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4. MITO E GUERRA MODERNA
Mito e realtà (molto interessante, ma macchinoso..)
In questo capitolo ci si occupa di una paradosso: lo stridente contrasto tra la modernità,
l'industrializzazione e il materialismo della grande guerra, e la produzione di miti, fantasie e
leggende che essa generò.
Spesso tali miti e leggende generate al fronte sono state prese in scarsa considerazione, in quanto
considerati falsità che interferiscono con la comprensione chiara e netta della guerra. Invece
concentrarvisi è utile, in quanto non è affatto vero che furono ricezioni false di realtà fenomeniche,
ma la necessaria articolazione del combattente di quella realtà: le fantasie di guerra colmarono
infatti il gap tra le aspettative iniziali e la sconcertante realtà di fatto.
Eccone alcuni esempi: l'ufficiale spia, il pastore che tradisce la posizione di una batteria disponendo
ad arte le proprie pecore (???), lo spostamento delle trincee in un fiume rosso di sangue, i soldati
crocifissi, l'angelo di mons (?), delle opere difensive tedesche imbottite di cadaveri, l'esercito di
disertori della terra di nessuno che viveva nutrendosi di cadaveri... .
È necessario vedere l'immaginazione in generale come un tentativo di dissolvere e risolvere le
coazioni spaziali e ideali imposte dalla realtà di guerra; bisogna vedere cosa furono queste
coazioni, e come influirono sulla capacità dei soldati di distinguere il vero dal falso.
Intanto è da considerare l'impatto avuto sull'apparato sensoriale dei combattenti: l'udito diviene più
importante della vista, l'immobilismo fece del movimento una potenza fantastica.. .
È stato sovente dedotto che, riesumando i combattenti parole e immagini di una tradizione rituale e
letteraria (culto, misticismo, profezia, sacralità..), si deve parlare di una loro regressione a una
mentalità più arcaica: la guerra barbarizzò, primitivizzò, portò a regressioni infantili. I miti e le
fantasie in quest'ottica sarebbero una via di fuga dalle realtà della guerra.
Quest'interpretazione è semplicistica, e per dimostrarlo bisogna riprendere le ricerche sul mito, in
particolare degli strutturalisti francesi, che si incentrarono precisamente sul rapporto tra il mito e le
realtà di un contesto culturale e sociale, e che sono alternative alla concezione regressiva,
tipicamente psicoanalitica, del mito.
Inizialmente il mito fu visto semplicemente come racconto sacro; ciò rendeva però difficile parlare
di mito nel contesto di società desacralizzate secolari. Con la scuola funzionalista d'antropologia, il
mito cominciò a essere visto come funzionale a certe caratteristiche di ogni società: esso
rappresentava i “documenti anagrafici” delle istituzioni sociali e delle usanze religiose, che
spiegano dove questi ultimi si siano originati, e perchè. Poi il ruolo del mito fu sempre meno
definito come documento anagrafico, ma piuttosto in quanto mediazione di contraddizioni, tensioni
e conflitti inerenti al mondo delle relazioni sociali. E questo è stato accettato. Resta aperto il
dibattito su come questa mediazione abbia luogo. Questo dibattito è sintetizzabile nelle posizioni
opposte di Barthes e Levi-Strauss.
Secondo il primo il mito allevia le contraddizioni fornendo un meta-linguaggio, che sposta i segni
nel contesto della significazione; è un tipo di linguaggio che sottrae alle forme (significanti) il loro
contenuto immaginario (significati) e le ricombina in nuovi messaggi, che permettono di trarre
piacere proprio da ciò che nella vita quotidiana risulta maggiormente problematico e di fuggire dalle
contraddizioni. Tuttavia con questa esposizione, è difficile vedere differenze reali tra mito, fantasia,
leggenda, melodramma, o romanzo..
Per il nostro discorso è più funzionale l'interpretazione di Levi-Strauss: il mito è una speculazione
inconscia che intrattiene una relazione complessa con la cultura che lo genera. Qui il mito svolge la
funzione di selezionare, focalizzare, e inquadrare uno o più dei tanti aspetti del contesto sociale per
mostrarne la virtualità latenti, così come per riconoscere l'impossibilità e l'irrealtà di quello stesso
aspetto se spinto agli estremi. In questa concezione il pensiero mitico opera assumendo che la verità
risieda nella selezione di certi elementi della realtà e nella loro spinta agli estremi.
Dunque sia B. che S. considerano che i miti allevino le contraddizioni, e che nel farlo non spieghino
nulla, in quanto si limitano a spostare le difficoltà; ma per il primo questo spostamento è a livello
linguistico, per il secondo è basato sul potere speculativo e creativo.
Nel contesto di guerra analogamente certi elementi dell'esperienza sono privilegiati nella
significazione non perchè irreali, ma perchè d'importanza vitale per l'esperienza umana della guerra:
in breve le dimensioni sotterranee (le trincee, il sottosuolo, il labirinto..) e aeree (il cielo e gli
aviatori) fornirono i particolari di uno schema che permise ai combattenti di selezionare la loro
esperienza, evidenziarne certi aspetti, e ricombinarle in sequenze in grado di effettuare la
modificazione delle aspettative imposta dalla guerra-lavoro.
In particolare le retrovie fornirono numerosi spunti per lo sviluppo di temi bucolici (un universo
non problematico, ozioso, in cui il soldato può riflettere sulla propria esistenza) e le linee avanzate
invece per l'evocazione del carattere demoniaco del mondo tecnologico (movimento diretto,
propulsore, energico, che suscita incubi di penetrazione e violenza). L'antitesi tra pastorale e
tecnologico non è pura e semplice in ogni caso: nella letteratura di guerra esiste un'immagine
bucolica positiva e una negativa (il soldato a riposo, fuggito dallo scavare, e il bruto che striscia in
trincea), e lo stesso vale per l'immagine tecnologica (la macchina che immobilizza e aliena, la
macchina che accelera e rafforza). Entrambi questi motivi sono ridefinizioni dei problemi che le
realtà di guerra presentano ai combattenti (=miti!).
La frammentazione della coscienza visiva e la fantasia del volo
Le condizioni di combattimento nel sistema di trincea portarono a un vero e proprio
disorientamento i combattenti, e questa crisi portò spessissimo al bisogno di una visuale
complessiva coerente, quella tipicamente attribuita all'aviatore (attorno cui fu costruita infatti una
vasta mitologia).
Tali sensazioni di smarrimento causarono incongruenze psichiche: tanto per cominciare sensazioni
di dejavù dopo la guerra (per esempio quello delle strade-trincee), oppure problemi di
memorizzazione (causata dalle inesistenti coordinate spazio-temporali delle trincee), la perdita del
senso della superficie causata dalla restrizione della coscienza visiva in favore di quella uditiva
(molti veterani ritornati sui luoghi dove avevano combattuto si trovarono di fronte a un'abissale
discontinuità tra il campo visivo e lo spazio com'era stato vissuto).. In particolare il decurtamento
del campo visivo incoraggiò la proiezione immaginaria sulla guerra nonché la dilatazione degli altri
sensi, in particolare l'udito.
L'unanimità dei soldati furono d'accordo che le condizioni della nevrosi fossero poste soprattutto
dall'assordante rumore delle vibrazioni e dei bombardamenti preparatori. Conviene riprendere in
questo senso le teorie di mcluhan e altri secondo cui suono e magia sono peculiarmente compatibili,
così come coscienza visiva e demistificazione lo sono tra loro (sostengono inoltre che nelle culture
alfabetizzate l'orecchio sia organo puramente secondario). E in effetti l'ipotesi che la sintesi visiva
abbia creato quel clima di ansie e paure che introduce alla pratica magica è interessante, se si pensa
alla superstizione che si diffuse al fronte, atta a mantenere un minimo di controllo sulle forze che lo
dominavano (rituali scaramantici, filastrocche, gesti ripetitivi..). In questo senso si può parlare si di
una regressione verso forme di pensiero irrazionali e non scientifici. La pratica magica, attività
individuale e solitaria, è infatti, come sostiene malinowski, quella risorsa appropriata in situazioni in
cui le basi della sopravvivenza non possono essere garantite da alcuna delle tecnologie disponibili,
comportamento funzionale nella misura in cui lo scongiuro riesce ad alleviare ansie che altrimenti
paralizzerebbero qualsiasi capacità d'azione. Ed è opinione condivisa che sia proprio l'affidamento
sempre crescente alla percezione auricolare a sviluppare la coscienza magica.
Leed vuole ora avanzare la possibilità di un altro possibile legame tra i suoni di guerra e il
mutamento della percezione cosciente dei combattenti: in tutta la storia della psicologia gli studiosi
hanno insistito sulla distinzione fra due diverse e dicotomiche forme di organizzazione del pensiero
(chiamate in modo vario: differenza fra razionale e irrazionale, intuitivo e analitico, magico e
scientifico..). Neisser preferisce chiamare queste due forme organizzative “sequenziale” e
“parallela”. La prima opera soltanto quelle verifiche che risultano non contraddittorie alla luce dei
risultati delle precedenti, dunque in essa le idee sono ordinate una per volta; la seconda svolge
invece molte attività simultaneamente, o almeno indipendentemente l'una dall'altra, dunque i
processi mancano di qualsiasi sequenzialità coerente. Questa distinzione offre un'ottima griglia
interpretativa del mutamento nella coscienza percettiva di coloro che furono succubi di
bombardamenti senza tregua: nel contrasto fra guerra industrializzata e comportamento rituale
magico è implicito che si tratti di contrasti fra mentalità diverse, fra uno spirito tecnologico e un
insieme arcaico di credenze. Si può quindi dire che il deteriorarsi del campo visivo inceppò nei
combattenti quel codice che permette all'osservatore di distinguere la successione degli eventi. Tesi
avvalorata da un semplice esempio parallelo: in molte culture il fracasso, lo strumento a
percussione, sono utilizzati per guidare lo stato di trance di particolari rituali, proprio grazie al loro
potere di disorientamento psico-fisico. La limitazione visiva in ultima analisi eliminò la maggior
parte dei segni che permettono agli individui di collazionare la loro esperienza in termini di
problemi risolvibili in una sequenza razionale, costringendo i soldati ammassati nei rifugi
sotterranei ad escogitare nuovi modelle per decifrare la realtà circostante.
Inoltre, proprio perchè non esisteva alcun paradigma convenzionale, culturale, che garantisse
un'adeguata preservazione dell'interiorità del soldato nel corso del passaggio da uno stato d'ordine al