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Nella serata del 13 dicembre, Gentile, comunicò che la situazione ambientale era peggiorata, Malile si appello ad
Andreotti, con una lettera, in cui chiede la restituzione dei 6 cittadini albanesi alla polizia, fa un breve excursus su i
6 , spiegando che era membri di una famiglia eversiva, che aveva collaborato con i nazisti e fascisti, e che i sei
intratteneva rapporti con i servizi segreti esteri, si chiedeva la restituzione, anche per non danneggiare i rapporti
tra i due paesi. Data la situazione, il tutto suo preso in questione dal Consiglio Dei Ministri , in cui fu presa la
decisone di non riconsegnare i fratelli Popa. Poiché le informazioni fornite da Tirana non erano sufficienti ad una
valutazione complessiva del caso, e che le responsabilità dei genitori o della loro famiglia, non avevano
connessioni con i sei singoli. Il 21 dicembre, Andreotti rispose, che non vi erano alcune ingerenze da parte
dell’Italia, che i fratelli si erano dichiarati perseguitati politici, e che ai fini di una più attenta analisi, vi era richiesta
una maggiore documentazione dei 6 ,e della posizione di ciascuno nei confronti della legge. L’ambasciatore
albanese a Roma, Dino, lasciò la capitale il 21 dicembre, la tensione salì tra i due governi, ma entrambi fecero di
tutto per non portarla a condizioni di non ritorno. La notizia, di queste frizioni, divenne poi di motivo pubblico,
quando vi fu la pubblicazione sui giornali, e fu presa da pretesto dalle opposizioni per attaccare il governo, il
problema era che l’asilo politico, non era tecnicamente praticabile, poiché i 6 l’avrebbero potuta ricevere solo se si
fossero trovati sul suolo italiano, difficilmente Tirana avrebbe il lascia passare per raggiungere l’italia, inoltre
l’ambasciata Godeva di un regime di extraterritorialità, ma non poteva essere considerata territorio italiano, la
questione rimase irrisolta per 5 anni, i fratelli rimasero prigionieri in ambasciata, quando nel 1991, Tirana concesse
il lascia passare , e i 6 raggiunsero l’Italia. Questa vicenda, assunse, l’immagine della libertà, e diede il via a quella
fase di fughe di massa verso l’Italia, che avrebbe caratterizzato la prima fase della transizione dell’Albania verso la
libertà.
3. Business as usual.
Il caso Popa, raffreddò un po' le relazioni, ma in realtà, non intralciò del tutto i rapporti di buon vicinato. Che erano
considerati essenziali da Alia, per la sopravvivenza sia della nazione sia del regime. Esso avviò nel 1986, l’inizio di
nuovi rapporti con altri paesi, ciò non significava un cambiamento della polita albanese, ma più che altro una
continuazione di essa. L’italia era considerata essenziale,, come essenziali erano glia accordi presenti e futuri che
si sarebbe siglati con essa, perchiò l’affaire Popa, non venne strumentalizzato, ed inoltre l’episodio dei due
pescherecci italiani, che nella notte tra il 30-31 dicembre del 1986, avevano varcato le acque territoriali albanesi,
furono arrestati e condannati ad un anno di carcere, ma l’Alta Corte albanese, il 13 gennaio, annullò la pena, segno
che il governo albanese considerava fondamentale i buoni rapporti con l’Italia. In realtà , Tirana continuò, la sua
politica di apertura, concludendo nel 1987 il lungo negoziato con la Germani Federale, cementata con la visita a
Tirana, il 23 ottobre del 1987. Di Hans-Dietrich Genscher, riapri anche negoziati con la Spagna ( membro CEE) , con
il Canada e con la Bolivia. Ma la vera novità , fu la stipulazione dell’accordo con la Grecia, del governo Papandreou,
il 28 settembre del 1987, metteva fine allo stato di guerra che perdurava dal 1940, anche se rimasero irrisolti, i
problemi, riguardanti la minoranza greca in Albania e la questione del Nord Epiro. Essa nel febbraio del 1988, dopo
40 anni di rifiuto, si aprì alla diplomazia multilaterale , infatti essa prese parte al primo incontro a Belgrado, con
altri 6 paesi dell’area balcanica, dando un segno di distensione, di non voler esasperare i rapporti, di non voler
destabilizzare la polita interna jugoslava, anche se le divergenze rimanevano. Soprattutto riguardo l’URSS, infatti i
rapporti tra Belgrado e Mosca, ebbero, una svolta , quando nel dicembre del 1986 , il presidente del presidium
della Lega dei comunisti jugoslavi , Milanko Renovica, andò in vista al Cremlino, erano passati molti anni dall’ultimo
incontro fra le due nazione, datato maggio 1979, tra Tito e Breznev. I rapporti tra i due paesi erano lontani dalle
asprezze tra Tito e Stalin del 1948. L’URSS divenne di nuovo il più importante partner commerciale della Jugoslavia,
nel 1985 il totale egli scambio raggiunse la cifra di 7 miliardi di dollari, dovuta alla crisi economica jugoslava, alla
ricerca di nuovi mercati ad est, visto lo scarso appeal dei prodotti jugoslavi in occidente, Da parte russa, per
Gorbaciov , lo schieramento nei non allineati della Jugoslavia, permetteva la sua offensiva per la riduzione delle
armi strategiche. Mosca e Belgrado si impegnarono a consultarsi reciprocamente su ogni questione di interesse
reciproco, L a Jugoslavia vedeva di buon auspicio la mano tesa da Mosca verso Tirana, pensava così di poter
risolvere la questione del Kosovo e di stabilizzare l’area , ma non ebbe effetto positivo, poiché l’Albania rifiutò il
dialogo. Invece all’inizio del 1989, ci fu un rafforzamento delle relazioni italo-albanesi, il 3 febbraio del 1989,
Sofokli Lazri arrivò a Roma , con l’intenzione di rafforza i rapporti soprattutto in campo , minerario , agroalimentare
e nel settore dei trasporti, rimaneva aperta la questione dei fratelli Popa, si raggiunse un accordo, che prevedeva
che l’Italia non avrebbe fatto scappare i 6 fratelli, dall’altro canto l’Albania si impegnava a smantellare il
dispositivo di sicurezza attorno all’ambasciata italiana.
4. Un disegno di stabilità per i Balcani occidentali.
Il progetto di Roma, era quello di stabilizzare politicamente i Balcani, tutto ciò non poteva evincere , della
stabilizzazione interna della Jugoslavia. I conflitti interni, politici ed economici, che dividevano le federazioni più
ricche, come la Slovenia o in misura minore la Croazia, dalle altre Repubbliche Jugoslave. L’inflazione che si
attestava intorno al 900% , fino a sfiorare entro il 1990 il 1.200%, il deficit commerciale superava i 500 milioni di
dollari e il debito estero si attestava a circa 20 miliardi di dollari, cifra che superava abbondantemente la metà del
Pil jugoslavo. Solo per pagare gli interessi, il governo era costretto ad impegnare 1/3 delle entrate correnti. In più
l’Italia nel 1988 era il secondo acquirente di merci jugoslave dopo l’URSS, ed il terzo paese esportatore dopo
L’URSS e la Germania federale, temeva che un crollo della Jugoslavia avrebbe avuto contraccolpi pericolosi per
L’Italia. L’Intento dell’Italia, era proprio quello di evitare tutto ciò, con finanziamenti bilaterali, chiese al FMI di
concedere nuovi prestiti a Belgrado, superando la regola che prevedeva che ciò non era possibile per paesi che
superavano il 90% di inflazione, inoltre si attivò presso il Club di Parigi, che dal 1956, raggruppava tutti i paesi
occidentali più ricchi, affinché concedesse scadenze più favorevoli al debito jugoslavo, ed inoltre mise nel
documento finale dei Sette Grandi , riuniti a Parigi nel luglio del 1989, un esplicito riferimento alla Jugoslavia,
affinché continuasse il cammino delle riforme. Vi era l’intento di internazionalizzare la crisi jugoslava, spingendo
così la comunità internazionale, a favorire il processo interno di riforme jugoslave, come fece con la Polonia o
l’Ungheria, affinché il paese non si dissolvesse , destabilizzando tutta l’area. La Farnesina propose l’Iniziativa
Adriatica ,un ‘intesa che aveva alla base, un insieme di cooperazioni che interessasse tutti i paesi che si
affacciassero sul mare Adriatico. La proposta fu dichiarata al presidente del Consiglio esecutivo federale jugoslavo
Branko Mikulic, nel gennaio 1988, nel stessa data fu firmato un memorandum d’intesa, con il premier Giovanni
Goria, erano stati stanziati 500 miliardi da spendere in tre anni , tra crediti commerciali e crediti d’aiuto. Le menti
del progetto furono, Andreotti e De Michelis insieme a Sergio Vento, entrambi credevano, di poter stringere strette
relazioni economiche con la Jugoslavia, soprattutto per le aziende del Nord-Est , ma entrambi credevano che la
soluzione definitiva che potesse stabilizzare l’area, era l’integrazione europea. Come atto fondante dell’iniziativa,
fu un documento quadro, semplice e flessibile, una dichiarazione d’intenti dal quale discendere le concrete attività
di collaborazione economica, da concordarsi con intese specifiche a livello delle singole amministrazioni. L’accordo
fu stipulato a Umago, da Andreotti e De Michelis, nel settembre del 1989. A gennaio del 1989, i sei Paesi Balcanici,
si riunirono a Tirana, dove concordarono una serie di misure, come l’impegno a riunioni periodiche, indispensabili
per avviare il processo stabile e duraturo di cooperazione sia a livello multilaterale che bilaterale. Inoltre, Belgrado
e Tirana, poterono firmare un accordo commerciale per intensificare gli scambi nelle zone di frontiere e un accordo
culturale negli anni 1989-90, il governo albanese comunicò la sua volontà di aderire all’Iniziativa Adriatica nel
novembre del 1989, ciò confermava la volontà di Tirana di stabilire rapporti con i paesi vicini ed europei.
Nel novembre del 1989, molte cose cambiarono, a seguito della caduta del muro di Berlino, portato grossi
trasformazioni alla carta politica dell’Europa, la riunificazione delle due Germania, la dissoluzione dell’Urss e della
Jugoslavia, avrebbero minato le basi dell’Iniziativa Adriatica, la stabilizzazione dei Balcani, tramite i principi di
Helsinki del rispetto dei diritti umani e della intangibilità delle frontiere, cominciò a segnare il passo con il
riemergere dei nazionalismi regionali. Il principio di nazionalità, riemerse dopo la fine della guerra fredda e la
caduta del muro di Berlino. L a repentina riunificazione della Germania con il trattato nel settembre del 1990,
attraverso una revisione dei confini, ma esplosione della nazionalità, avrebbe portato anche alla dissoluzione
dell’Urss, ma ciò riguardò anche i fragili equilibri nei Balcani occidentali. In Slovenia e Croazia, riemersero le
correnti anti-serbe, mai sopite ed acuite dalla crisi economica, misero in discussione non soltanto l’architettura
della federazione, ma anche una sua sopravvivenza.
Tra il 1987 e 1989, la lotta in Kosovo s’inaspi, la crisi kosovara ebbe anche ripercussione nell’opinione pubblica
albanese, che criticava le autorità di Belgrado per la gestione della crisi. Ma era utile anche, qual era il