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Difilo, che portarono avanti la sopravvivenza della forma degenerata della tragedia: la Commedia
nuova aveva come tendenza quella di contenere le parti corali, lasciando scomparire le tematiche
politiche e dando spazio a trame amorose e travagliate. I personaggi tipici sono i caratteri
convenzionali più o meno sempre uguali, non legati a un ambiente preciso ma canonici, in modo da
rendere lo spettacolo di pura evasione e divertimento, per seguire i nuovi gusti del pubblico.
L'effetto di Euripide sulla commedia, rappresenta un'apocalisse per la tragedia: il coro non è più
centro nevralgico della rappresentazione, ma un coro degli spettatori ammaestrati dall'artista. I
valori dominanti non hanno più niente a che fare con quelli del passato: N. parla dunque di una
serenità dello schiavo, rispecchiata nella Commedia nuova e sovrapposta al concetto originario di
serenità greca. Lo schiavo è incapace di assumersi responsabilità, è privo di aspirazioni magnanime.
Euripide ha portato lo spettatore sulla scena, trasformando gli eroi del mito in personaggi di vita
quotidiana, che agiscono come gli spettatori stessi. Nonostante ciò, tuttavia, i suoi drammi non
ebbero così tanto successo, Eschilo e Sofocle ebbero comunque la meglio. Euripide parlava a due
tipi diversi di pubblico, quello inteso come massa e due spettatori particolari ai quali Euripide si è
rivolto: Socrate ed Euripide stesso, inteso come spettatore. Il teatro di Euripide può essere quindi
interpretato come prodotto del logos dominato dalla soggettività razionale, luogo di pura finzione e
di costruzione artificiosa di personaggi e intrecci. Con la sua nuova concezione, Euripide ha dunque
distrutto l'equilibrio tra apollineo e dionisiaco, eliminando completamente il secondo e
assolutizzando il primo. N. non parla più di tragedia, ma di epos drammatizzato, che sussiste in un
rapporto di separazione tra il poeta e le sue immagini. I principi del socratismo, e quindi del
razionalismo che si era impossessato dell'arte teatrale, sono il fatto che tutto debba essere razionale
per essere bello e il fatto che conoscenza e virtù rappresentassero un intellettualismo morale di
spessore. Nelle tragedie di Euripide si riflette una teoria estetica razionalistica, in modo che il
pensiero prevalga sull'arte; Euripide è il primo poeta sobrio, che condanna tutti i poeti ebbri. È
l'opposto del poeta irragionevole, ovvero di colui che compone quando è invasato dall'estasi divina.
Le Baccanti è l'ultimo dramma di Euripide, l'unica tragedia che tratta esplicitamente il culto
dionisiaco: la vicenda si svolge a Tebe, dove Dioniso è arrivato con le sue baccanti che
costituiscono il coro. Il re Penteo, razionalista, vuole mettere al bando certi riti, per salvaguardare la
città, per cui fa arrestare il dio: Dioniso si lascia catturare sotto le spoglie di essere umano, viene
interrogato dal re e gettato in prigione, dalla quale, però, riesce a liberarsi. Nel frattempo, intorno a
Tebe, le baccanti compiono i loro riti e scacciano chiunque provi ad avvicinarsi, allorché il re
Penteo, travestito da baccante, si spinge sul monte Citerone: le baccanti lo scoprono, lo scambiano
per una belva e lo fanno a pezzi. Tra di loro c'è anche sua madre Agave, la quale si rende conto del
crimine commesso troppo tardi. Nell'ultima scena, Dioniso, inflessibile di fronte al dolore di Agave,
compare, per suggellare la propria vendetta contro il re.
Le Baccanti, dunque, sono la confutazione della teoria che ruota attorno alla NDT, poiché il
componimento si posiziona alla fine del V secolo a.C. N. non esitava a citarne alcuni passi, ma nel
dodicesimo capitolo cerca invece di superare le difficoltà dovute a questo dramma, rifacendosi alla
teoria della ritrattazione. Euripide, alla fine della sua vita, volle riconsiderare le sue posizioni
razionalistiche ostili alla religiosità, come dimostrano le Baccanti. La ritrattazione di un Euripide
alla fine dei propri giorni, che si rende conto dell'impossibilità di arrestare la forza del dionisiaco,
sarebbe secondo N. arrivata troppo tardi.
Nel dodicesimo capitolo, Nietzsche nomina Socrate per la prima volta in modo esplicito,
interpellandolo come demone, contestandogli, così, la vocazione divina che si era attribuito.
Daimon era la figura greca a metà strada tra la divinità e l'umano. Socrate, non avendo lasciato
niente di scritto, viene descritto attraverso le opere di Platone come una coscienza critica ateniese,
ma è molto difficile comprendere quanto sia frutto del suo pensiero effettivo e quanto di Platone
stesso. C'è poi il Socrate di Aristofane, che lo descrive come cinico, arrogante e avido; c'è il Socrate
di Senofonte, che lo descrive come esteticamente coerente. C'è infine il Socrate descritto da
Aristotele il quale, pur non avendolo conosciuto in maniera diretta, ebbe notizie tramite l'allievo
Platone: Socrate non viene trattato come una personalità concerta, ma come un'entità filosofica.
Con lui inizia la filosofia concettuale distaccata dalla fisica naturale, e, anche per Nietzsche, il
socratismo sancisce la fine dell'età creativa e l'inizio di un'epoca segnata dalla razionalità. Per
dimostrare ciò, N. analizza due strumenti della drammaturgia euripidea, il prologo e il deus ex
machina.
Prologo: N. si riallaccia a una critica contenente già nelle Rane di Aristofane. Nei drammi di
Eschilo e Sofocle, il prologo presentava al pubblico l'azione drammatica, la cornice temporale e
spaziale. Euripide, invece, prese il prologo utilizzando in maniera peculiare: lo fece recitare da un
solo personaggio e a volte lo sfruttava per presentare al pubblico la propria interpretazione
dell'argomento. Il prologo eliminava ogni dubbio sulle vicende del dramma e sul significato dei
personaggi, togliendo così di meglio la suspense. Spesso il prologo veniva recitato da una divinità.
Deus ex Machina: utile per risolvere una situazione difficile nel finale. Era un mezzo utile
per assicurare il pubblico circa l'avvenire degli errori.
Secondo N. sia prologo che Deus ex Machina sono stati due strumenti dell'epos logica, sfruttati a
discapito della tensione tragica effettiva.
Nel tredicesimo capitolo N. si riferisce ad alcune interpretazioni che vedevano il legame tra Socrate
ed Euripide, ricordando la testimonianza ateniese per la quale Socrate aiutava il tragediografo per le
sue opere. La testimonianza è di Diogene Laerzio, e, sebbene fosse una figura ben apprezzata da N.,
l'autore della NDT si rende comunque conto che quello era soltanto un pettegolezzo. La
testimonianza di Socrate ed Euripide più certa, giunge è nelle Rane, poiché cronologicamente più
vicina e sostanzialmente più fondata.
N. vede in Socrate la conoscenza razionale che rifiuta tutto quel che è istinto, rappresentando così il
razionalismo: mentre per N. nella Grecia del V secolo a.C era presente un nesso ottimale tra istinto
e verità, Socrate distinse invece tra vero e falso, finendo per valutare i fenomeni artistici come
illusione. L'innaturalezza del filosofo ateniese è testimoniata anche dalla sua scelta di essere
condannato a morte, anziché scegliere l'esilio, per combattere, così, un istinto naturale, quello di
sopravvivenza.
L'idea di Socrate riguardo alla poesia tragica, viene in qualche modo redatta da Platone: 1 – La
tragedia si rivolge a un pubblico che non possiede molto intelletto (Gorgia)
2 – È un'arte lusingatrice a servizio del piacere e senza utilità (Gorgia)
3 – Non esprime verità in quanto soltanto imitazione di eidola
(Repubblica)
Stando ancora al “pettegolezzo” di Diogene Laerzio, lo stesso Platone, per diventare allievo di
Socrate, bruciò le poesie che aveva redatto: un'inclinazione artistica giovanile, soffocata per
obbedire ai precetti del maestro e che sfociò dunque, in una nuova forma di scrittura, quella del
dialogo. Il dialogo è un ibrido fra narrazione, lirica, dramma, poesia e prosa. Il dionisiaco
scompare interamente, mentre l'apollineo si comprime nello schematismo logico del pensiero
filosofico; nella scena di Euripide, inoltre, troviamo eroi che difendono il proprio punto di vista con
ragione, esattamente nel modo di Socrate. In entrambi i casi, nella tragedia euripidea e nel dialogo
platonico, si dissolve inoltre il pessimismo che N. aveva celebrato come prospettiva esistenziale
greca: con Socrate domina l'ottimismo. Il coro tragico di stampo dionisiaco perde, così, spessore,
avviandosi purtroppo verso la distruzione della sua essenza. Socrate, nell'attesa di essere giustiziato,
sembra che vide un'immagine che lo invitava a dedicarsi alla musica (Fedone), esattamente come
Euripide dedicò la sua ultima opera a Dioniso: questo rappresenta per N. una strada per la rinascita
dello spirito dionisiaco e della tragedia, poiché l'arte, espulsa dalla logica, può risorgere e riscattarsi.
Nel quindicesimo capitolo N. celebra con entusiasmo la civiltà greca e le sue conquiste, analizzando
come la comparsa dell'uomo teoretico abbia segnato la separazione di arte e scienza, che da allora
marciano su strade parallele. Mentre la scienza ha soddisfazione dalla conoscenza, l'arte la consegue
nel vedere e nel vivere. Lo scopo della scienza, la conoscenza, è fine e debolezza della scienza
stessa la quale, da sola, non può correggere e penetrare l'essere, ricorrendo così all'arte. Il naufragio
dell'ottimismo teoretico, così, apre la strada alla conversione della scienza in arte: è qui che può
nascere la conoscenza tragica, veicolata dall'arte verso la quale il socratismo logico è costretto a
ripiegare.
Nel sedicesimo capitolo, e per tutta la seconda parte di NDT, N. sposta la prospettiva sull'epoca
presente, per illustrare, principalmente, come ancora oggi prosegua la lotta tra scienza e arte: dopo
un'introduzione storica sulla Grecia del V secolo a.C, N. approda alla modernità, analizzando le
concezioni di Wagner e Schopenauer, improntate sull'arte e sulla musica. Entrambi hanno sottratto
la musica al quadro delle belle arti.
Di Schopenauer N. cita un lungo passo che tratta determinati argomenti:
– La musica è un linguaggio universale, una grammatica del cosmo
– La musica si può paragonare all'aritmetica, con forme intuitive e applicabili, a priori, a tutti
gli oggetti.
– La musica ha un rapporto diretto con l'essenza di tutte le cose, rappresenta il piano
metafisico.
– Le melodie sono simili ai concetti universali, sono astrazioni della realtà di espressioni
dell'essenza intima del mondo.
– I concetti universali sono però forme astr