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Fame di vita è un modo di dire per indicare due ambiti problematici comuni più o meno a tutti. Il 1° riguarda il
problema di determinare sul palcoscenico un insieme di energie più intense di quelle che riempivano la platea.
Una quintessenza, in contrapposizione alla placida normalità della parte degli spettatori, che riguarda Appia,
Mejerchol'd, Stanislavskij, Craig, Fuchs, Artaud, Reinhardt e Tairov. Il 2° ambito problematico è quello che può
essere chiamato una contrapposizione tra la vita e la realtà così come appare. Fame di vita si può tradurre con:
bisogno pressante di capire i principi fondamentali della vita. La spinta a esplorare la differenza tra l'apparenza
della vita e i suoi principi profondi era stata la molla di molte delle rivoluzioni nel campo dell'arte dei primi
anni del '900, una consapevolezza nuova: che la vita è in primo luogo un tessuto di contraddizioni. L'artista si
occupa delle contraddizioni intrinseche della natura, le mostra, riproduce e crea, anche a teatro.
Il ventre di Salvini → I nuovi artisti del teatro reagirono contro tutto quello che aveva caratterizzato l'800
teatrale: palcoscenico piatto, uso poco fantasioso di luci, incuria per la parte visiva, consuetudine con i testi. Ci
fu una frattura totale. Ma c'era ancora un filo di continuità nella maggior parte dei primi registi, che avevano
vissuto in quel teatro il proprio periodo di formazione. Lo rifiutavano come norma, però riconoscevano nei suoi
confronti alcuni debiti pesanti. In ognuno dei primi grandi registi e teorici c'è almeno un'esperienza di vita nuda
e potente a teatro: l'immagine di un Grande Attore (Salvini, Duse). I primi registi parlano spesso di questi
modelli, ne venerano la memoria. Stanislavskij vide recitare Salvini come Otello a Mosca nel 1981, fu un
incontro fondamentale. Salvini aveva 62 anni, era alto e appesantito; egli sapeva agire sul respiro stesso dei
suoi spettatori i Grandi Attori per i registi significarono: in primo luogo potenza, densità, capacità di far vibrare
l'aria intorno, di agire sui centri vitali degli spettatori; poi anche molteplicità, ossia capacità di dare + emozioni
insieme.
La peculiarità di ciò che successe agli inizi del '900 fu che gli uomini di teatro in rivolta cominciarono a
chiedere non più singoli attori in vita, ma spettacoli vivi. L'intero spazio della scena doveva essere vivo come
un unico animale in movimento. Alcuni modi di colpire il pubblico propri del G. A. furono tanto importanti per
la regia da diventare un evidente modello. I G. A. non camminavano e non si muovevano, ma danzavano, come
capì Craig, componevano cioè i loro movimenti in maniera complessa seguendo logiche derivate da una musica
interna. Essi si moltiplicavano, si muovevano all'interno della “logica del personaggio” senza la guida di una
coerenza psicologica, ma con la capacità di orchestrare salti logici, emotivi e psicologici che fossero efficaci e
sconcertanti per chi guardava. L'arte del Grande Attore era quella di riunire in una sola interpretazione più
personalità congiunte, come se fosse in grado di dare vita a personaggi con più teste.
Il rapporto tra la nascita della regia e la fine del fenomeno del G. A. fu di contrapposizioni o sostituzioni, di
lotta di potere, di sopraffazione. Fu però anche un rapporto di continuità: i primi registi cercarono di mettere a
punto un teatro che fosse un equivalente di alcuni almeno degli effetti dell'arte dei G. A., in particolare della
loro capacità di far apparire una molteplicità di schegge di emozioni, di vita. Un effetto equivalente non implica
però mezzi simili. I primi registi si sono posti di fronte ai Grandi Attori con un atteggiamento ammirato e
indagatorio. L'arte dei primi registi non nasce dai G. A., ma prende vita (anche) dall'anomalia cui questi ultimi
sapevano dare consistenza. Il loro spazio scenico doveva raddensarsi fino a diventare un nucleo di materia
concreta: un corpo unico.
Meininger → La compagnia dei Meininger conquistò la fama soprattutto a causa della sua capacità di creare
uno spettacolo di accurata ricostruzione storica, e di insieme, con un uso sapiente delle masse. Stanislavskij
racconta il passaggio a Mosca dei Meininger, e di come fosse stato colpito dalla precisione storica. È proprio a
questa influenza che in genere viene fatta risalire la predilezione per il realismo di S. stesso e del Teatro d'Arte.
I Meininger gli mostrarono una recitazione della massa che aveva la stessa forza della recitazione di un attore.
Stanislavskij ebbe attraverso di loro l'esperienza di come si potesse ricostruire la sensazione di potenza di vita
che scaturiva dai Grandi Attori utilizzando un corpo sui generis, formato da più individui.
L'anima del formicaio → Appia scrive parlando del teatro come opera d'arte vivente. Se dal piano dell'estetica
dovessimo passare a quello dell'esperienza vivente dovremmo abbandonare il mondo degli uomini e osservare
qualcosa di completamente diverso: un formicaio. Wheeler, autore de La colonia di formiche come organismo
(1911), definì il formicaio come un super-organismo; la singola formica è incapace di vita indipendente, in
modo non diverso da un dito amputato, e in modo non diverso dal lavoro di un attore in uno spettacolo di regia
in stato nascente. Quel che egli mostrava era l'esistenza tra una formica e l'altra di fili segreti, di connessioni
reali quanto invisibili al posto del vuoto che separa un individuo autonomo da un altro. Nel passaggio tra i 2
secoli si era diffuso l'interesse per la vita di relazione per eccellenza: quella degli insetti sociali. Maeterlinck,
autore di Vita delle api (1901), introdusse il concetto dello “spirito dell'alveare” che sovrintende alle necessità
del singolo insediamento: un'intelligenza non individuale, della comunità; una forza trascendente che emerge
dalla comunione degli insetti, e la guida e organizza. Queste due opere sono utili per intuire come apparisse uno
spettacolo di regia: uno spettacolo in cui nessuna delle due parti aveva possibilità di vita autonoma, e che aveva
tutta la potenza di una colonia compatta e anche la capacità di una colonia di controllare un insieme vasto ed
eterogeneo di elementi.
Teatro come opera d'arte vivente → Appia era una persona difficile, di Ginevra; disegnatore e musicologo per
formazione, fu regista, scenografo e teorico. Forse fu il più grande e il più completo tra i padri della regia, e
definì il teatro come “opera d'arte vivente”. Per creare vita, sosteneva, è necessario trattare l'intero spazio
scenico, con tutto quello che comprende, come una cellula unitaria da manipolare. Ma per creare una simile
cellula e farla agire è necessario servirsi di strumenti efficaci e di principi, che egli individuò nelle sue opere.
Secondo Appia, x dare vita a una messinscena efficace bisogna riscoprire e ricreare i principi di vita all'interno
del dramma, senza curarsi di un rapporto speculare o di omogeneità con la vita normale, quotidiana, esterna al
teatro. Il principio fondamentale che determina la vita scenica è rappresentato dalla creazione di un insieme di
relazioni e proporzioni che devono essere diverse e alterate rispetto a quelle della vita reale. Alcuni strumenti
attraverso i quali si potranno produrre queste alterazioni vitali: la luce e il pavimento. Quest'ultimo deve essere
composto da una serie di piani posti su diversi livelli; in questo modo lo spazio si altera e in più si avrà una
fondamentale alterazione di base della normalità del movimento e anche di tutte le relazioni tra i corpi in scena.
Lo spazio in cui si svolge lo spettacolo è matrice di un insieme di tensioni e relazioni che possono svilupparsi
in tutte le direzioni; è solido e manipolabile. Il cuore del pensiero di Appia sta nel guardare al palco come a un
luogo che va riempito sulla base di energie che vengono da elementi trasversali indipendenti dai caratteri o
dalla volontà del singolo.
L'esistenza di un regista è considerata opportuna, ma non è il perno del cambiamento. Nell'arte drammatica la
necessaria unità di creazione e attuazione si scinde in momenti distinti e occorre “un principio ordinatore che
prescriva la messinscena”. Il principio ordinatore, la presenza di un regista, che è tanto importante, deve farsi
portatore di qualcosa che lo trascende. Nel 1921 A. pubblica la sua opera fondamentale: Il teatro come opera
d'arte vivente. Il teatro, per lui, non deve essere, ma semplicemente è e può essere solo vita autonoma, diversa
da quella quotidiana, la scintilla di vita specifica e differente presente all'interno di un dramma in parole. Non
per mostrare l'esistenza di questa vita, ma proprio per farla scaturire nella sua specifica singolarità è necessario
mettere in atto manipolazioni di spazio, tempo e movimento. “L'illusione scenica è la presenza viva dell'attore”,
dice A.; ma la vita di cui parla non ha nulla a che fare con quella del normale corpo umano. La forza di A. sta
nell'aver individuato lo strumento creatore di base per questa vita parallela, ma diversa da quella reale, un
principio guida: la musica. Attraverso la musica si giunge al movimento di cui egli parla, sintomo e radice del
vivente, è corrispondente alla musica, nel senso del ritmo e della durata della nostra interiorità, non però di
quella quotidiana. La musica non è il prodotto di un artista creatore, ma il canale che mette in comunicazione il
mondo umano con ciò che lo trascende.
Nel 1902 egli riceve dalla contessa Martine de Béarn l'incarico di mettere in scena alcuni quadri da opere di
Wagner, e per l'illuminazione egli si serve dell'invenzione di Fortuny basata sulle proprietà della luce riflessa.
Nel frattempo, Emile Jacques-Dalcroze, musicista, di cui Appia diventerà tra poco ispiratore e collaboratore, ha
creato un sistema basato su esercizi fisici, iniziato x sviluppare il senso del ritmo nei suoi allievi: “ritmica”.
Le logiche del vivente → Zola, sul finire dell'800, aveva iniziato a invocare vita nel teatro. Il naturalismo, il
realismo a teatro furono un'onda di superficie, tuttavia al suo interno possiamo individuare un nocciolo più
sconcertante: la richiesta di vita al teatro. Ci fu in quegli anni,il passaggio dalla semplice verosimiglianza a
qualcosa di più intenso. Fu il passo successivo a essere essenziale, quello operato da Craig, Appia, Fuchs,
Mejerchol'd – fu un passaggio da un teatro realista a un teatro libero da legami con la verosimiglianza. Con
quest'altra ondata arrivò una precisazione: il teatro non doveva più rispecchiare la realtà, ma doveva essere
quinte