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FASCISMO COME FORMA D’AZIONE E PRASSI
Perciò nella nuova ricerca sul fascismo non ci si orienta più ad uno statico elenco di tratti
caratteristici,al contrario a un’impostazione che può meglio rilevare il potenziale di sviluppo e la
variabilità del fascismo. Naturalmente un’impostazione finalizzata alla dinamica e alle pratiche
deve poter designare il nucleo centrale del fascismo da un punto di vista idealtipico. Ma invece di
occuparsi del criterio determinante di un “minimum fascista” come fa Griffin, è affine a questo
contesto un più flessibile concetto di fascismo. Lo storico ed esperto conoscitore della Francia
Robert O. Paxton, insegnante alla Columbia University di New York, ha sviluppato questa idea di
un concetto prassologico del fascismo nel modo più ampio. Il suo saggio concettualmente
elaborato, apparso nel 1998 nel “Giornale della storia moderna”, è qui presentato per la prima volta
in traduzione tedesca. Le riflessioni di Paxton fanno seguito al modello su tre livelli di Wolfgang
Schieder, con cui venivano distinti l’una dall’altra le fasi del movimento, dell’affermazione e del
regime fascisti. In seguito Später ha aggiunto ancora una quarta fase che rappresenta il processo
di radicalizzazione del nazionalismo come un “regime dittatoriale e totalitario di marca fascista”. Si
fa riferimento alla successiva esautorazione dell’alleato conservatore che ancora una volta
accellerò sensibilmente il già avviato processo dell’ “Autoinformazione (Verselbständigung?)
dell’apparato fascista”. Con il processo di interruzione della nazionalità (nationalen) tedesca, delle
squadre di economisti, della guida delle forze armate e del ministero degli Affari Esteri il
Nazionalsocialismo andò chiaramente al di là del suo modello storico italiano. Per i primi tre livelli
si lasciano invece dimostrare chiari parallelismi. Dopo la fase del movimento, che fu (corr.)
contrassegnata da molte comunanze nell’uso collettivo della forza, nella forma di vita mediata in
senso carismatico e condizionata da giovani membri, nello stile paramilitare d’azione e nel
carattere di un partito di massa, si osservano rassomiglianze nella fase affermativa del regime
fascista. La repressione di uno stato di Polizia andò i pari passo con la sospensione dei partiti
democratici, del Parlamento, della libertà di stampa e pensiero come dei sindacati e di altre
associazioni mano nella mano. Nondimeno questo processo culminò in Germania negli anni 1933
– 1944, molto più velocemente e rigorosamente (si pensi per esempio ai primi campi d
concentramento) che non nell’Italia fascista, a cui furono per questo necessari i sette anni tra il
1922 e il 1929. La fase del regime fu perciò caratterizzata da una “dittatura di mediazione
improntata a una -guida- carismatica”, che faceva da mediatore tra i gruppi conservatori di
esercito, industria, grossi proprietari terrieri, burocrazia (così come pure con la Monarchia in Italia)
da una parte, e con i rappresentanti radicali del particolare movimento fascista dall’altra. La
mescolanza di repressione stato-poliziesca, promesse sociali di assistenza pubblica ed
imperialistica espansione politica caratterizzarono questa fase del regime. Tanto la concezione di
Paxton così come quella di Schieder fanno seguito all’indagine pioneristica, affascinante ora come
allora, “Behemoth” di Franz Leopold, che già nel 1942 aveva descritto in modo eccellente la
“Anarchia autoritaria” del sistema fascista. Negli anni 70 questo decisiva direzione di ricerca fu
potenziata nell’ambito della ricerca sulla policrazia. I nuovi studi sul fascismo, che chiaramente
assegnano maggiore importanza alle auto-interpretazioni e pratiche dei fascisti e non si fermano
alle analisi delle strutture istituzionali, si distinguono da simili modelli per il loro orientamento
teoretico sull’azione. Il fascismo viene definito in base alla sua azione politica, al suo stile politicoe
alla sua prassi organizzativa. A tale riguardo doveva essere fascista un valore d’esperienza nato
da azione e atteggiamento. Il fascismo viene con questo doppiamente compreso, come azione
politica e in relazione a questo come espressione politico-culturale. La prassi dei fascisti viene
concepita in rapporto diretto con i loro esempi di significato e interpretazioni politiche. Da ultimo
questo non significa assumere l’auto-percezione e interpretazione dei fascisti nell’elaborazione del
concetto. In definitiva il concetto prasseologico del fascismo designa nel senso di Bourdieus un
modello di comportamento che come operatore tra struttura e prassi porta allo scoperto gli schemi
di pensiero e giudizio dei suoi attori, educa alle strategie d’azione e garantiva la riproduzione
pratica delle particolari strutture del fascismo. Con questo le pratiche sociali fissate e acquisite
corporalmente, come pure continuative e automatizzate, stanno al centro dell’analisi.
VIOLENZA E CONSENSO: IL FASCISMO COME DITTATURA POPOLARE
Da ultimo Michael Mann nell’anno 2004 ha presentato una ulteriore pubblicazione di rilievo sul
fascismo, di cui si può leggere l’introduzione in una ridotta versione tedesca anche in questo
fascicolo. Diversamente da molte delle nuove definizioni del fascismo Michael Mann insiste sul
significato dei presupposti sociali del fascismo. Con questo egli non si ferma però in nessun modo
alla struttura di classi del fascismo come molte precedenti teorie sulla classe borghese, al contrario
nella sua determinazione delle basi sociali del fascismo mette insieme altri elementi sociali come i
giovani, le pratiche militari, l’educazione, la religione e la strutturazione regionale : “Noi dovremmo
afferrare la base sociale del fascismo e la sua funzione. A dire il vero non dovremmo mettere
“sociale” sullo stesso piano di “classe” o “ceto” ”. Al tentata definizione di Mann è connessa la
mano di fondo socio-storica con esplicita accentuazione della componente della violenza. Con
questo egli tira fuori la politica razzista (e appunto non solo l’ideologia) del sistema che sfocia nella
“pulizia etnica”. Guerra e violenza hanno senza dubbio marcato il fascismo in modo inedito. A
questo si collegano la guerra di sterminio all’esterno con l’inasprimento degli apparati di
repressione all’interno. La guerra e la società militarizzata (durchmilitarisierte?) della guerra erano
le condizioni di possibilità della radicalizzazione del regime. Anche nella sfera intra-sociale era un
tratto specifico del fascismo che violenza e popolarità a fondamento del consenso fossero legate
l’una all’altra nel più particolare modo e maniera. Ma l’ “uso governativo (gouvernementale?) delle
esperienze di massa, la “combinazione di dispotismo e paternalismo”non dovevano (sollte?), così
Karl-Heinz Roth, essere spacciati per una variante statal-popolare di un socialismo nazionale. Il
cambio di velocità, la sovrapposizione e combinazione di populismo nazionalista, acclamazione
estorta con la forza, mobilitazione militare e violenza piena d’odio indicavano (bezeichnet)
nondimeno un meccanismo di potere centrale nel regime fascista, in cui i principi di consenso e
violenza coincidono parzialmente ma allo stesso tempo non potevano mai essere portati ad
un’accordo regolamentato. Questo carattere paradossale spiega (zum einen?) l’interna fragilità ma
anche la sempre crescente radicalità del regime fascista. I due principi di inclusione ed esclusione
caratterizzavano già i movimenti fascisti. Già qui si mostra quanto entrambi fossero strettamente
legati, dal momento che i movimenti fascisti erano impegnati a ottenere popolarità, incremento
degli iscritti e appoggio elettorale, e allo stesso tempo impiegavano la violenza che, proprio perché
marcasse chiare discriminazioni, dispiegava la sua azione attrattiva all’interno e formava strutture
cameratesche di solidarietà. Già Alberto Aquarone aveva sottolineato nel 1979 come consenso e
violenza non fossero in alcun modo grandezze incompatibili. La violenza poteva persino
trasformarsi in una delle colonne portanti del consenso. La combinazione di bellicismo, militarismo
e l’entusiasmo di ampi strati della popolazione giocò un ruolo importante come strumento di
mobilitazione della politica interna. Proprio questa militarizzazione della società fascista serve a
riflettere qundo si parla di consenso al regime. Per la dittatura italiana ci si è interrogati sul
consenso che il regime poteva raggiungere tra il 1929 e il 1936 al più tardi con gli studi di Renzo
De Felice. Così si è richiamata l’attenzione da un lato sul malcontento documentato nei rapporti di
polizia negli anni della depressione tra il 1930 e il 1933, ma dall’altro si è posto l’accento anche
sull’incremento di popolarità con la conquista dell’Etiopia e le abili tecniche propagandistiche.
L’atteggiamento di molti lavoratori e contadini deve allora essere messo a confronto con la
fascistizzazione della gioventù sottoforma di “resistenza passiva” e “avversione morale”. In un
primo momento il regime non ha raccolto consenso, ma al contrario indifferenza, apatia e
rassegnazione. Philipp Cannistraro e Victoria De Grazia hanno posto l’accento su questo (von?),
che una semplice indagine sul meccanismo di propaganda fascista non è in alcun modo sufficiente
a farsi un’idea della cultura politica del regime. Il lavoro di De Grazia sulla organizzazione fasciste
del tempo libero “Opera Nazionale Dopolavoro” mostra che il fascismo non può essere compreso
solo come una mera macchina di produzione mitica. Certamente il contributo (Zuarbeit?) volontario
ha strutturato fortemente l’organizzazione fascista delle masse, ma questa era strutturata a un
livello più alto dall’apatia politica. Paul Corner ha riassunto in modo appropriato la discussione su
consenso e violenza: “Repressione e consenso sono, per usare una metafora, due metà di una
stessa mela; ciò che non è controllato dalla repressione e prevenzione è controllato da una scelta
attiva […]. Esso non consiste tanto di repressione, terrore e pulizia del pensiero quanto dei più
essenziali elementi della vita ordinaria”. Il controllo attraverso il partito fascista e le organizzazioni
di assistenza pubblica, i sussidi economici e gli impieghi migliori per intervento del regime secondo
la abilità professionale e gli atteggiamenti politici, portarono al consenso pragmatico con il regime,
in cui non si può dimenticare che innanzitutto l’espulsione e lo sfruttamento dei cosiddetti “estranei
alla comunità