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L P M
UIGI ULCI ORGANTE
Proemio (I, 1-7)
Inizialmente era il Verbo presso Dio Ed
era Dio il Verbo e il Verbo Lui:
Questo era nel principio, secondo me,
E non si può far nulla senza Lui.
Perciò, giusto Signore benevolo e pio,
Mandami anche solo uno dei tuoi angeli, Che
mi accompagni e mi faccia ricordare Una
celebre, antica e mirabile storia.
E tu, Vergine, figlia, madre e sposa
Di quel Signore che ti ha dato la chiave
e di ogni cosa
Del Cielo e dell’abisso
Quel giorno in cui il tuo Gabriele ti ha detto “Salve”
Perché tu sei piena di pietà dei suoi servi,
Con dolci rime e stile grato e soave
Aiuta i miei versi con benevolenza E
illumina la mente fino alla fine.
Nel tempo in cui Filomena
Con la sorella si lamenta e implora,
Poiché si ricorda del suo vecchio dolore,
E fa innamorare per i boschetti le ninfe,
E Febo conduce il carro con prudenza, Poiché
il suo Fetonte ancora lo frena,
Ed appariva appunto all’orizzonte,
Tale che Titone si graffiava la fronte,
Quando io varcai la mia prima barchetta
Per seguire chi sempre deve seguire
La mente, e impegnarsi in prosa e poesia
E mi dispiacque del mio imperatore Carlo;
Poiché so che quelli che sono stati celebrati dai poeti,
Che la sua gloria prevaricherebbe tutti:
Questa storia di Carlo, per quel che vedo, È
stata capita male e scritta peggio.
Leonardo Bruni diceva già
Che se avesse avuto uno scrittore degno,
Come li ebbero Andrea da Barberino e Umano di Parigi,
Che se avesse avuto ingegno e diligenza
Carlo Magno sarebbe stato un uomo divino,
Poiché egli fece grandi vittorie e dominato,
E fece per la Chiesa e per la Fede Certo
più di quel che si dice e crede.
Si guardi ancora alla badia di San
Liberatore, presso Menappello
Giù in Abruzzo, fatta in suo onore,
Dove vi fu la battaglia e il gran flagello
Di un re pagano, che l’imperatore Carlo
Uccise, e tanto fellone del suo popolo,
E si vedono tante ossa, e lo sanno tutti, Che
non ne giungeranno tante a Giosafat.
Ma il mondo cieco ed ignorante non apprezza Le
sue virtù come merita.
E tu, Firenze, della sua grandezza Possiedi
e sempre potrai possedere:
Ogni costume e gentilezza
Che si possa avere o acquisire Col senno,
con la ricchezza e con la lancia, Dal nobile
sangue è venuto dalla Francia.
Prima impresa di Morgante (I, 60-69)
E a Morgante faceva grandi onori
L’abate, e si sono riposati molti giorni. Un
giorno, come piaceva ad Orlando, Sono
andati qua e là a spasso.
L’abate in camera sua aveva Molte
armature e degli archi appesi:
A Morgante ne piacque uno che vede
Perciò lo indossò, benché non creda di adoperarlo.
Il luogo era un deserto arido.
Orlando disse: - Come buon fratello,
Morgante, vorrei che non ti dispiacesse
Andare a prenderre l’acqua. – Al che egli rispose a quello:
-Dimmi ciò che vuoi, ché sarà fatto.-
E si mise in spalla un gan catino
E si avviò verso una fonte,
Dove era solito bere sempre ai piedi del monte.
Giunto alla fonte, sente un gran baccano
Venire all’improvviso dalla foresta. Tirò
fuori una saetta dalla faretra,
La mise sull’arco e alzava la testa.
Ecco apparire un gran gregge di porci
Veloci e vanno con gran fretta,
Ed arrivarono proprio alla fontana, Dove
il gigante è da loro raggiunto.
Morgante a caso lancia un dardo: Proprio
all’orecchio lo colpiva;
Dall’altro lato passa la freccia,
Per cui il cinghiale morto gambettava a terra. Un
altro, quasi per vendetta,
Andava adirato contro il gran gigante;
E poiché giunse troppo velocemente al passo,
Morgante non fece in tempo a tirar con l’arco.
Vedendosi il porco venuto addosso,
Gli diede sulla testa un grande pugno, Che
gli ruppe persino il cranio,
all’altro. Gli altri porci,
E lo pone vicino
vedendo quello massacrato, Si avviano
tutti in fuga per il vallone. Morgante si
mise il catino sul collo,
Che era pieno d’acqua, e lo tiene ben fermo.
Aveva messo il catino su una spalla,
Sull’altra i porci, e percorreva velocemente il terreno; E
torna alla badia, che è lontano,
Senza che gli si versi addosso una sola goccia d’acqua.
Orlando, che lo vedeva tornare così velocemente
Coi porci morti e quel vaso pieno, Si
meravigliò della sua forza;
Così anche l’abate; e spalancano le porte.
I monaci, vedendo l’acqua fresca,
Si rallegrarono, ma più dei cinghiali,
Come ogni animali si rallegrano dell’esca; E
trascurano le preghiere.
Ognuno si affanna, e non sembra che gli dispiaccia,
In modo che questa carne non venga messa sotto sale
E che poi secca sappia di vecchio; E i digiuni
rimasero indietro.
E per una volta mangiarono a crepapelle,
E sbuffano che sembravano usciti dall’acqua,
Tanto che si dispiacevano più degli animali, Che
le ossa rimanevano troppo puliti.
L’abate, dopo che ha fatto molto onore
A tutti, un giorno, dopo questo pranzo, Dette
a Morgante un destriero molto bello, Che
aveva avuto per molto tempo.
Morgante sul prato conduce il cavallo
E vuole che corra e dimostri di cosa è capace, E
pensa che abbia la schiena di ferro,
O forse non credeva l’avrebbe schiacchiato come un uovo.
Questo cavallo si accascia per le sofferenze, E si trova
morto a terra.
Dice Morgante: -Alzati, cavallo vecchio e mal ridotto- E
lo punzecchia con lo sperone.
Ma alla fine bisogna che smonti,
E disse: - Io sono leggero come una piuma,
Ed è scoppiato; che ne dici tu, conte?-
Rispose Orlando: -Mi sembri piuttosto Un
albero di nave e la tua fronte una gabbia..
Lascialo andare, poiché la sorte indica Che
tu venga a piedi con me, Morgante.
-Ed io così verrò- disse il gigante.
Professione di fede di Margutte (XVIII, 112-120)
Giunto un giorno Morgante un giorno su un crocevia,
Uscito da una valle in un gran bosco, Vide
venire da lontano di sbieco Un uomo che in
volto sembrava tutto fosco. Dette con la
cima del batacchio un colpo
In terra, e disse: “Non lo conosco”; E
si mise a sedere su un sasso, Finché
non arrivò a passare lì.
Morgante guarda tutto il suo corpo
Più e più volte dalla testa ai piedi, Che
gli sembravano strani, orridi e brutti:
–viandante.-
-Dimmi il tuo nome,- diceva Quello
rispose: -Il mio nome è Margutte;
E ebbi voglia anch’io di essere gigante, Poi mi
pentii quando fui giunto a metà crescita:
Vedi che sono appunto altro circa quattro metri.-
Morgante disse: -Tu sia il benvenuto:
Ecco anch’io avrò un fiaschetto appeso al fianco,
Poiché da due giorni a questa parte non ho bevuto;
E se verrai con me,
Ti tratterò come si deve durante il viaggio.
Dimmi di più: io non ti ho chiesto
Se sei cristiano o saraceno,
O se tu credi in Cristo o in Apollo.-
Allora Margutte rispose: -A dirti la verità,
Io non credo in nulla,
Ma nel cappone, o nel lesso o se preferisci nell’arrosto;
E qualche volta anche nel burro,
Nella birra, e quando ne ho, nel mosto,
E preferisco una moneta d’argento che di rame;
Ma sopra ogni cosa credo nel buon vino,
E credo che si salvi chi crede in lui;
E credo nella torta e nel tortello:
La prima è madre, l’altro è il figlio;
E il vero padrenostro è il fegatello,
E possono essere tre, due e uno solo,
E sicuramente l’ultimo deriva dal fegato.
E poiché vorrei bere con un secchio di ghiaccio,
Se Maometto vieta e condanna il vino,
Credo proprio che egli sia un sogno o un incubo;
E Apollo deve essere una farneticazione, E
Trivigante un convegno di diavoli e streghe.
La fede è come il solletico:
Col tuo discernimento credo che tu mi capisca.
Ora tu potresti dire che io sia eretico:
Affinché non spenda invano le mie parole,
Vedrai che la mia natura non cambia E
che io non sono terreno su cui seminare.
La fede dipende da come uno se la porta dietro.
Vuoi tu vedere che fede sia la mia?,
Che sono nato da una monaca greca,
E da un sacerdote musulmano in Bursia, in Anatolia.
E da piccolo mi divertii a suonare uno strumento
A corde, perché avevo voglia di
Cantare Troia e Ettore e Achille, Non
solo una volta, ma tante.
Poi smise di piacermi il suonare la chitarra,
Io cominciai a portare l’arco e la faretra.
Un giorno che ero alla moschea, feci una rissa,
E vi uccisi il vecchio sacerdote,
Mi misi al fianco questa scimitarra
E cominciai ad andare a spasso per il mondo;
E per compagni mi portai dietro
Tutti i vizi del padre e della madre;
Anzi quanti son giù nell’inferno:
Ne ho settanta volte sette dei peccati,
Che non mi lasciano né d’estate, né d’inverno; Pensa
quanti poi ne ho di venali!
Non credo, se il mondo fosse eterno,
Si potessero commettere tanti mali
Quanti ne ho commessi io nella mia vita;
E ne conosco bene tutto l’elenco.
Morte di Margutte (XIX, 145-154)
Morgante, come lo vede addormentarsi,
Gli toglie gli stivaletti di dosso
E, per divertirsi, li nascose,
Un poco lontano, per quando si sarebbe svegliato.
Margutte russa, e quello lo osserva; Poi lo
sveglia, perché si arrabbiasse. Margutte si rizzò,
come si svegliò,
E si accorgeva subito degli stivali;
E disse: -Anche tu, Morgante, sei strano:
Ho visto che mi hai tolto gli stivali,
E fosti sempre rozzo e villano.- Disse
Morgante: -Indovina dove li ho nascosti:
Sono qui vicino:
Questo è per i mille oltraggi che mi hai fatto.-
Margutte guarda, e non li ritrovava; E
continua a cercare, e borbottava tra sé.
Rideva Morgante sentendo quello che si cruccia.
Margutte invece comunque alla fine li ha ritrovati,
E vede che li ha presi una bertuccia, E prima se li
è messi e poi tolti.
Non chiedere se gli scappano le risate,
Tanto che gli occhi sono tutti gonfiati E
sembra che gli schizzino fuori di testa; E
stava lo stesso a vedere la scena comica.
A poco a poco ci prese gusto
A questo gioco, e le risate crescevano,
Fino al punto che aveva serrato il petto
Tanto che si voleva slacciare la cintura, ma non poteva, In
modo che gli pare di essere impacciato.
Questa bettuccia se li rimetteva:
Allora le risate di Margutte raddoppiano,
E alla fine scoppia per la sofferenza;
E sembrò che gli uscisse un proiettile di cannone, Tanto
fu grande il rumore dello scoppio.
Morgante corse, e guarda di Margutte
Dove aveva sentito quel suono