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Tuttavia ai Greci non sfuggiva il volto orrido dell'esistenza: la verità dionisiaca rivelava lo
sfondo tragico della vita, la irrisolta contraddizione, il dolore e l'eccesso che la caratterizzano,
come maledizioni della individuazione. Ne sono ancora evidenze i risvolti oscuri della mitologia e
la sapienza di Sileno.
In questo senso la religione olimpica (con l'arte a essa connessa) incarnò la reazione a quello
strato di credenze pre-elleniche: il terrore titanico precede la vittoria della gioia olimpica.
Il mondo olimpico fu insomma la creazione dell'istinto apollineo per la bella illusione: il terrore
richiedeva il superamento nella gioia, allo scopo di rendere sopportabile l'esistenza.
Così nel mondo greco arcaico la tendenza apollinea risultò dominante, coprendo con il gusto
per la misura e l'equilibrio ogni accenno di eccesso o di deformità, come pure ogni spinta alla
esagerata autoaffermazione, riferibili in qualche modo allo scenario preellenico.
E la successiva diffusione del culto di Dioniso produsse la risposta dorica.*
La tragedia attica costituì una ulteriore fase, di correlazione tra le due tendenze. La tragedia
nacque dalla lirica. Essa a sua volta si era delineata come genere con Archiloco (VII sec. a.C.).
La sua natura non sarebbe stata soggettiva, come tradizionalmente accettato: in essa, come in ogni
vera arte, si deve invece riscontrare la presenza della oggettività, come azzeramento della volontà
individuale. Il lirico è in primo luogo un compositore e, in quanto tale, artista dionisiaco che
abbandona la propria soggettività individuale per identificarsi con la vera realtà metafisica e
esprimerla nella musica. Sotto l'influenza apollinea egli riesce a simbolizzare la musica in idee e
linguaggio specifici. La musica precede l'idea . Il contributo particolare di Archiloco fu quello
di introdurre il canto popolare in letteratura: come nella lirica, anche in quel caso l'elemento
dionisiaco (musica) risulta originario rispetto alla simbolizzazione verbale (apollinea).
La tragedia greca avrebbe avuto originariamente, secondo la tradizione che risale a Aristotele,
una connessione con il culto di Dioniso: allestita all'interno delle celebrazioni dionisiache ad
Atene, sarebbe sorta dal ditirambo dionisiaco.
In questo senso un ruolo centrale avrebbe avuto il coro tragico, cui si riduceva in origine
l'intera recita. Il coro rappresentava il corteo dei seguaci del dio, che, nell'estasi, si coglievano
trasformati in satiri. La sua funzione primitiva sarebbe dunque stata quella di esprimere con
quelle figure semibestiali il sentimento secondo cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di
ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa.
Alla presenza di quel coro la comunità poteva riporre la propria veste civile e recuperare il
senso dell'unità con il tutto della natura: una esperienza consolatoria resa necessaria
dall'estasi dionisiaca, con la quale si era gettato uno sguardo sull'essenza dolorosa
dell'esistenza.
I Greci trovarono nella mediazione artistica del coro satiresco il riscatto dalla nausea radicale
della ebbrezza dionisiaca. Nella loro condizione estatica i seguaci di Dioniso si vedevano
trasformati in satiri: questo sarebbe dunque stato il punto di partenza del dramma tragico.
A differenza di quella del poeta epico, la visione del coro non implicava distacco e esteriorità,
ma piena partecipazione e fusione con le figure dell'estasi.
Tuttavia tale visione dionisiaca necessitava di una seconda esperienza visionaria, per poter
realizzare la scena originaria del dramma: la rappresentazione apollinea del dio da parte di
un attore, che affiancava il coro. Ciò comportò anche la ulteriore frattura nel seguito degli
adoratori di Dioniso, tra coro e spettatori. Il coro aveva allora il compito di commuovere gli
spettatori, così che essi non vedessero un attore in scena, ma la figura visionaria che l'attore
intendeva rappresentare. In questo lo spettatore doveva ancora partecipare della visione del
coro.
La tradizione antica attesta il nesso tra le prime forme tragiche e i miti relativi alle sofferenze di
Dioniso, il suo sbranamento a opera dei Titani e la sua rinascita. La dottrina misterica alla base
della tragedia consiste appunto in quanto alluso nel mito: l'unità fondamentale di tutte le cose,
la individuazione come colpa, la speranza della reintegrazione nell'unità.
La accettazione del culto pubblico di Dioniso nella seconda metà del VI sec. a.C. coincide con
lo sviluppo del coro ditirambico in vero e proprio dramma: così anche la sapienza dionisiaca
finì per servirsi della mitologia olimpica per esprimere la propria visione del mondo, intrecciando il
mito dionisiaco con quello della tradizione epica.
Dioniso rimaneva tuttavia l'unico eroe originario, sempre in scena, dietro la maschera dei
diversi eroi della mitologia popolare olimpica. In questo senso lo scadimento della religiosità
olimpica trovò nella musica dionisiaca uno strumento di catarsi, la sua corrente
trivializzazione si riscattò nella profondità del pessimismo dionisiaco.
SULL'UTILITA' E IL DANNO DELLA STORIA PER LA VITA
La storia è preziosa non in quanto conoscenza superflua di dottrine, ma per la vita e per
l'azione. La differenza che passa tra l'uomo e l'animale è che quest'ultimo non ha la capacità di
conservare dei ricordi. L'uomo invece è schiavo del passato, che lo accompagna nel futuro.
L'animale non può non essere sincero, mentre l'uomo resiste sotto il grande carico del passato, che
lo schiaccia a terra e lo piega. Dopo l'infanzia, l'uomo impara la parola "c'era", e questa gli
rammenta che in fondo la sua è un'esistenza imperfetta, che non può essere compiuta.
E quando finalmente la morte gli consegna l'agognato oblio, essa pone il sigillo sulla conoscenza,
sancendo che l'esistenza è soltanto un ininterrotto "essere stato", una cosa che vive del negare e
consumare se stessa. La caratteristica principale della felicità è il saper sentire in modo non
storico: chi non sa sedersi sulla soglia dell'attimo dimenticando le cose passate non saprà mai
che cosa sia la felicità, né farà alcunché possa render felici gli altri.
C'è dunque un grado di insonnia, ruminazione, senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e
infine perisce.
Per capire dov'è la soglia di questo male, bisognerebbe conoscere la forza plastica di ogni uomo
(la sua soglia di sopportazione). Ci sono uomini che posseggono così poca di questa forza che per
un'unica esperienza di dolore, o un lieve torto, si dissanguano inguaribilmente come per una
piccolissima scalfittura sanguinante. Quanto più la natura intima di un uomo ha radici forti,
tanto più egli si approprierà del passato. L'animale, che è una creatura assolutamente non storica,
vive in una certa felicità, senza tedio.
Solo per il fatto di servirsi del passato per costruire una storia presente, l'uomo diventa uomo.
Ma in un eccesso di storia l'uomo viene nuovamente meno, e senza quell'involucro di non
storico che è necessario non potrebbe incominciare. Chiunque agisca ama la propria azione
infinitamente più che essa non meriti. E le azioni migliori vengono compiute in una tale
esaltazione d'amore, che in ogni caso non possono essere immeritevoli di questo amore,
quand'anche il loro valore sia per un altro verso incalcolabilmente grande.
Gli uomini storici sono quelli che uno sguardo nel passato spinge verso il futuro, infiamma il
loro coraggio a misurarsi ancora con la vita, accende la speranza che ciò indietro solo per
imparare, per capire il presente e desiderare ardentemente il futuro.
Il loro occuparsi di storia non è al servizio della conoscenza, ma della vita. L'uomo sovra storico è
colui che non vede la salvezza nel processo, e anzi per lui il mondo è completo. Altri dieci anni non
potrebbero servire a nulla per quanto riguarda la conoscenza.
E' assodato che un eccesso di storia danneggia la vita : in tre occasioni al vivente occorre la
storia:
quando è attivo e ha ispirazioni,
quando preserva e venera,
e quando soffre e ha bisogno di sfogarsi.
Sono rispettivamente la storia monumentale, antiquaria e critica.
Storia monumentale: occorre al grande e ai potenti, che hanno bisogno di maestri che non si
possono trovare scrutando nel presente. Questi esseri viventi corrono verso la loro meta senza
aspettarsi ricompensa se non la gloria; la storia monumentale va incontro al rischio di essere
fraintesa, o falsata nel tentativo di renderla affine alla propria interpretazione.
Storia antiquaria: alcuni viventi si guardano alle spalle con gratitudine e felicità, e si convincono
che la vita sia una cosa bella. Questo ottimismo deriva dalla deduzione che, siccome sono in passato
esistite la grandezza e la magnificenza, fu comunque una volta possibile, e perciò sarà
possibile nuovamente. Lo storico antiquario guarda indietro con fedeltà e amore verso il luogo
ove proviene, e con questa pietà paga il suo debito di riconoscenza. Il suo compito è preservare
le condizioni in cui è nato per coloro che verranno dopo di lui. Il bene che può portare questa
concezione è la contentezza anche in condizioni miserevoli, rozze, modeste, e la felicità di sapersi
non soli, ma parte di una comunità , avere un passato da eredi e un futuro da avi. Però, il passato
soffre perché la storia serve la vita. Il pericolo in questo caso è che ciò che il passato ci ha
consegnato venga accettato quietamente come venerabile e giusto, mentre tutto ciò che si
profila sotto nuovi aspetti venga ripudiato e avversato. Quando la storia serve la vita passata fino
a minare la vita presente, il senso storico mummifica la vita, allora tutto è perduto. La storia
antiquaria degenera nel momento in cui la vita del presente muore. La storia antiquaria ha perciò
un grosso limite: essa può solo preservare, ma non generare nulla . Ostacola anzi fortemente il
rinnovamento .
Storia critica: colui che ha dentro di sé una grande sofferenza e vuol gettar via il peso di
questa, ha bisogno della storia critica, quella che giudica e condanna .
Egli per poter vivere deve infrangere e dissolvere il passato. Traendo quel passato dinanzi a un
tribunale, lo condannerà impietosamente, perché ogni passato merita di essere condannato. Non è la
giustizia a sedere a giudizio, ma la vita, sempre inclemente, sempre ingiusta. Tutto ciò che nasce
merita di perire, per cui sarebbe meglio se nemmeno nascesse (saggezza silena). Importante notare
che, essendo i nostri avi nel torto, ed