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NEL TEMPO DEL NEOREALISMO.
Realismo e neorealismo.
Il neorealismo è considerato quel movimento che raccoglie tutte le nuove forme di letteratura
realistica sviluppate negli anni ’30. I principali esponenti sono Vittorini e Pavese con la loro
rappresentazione del mondo popolare e col loro impegno democratico e antifascista. Il momento
più autentico è quello della Resistenza quando si diffonde un nuovo modo di rappresentazione
della realtà popolare e si affronta al cinema. Il linguaggio medio è la voce del popolo che diventa
protagonista e che ha bisogno di narrare le proprie vicende, che riguardano principalmente la lotta
partigiana. Si tende a suggerire un modello di umanità positiva, a trasporre i fatti concreti in modo
epico distinguendo il bene dal male. Come osservò Gadda, la struttura neorealista si basa su una
tremenda serietà, come quella che ha chi sa di stare dalla parte giusta.
Il cinema, agli eroi tradizionali, fittizi, sostituiva uomini comuni, operai, contadini, impiegati. Agli
attori professionisti venivano preferiti spesso uomini comuni.
Elio Vittorini: una presenza inquieta e vitale.
In tutta la sua vita ha espresso una voglia di partecipazione e di intervento attivo alla realtà.
Nasce a Siracusa nel 1908 dove trascorse la sua infanzia, seguendo gli spostamenti del padre,
ferroviere. Il treno e il tema del viaggio saranno sempre presenti nella sua opera. Dopo il
matrimonio si traasferì prima in Venezia Giulia e poi a Firenze dove lavorò come correttore di
bozze per la “Nazione”.
Lavorò anche come traduttore dall’inglese (appreso da autodidatta) e divenne redattore di “Solaria”
su cui pubblicò il romanzo “Il garofano rosso”.
Fascista “di sinistra”, guardò molto alla cultura europea e soprattutto a quella americana. Seguì gli
avvenimenti della guerra civile spagnola e si pose all’intervento dell’Italia e si oppose all’intervento
dell’Italia fascista alle forze reazionarie e clericali. Nel 1936 venne espulso dal partito fascista e si
avvicinò all’opposizione. Nel 1943 è incarcerato a San Vittore, poi liberato, si occupa di stampa
clandestina e prende parte alla Resistenza. A Milano fonda la rivista “Il Politecnico” (per Einaudi)
nel 1945, ma incontra lo sfavore del Pci e poco dopo venne chiuso, quindi prende le distanze
anche dal Pci nel 1951. Nel 1955 gli morirà il figlio e infine si dedicherà alla collana narrativa “I
Gettoni” Einaudi e con Italo Calvino fonda “Il Menabò”. Muore a Milano nel 1966.
Vittorini intellettuale e organizzatore di cultura.
Nei primi anni il lui è molto forte questa volontà di partecipazione al vortice della vita, per estrarre il
valore autentico e profondo. Si sente l’eco de “La Voce” e del fascismo di sinistra. Con la sua
rinuncia al fascismo, questo vitalismo si rivolge con appassionata attenzione alla realtà popolare,
caricandosi di sdegno verso l’ingiustizia e l’oppressione. L’interesse del popolo è per lo scrittore
anche interesse verso le proprie radici.
L’esperienza della Resistenza genera in lui l’esigenza di un’azione concreta, che diventa il
“Politecnico”.
Dal Pci fu accusato di essere un giornale eclettico e di fornire troppe concessioni alla cultura
borghese. In una lettera a Togliatti, su “Politica e cultura”, Vittorini affermò che la cultura è libera e
autonoma ricerca ed era necessario mantenere il contatto col livello culturale delle masse.
La narrativa di Vittorini.
Le opere di Vittorini sono sempre tese verso la ricerca di un qualcosa che possa essere essenziale
o risolutivo, ma ciò non è sempre possibile, tant’è che molte sue opere sono incomplete. le prime
prove narrative sono quelle giovanili dei racconti “Piccola borghesia” apparsi su “Solaria” nel 1931.
La vita della piccola borghesia si esprime soprattutto tramite immagini dell’infanzia e
dell’adolescenza.
L’interpretazione tutta positiva dell’adolescenza si ha nel romanzo “Il garofano rosso”. L’interesse
principale è l’incontro tra la vitalità adolescenziale e le contraddizioni politiche, il groviglio di
tensioni irrisolte dell’esperienza fascista.
“Conversazione in Sicilia” inizia dopo la rottura col fascismo, in un momento di stasi narrativa. Fu
sentita come rivelazione di una nuova forma di narrazione lirica, appoggiata su suggestioni e
sfumature segrete, su rapporti di tipo analogico tra figure e situazioni su sfondo mistico e sacrale.
Narrazione in prima persona, ma la voce narrante solo in parte è quella dell’autore e rappresenta
più una sorta di soggetto collettivo, l’immagine dell’intellettuale cittadino, che all’inizio sembra non
riuscire ad uscire dalla grigia passività del presente, ma egli vi sfugge prendendo un treno per la
Sicilia. Il ritorno alle radici riconduce ai valori autentici e severi della vita popolare. Nasce una
speranza di riscatto e liberazione. Il romanzo, più che una narrazione, è un insieme di situazioni
liriche e figure esemplari, personificazioni morali. Lo stile è pieno di accensioni liriche, di
rispondenze interne, cadenze musicali, di ripetizioni che sottolineano il carattere rituale del
discorso e modi grammaticali tipici del parlato.
Gli astratti furori (opera).
Gli “astratti furori” stanno a rappresentare una situazione di malessere. Astratti vale per introversi e
mentali, incapaci di tradursi nel vivo dell’azione proprio mentre fuori imperversa la guerra. Una
condizione che si manifesta con le figure di rinuncia, di indifferenza e di silenzio nel rapporto con la
donna. L’io del narratore coincide con l’autore. Il malessere è quello dell’inverno del 1936 e dei
massacri della guerra civile spagnola. All’inizio sembra quasi scomparso quel ricordo della Sicilia
solare, ma poi il narratore-autore dovrà intraprendere un viaggio verso casa, a ritrovare quel
mondo originario, quell’umanità autentica che gli farà riscoprire un nuovo e profondo valore della
vita.
Una nuova cultura (opera).
L’articolo appare sul primo numero di “Il Politecnico”, dove Vittorini traccia le linee di un progetto
che mira a ritrovare i valori più autentici della tradizione culturale e cercare di far sì che agiscano
concretamente nella vita sociale. Affinchè accada, la cultura deve saper governare la società: non
può limitarsi a consolare le sofferenze dell’uomo, ma saper combattere lo sfruttamento e la
schiavitù. Per Vittorini occuparsi di pane e lavoro significa occuparsi dell’anima, è il solo modo per
non essere schiacciati dagli orrori della guerra.
Cesare Pavese: il mestiere di vivere.
Anche Pavese, come Vittorini, si dedica alla realtà popolare e contadina, ma a differenza sua non
sarà attraversato dalla stessa vitalità e dalla volontà costruttiva e positiva. La sua vita si risolve si
risolve in una tormentata analisi di sé stesso con gli altri, in una ininterrotta lotta per costruirsi
come uomo e scrittore: una lotta dove tanto più prende coscienza di sé, più si sente di essere
altrove e di non poter coincidere con gli altri. Per questo si suicida.
Nasce nelle Langhe nel 1908 da famiglia piccolo-borghese trasferitasi poi a Torino dove studiò.
Fondamentale il liceo dove ebbe come insegnante Augusto Monti e amici come Leone Ginzburg,
Norberto Bobbio, Giulio Einaudi. Si laureò in lettere con una laurea sullo scrittore americano
Whitman. Già dalla fine degli anni ’20 aveva iniziato a tradurre dall’inglese testi di Defoe, Dickens,
Melville, Joyce. Nel 1934 sostituì l’amico Ginzburg, arrestato, a “La cultura” dove iniziò la
collaborazione con Einaudi. Nel 1935 venne arrestato e inviato al confino a Brancaleone Calabro.
Tornato a Torino ricominciò il lavoro editoriale, sebbene il vuoto che lo tormentava. Conobbe
Vittorini e iniziò a pubblicare “Lavorare stanca” e “Paesi tuoi”. Nel 1942 fu assunto dalla casa
editrice Einaudi.
Dopo la liberazione si iscrisse al Pci e collaborò con l’Unità.
Nel 1950 ricevette a Roma il Premio Strega per “La bella estate”. Il successo gli dava forza, ma
allo stesso tempo si opponeva la percezione della falsità tra rapporti umani.
Si suicidò nel 1950 con una dose eccessiva di sonnifero.
Temi ricorrenti nell’opera di Pavese.
Gran parte delle sue opere contengono il richiamo all’infanzia che, insieme al mondo contadino,
rappresentano una traccia di un evento unico e primordiale, che tramite la scrittura tenta di
ripetersi. Nelle attività della vita contadina si ripete il tempo del mito, nel fondo della realtà
campestre, domina qualcosa di selvaggio, forze ignote che non sono dominabili dallo sguardo
umano. La città rappresenta invece l’artificio, l’operosità, ma si allontana dalla natura. Il rapporto
campagna-città è contraddittorio: la prima è più vicina alla natura che però si manifesta come forza
cieca, nella seconda l’uomo si pone come essere civile e sociale, ma si perde nell’artificio. Lo stile
di Pavese è un’eterna ricerca che contiene il pericolo dell’artificio e più va verso la “maturità”, più si
sente minacciato dalla menzogna e dalla perdita dell’io. Il suicidio sembra l’unico modo per
combattere questa falsità.
Lavorare stanca: Pavese poeta.
Le poesie contenute in “Lavorare stanca” vennero pubblicate nel 1936 su “Solaria”. Si tratta di una
poesia che mira a essere allo stesso tempo realistica e simbolica; segue molto le linee della poesia
di Whitman, caratterizzata dal ritmo del verso che comunica l’effetto della realtà a riprodurre forme,
a ritornare sul proprio destino. Pavese inventa un suo personale verso dal lungo respiro.
Narrativa e riflessione sul mito.
Alla narrativa Pavese vi si approccia con un breve romanzo e con molti racconti che seguirono
l’impronta realistica americana e verista di Verga. Spesso la realtà contadina viene rappresentata
come una natura violenta, ossessionata dal sangue e dal sesso. Questo orizzonte naturalistico fu
quello seguito dal romanzo “Paesi tuoi”. “Il carcere” scritto sulla propria esperienza, cercava di
indagare sul contrasto tra la solitudine del prigioniero e la vita di un mondo estraneo e indecifrabile.
Negli anni della guerra, l’interesse per il mondo contadino, divenne l’interesse per il folclore e il
mito, per il “selvaggio”, che lo portò ad indagare sulle origini dei compo