalto di Dinadano a un re Marco ormai fatto prigioniero e condotto legato e
inerme al cospetto di re Artù per ascoltarne la sentenza: Dinadano però, appena lo vede,
come fulminato da un raptus di follia lo colpisce improvvisamente alla testa ferendolo
gravemente. Re Marco scampa a morte certa solo grazie all’intervento di re Artù, che
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blocca in tempo la mano del suo cavaliere. Ma se Artù libera il prigioniero, è solo per
infliggergli una pena ancora più crudele quanto singolare: re Marco verrà posto in una
gabbia di fronte alla tomba di Tristano, dove potrà riflettere sul suo delitto e verrà
ingozzato di cibo fino a che non sopraggiungerà la morte, la quale ghermisce il re dopo 32
mesi.
Secondo Tagliani, in aperta polemica con Zambon, l’autore della Tavola Ritonda,
attraverso questa punizione assolutamente irrituale di un sovrano, ha voluto mettere in
luce un aspetto particolare di Dinadano, che non sarebbe un antieroe, bensì un
anticonformista:
La figura del Dinadano vendicatore mal si coniuga con le caratteristiche
esclusivamente borghesi che gli assegna Zambon: se è innegabile che la sua funzione
nel racconto sia soprattutto quella di gabbatore e di nemico dell’amore, egli rimane,
fino alla fine, un cavaliere a tutti gli effetti, che non rinuncia alla propria dignità quando
la gravità degli eventi lo spinge ad agire. Il suo ruolo nella Tavola Ritonda non è quello
di anti-eroe, né di liquidatore del mondo arturiano: è semmai quello di un cavaliere
anti-conformista, che denuncia – se necessario – l’assurdità dei costumi cavallereschi,
ma che è pronto a lasciar emergere quelle passioni che, da lui tanto contestate nel
corso del romanzo, possono diventare il motore delle sue stesse azioni se spinte da un
sentimento autentico. Se fosse il mero porte parole della borghesia emergente,
Dinadano avrebbe valutato utilitaristicamente il gesto di re Marco, che per invidia del
nipote scatena, col suo delitto passionale, una guerra dalla quale lucra solo la
distruzione del suo regno, e si sarebbe chiamato fuori. Ma le ragioni del sentimento
che già lo avevano fatto deviare una volta, per madonna Losanna, dal suo cinismo
antiamoroso, hanno fatto riemergere in lui i tratti del cavaliere fiero, passionale, eroico
e sanguigno (Tagliani 2010, pp. 112-113). 51
A Tagliani, tuttavia, sembra essere sfuggita la natura puramente istintiva dell’atto di
Dinadano, che non è dettato da nessuna pacata riflessione di indole cavalleresca ma
appare piuttosto come il frutto di un fulminante e incontenibile scatto d'ira. In quanto tale,
l’episodio non può quindi essere utilizzato per dimostrare un presunto attaccamento di
Dinadano ai valori tradizionali della società cortese.
A queste considerazioni infatti si riallaccia Zambon quando, nella già citata nota
aggiuntiva dell’edizione italiana del suo articolo, respinge fermamente le critiche di Tagliani
e precisa e ribadisce il suo punto di vista.
In primo luogo, affermando che Dinadano non è più integrato al mondo cavalleresco e
non ne condivide i valori non si intende affatto dire che egli rinunci a essere un
cavaliere, cosa che non risulta da alcun passo del romanzo: egli è un «pesce fuor
d'acqua» proprio perché – pur appartenendo a quel mondo, nel cui orizzonte si situa la
sua esistenza – possiede ormai, senza rendersene del tutto conto, una mentalità del
tutto incompatibile con esso, che lo fa operare e parlare sovente in contrasto con i suoi
valori fondamentali. Inoltre è improprio parlare di una «vendetta» di Dinadano compiuta
contro re Marco, uccisore di Tristano … Nel romanzo italiano la spedizione punitiva è
organizzata dai re Amoroldo e Governale, i quali intendono appunto «vendicare» la
morte di Tristano; a essi si unisce solo in un secondo tempo re Artù con i suoi cavalieri,
Dinadano compreso. Dopo che re Marco è stato fatto prigioniero da Governale e
condotto davanti ad Artù, Dinadano, riconosciutolo, gli si avventa contro mentre sta
scendendo da cavallo e lo colpisce alla testa. Con tale gesto, come dichiara Artù che si
era ferito tentando di parare il colpo, Dinadano agisce precisamente contro le regole
cavalleresche: «nè a me nè a cavaliere errante none appartiene a fare morire uomo
che i’ nostra pregione sia» (Tavola Ritonda, CXXXVII, p. 524); e condanna a morte
Dinadano per l’offesa fatta a re Marco. La reazione di Dinadano è solo un atto istintivo,
dettato dalla sua profonda amicizia per Tristano, un sentimento puramente umano che
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non ha nulla a che fare con gli ideali della cavalleria e della cortesia … I giudizi di
Tagliani sembrano condivisibili solo nel senso che – come del resto qui si è
apertamente riconosciuto – l’autore della Tavola Ritonda e il suo pubbli