Riassunto esame metodologia giuridica, prof. Montanari, libro consigliato Ragionare per decidere
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che l’accordo si può chiamare contratto in quanto costituisca, regoli o estingui un rapporto giuridico
patrimoniale (art.1321cc.). il contratto deve promuovere una circolazione reciproca della ricchezza che
delinea le condizioni basiche del paradigma utilitario, che alla causa compete verificare.
La tesi in esame riconosce alla causa il compito di saggiare la sussistenza delle condizioni basiche per il
rispetto del paradigma mercantil-utilitario; ciò mira a verificare che sussistano le condizioni giuridiche. In
particolare il giudizio causale mira ad accertare se in capo ad una parte vi sia una situazione di
appartenenza o un potere interdittivo rispetto a un’entità che può essere fatta propria, i quali, grazie al
contratto, possano essere disattivati in capo al dante causa e riattivati in capo all’avente causa.
La risorsa deve essere, allora, “giuridica” e non soltanto “economica”.
8.Critica e riformulazione.
Lo studio dell’evoluzione del pensiero intorno alla causa ha offerto indicazioni per provare ad elaborare
una nozione di causa del negozio idonea a rappresentare la relazione tra autonomia privata ed ordini
giuridici eteronomi e a risolvere le principali questioni di governo della libertà dei privati nel dare assetto e
disciplina ai propri interessi.
La causa continua ad assolvere la funzione individuata nell’assicurare la percepibilità dell’atto di autonomia,
non essendo sufficiente la mera volontà, alla quale si deve affiancare un ulteriore requisito di oggettività
che esprima il senso dell’operazione negoziale. La funzione in esame può essere indicata ricorrendo al
concetto di vestimentum di cui l’atto di autonomia deve essere ricoperto. L’esigenza che all’accordo e
all’oggetto si affianchi anche un elemento di sintesi che esprima l’essenza si rivela indispensabile per
rendere riconoscibile dai terzi e dagli organi giurisdizionali l’atto di autoregolazione.
Il giudizio sulla causa è di tipo teleologico e ciò consente una valutazione più approfondita e ricalca il
canone dell’interpretazione sistematica delle disposizioni normative del diritto statuale. È emblematic,
sotto questo profilo, l’articolo 1362cc che individua come principale cardine ermeneutico “la comune
intenzione delle parti”. E alla luce della forma di pensiero finalistica, un regolamento negoziale lecito nei
contenuti potrebbe rivelarsi illecito. È emblematica la figura del contratto in frode alla legge, art. 1344cc,
verba legis, ma illecito nella dimensione teleologica. E in senso opposto, un contratto nullo potrebbe
produrre effetti grazie alla conversione di cui all’art. 1424cc. Sotto questo profilo, la causa è funzionale ad
una più compiuta intelligenza del regolamento contrattuale consentendo la verifica della concreta
attuabilità. Inoltre, l’istituzione della causa come necessità giuridica impone di sottoporre ad una veduta
oggettiva l’intento pratico comune dei contranti, perché se così non fosse, sarebbe sufficiente il riferimento
all’oggetto.
Oltre al fondamentale compito di sintesi conoscitiva, la causa si è storicamente caricata di ulteriori compiti:
la limitazione dell’autonomia privata in funzione contenitiva della libertà individuale; la giustificazione
concreta dello spostamento di ricchezza, ecc. Ciascuno di questi impieghi non attiene alla fattispecie della
“causa lecita” ma si colloca nel diverso ambito della “mancanza di causa” e attiene al rispetto da parte
dell’atto di autonomia di un parametro di razionalità. L’oggettività del contratto può essere conseguita
soltanto in una dimensione intersoggettiva, ossia mediante un mutuo riconoscimento che esige il rispetto
del principio di razionalità. Questo funge da garanzia dell’effettività dell’accordo e della compatibilità degli
effetti con l’organizzazione sociale giuridica e giuridica delle relazioni umane di rilevanza patrimoniale.
Nella più recente teorizzazione, la veduta oggettiva viene affidata all’universalizzazione del mercato come
dispositivo di calcolabilità dell’utile. Questa scelta determina l’assunzione di un punto di vista unitario che
lascia fuori fenomeni negoziali rilevanti come contratti unilaterali, o come gli atti di liberalità.
La riduzione della causa al paradigma mercantil-utilitario rischia di rilevarsi un’assolutizzazione di senso.
Inoltre l’identificazione della causa con lo scambio reciproco di ricchezza fa segnalare un ritorno al passato,
quando nel corso del ‘500, la causa subì un processo che condusse a identificarla con il sinallagma, il quale
giustifica la nascita del vincolo, nell’ottica della protezione del promittente, alla luce della razionalità
dell’accordo che la permutatio, lo scambio, assicura. Certo è che la causa si è così emancipata dall’esclusiva
logica dello scambio, dilatando il proprio ambito sino a includere forme di giustificazione razionale
dell’accordo ulteriori rispetto a quella offerta dal mercato; inoltre in questo passaggio la causa si incarica di
garantire la serietà del vincolo a tutela del promissario e del suo affidamento all’impegno assunto dalla
controparte. 9
Considerando che, nel tempo attuale, non esiste un meccanismo di formazione sociale dei valori d’uso che
prescinda dal ricorso a scelte autonome di rilevanza giuridica strutturate nella forma di un contratto, la
causa esprime l’esigenza di sottoporre a un esame i negozi che realizzano schemi organizzativi della materia
patrimoniale. La causa rappresenta, quindi, il congegno tecnico che autorizza a sottoporre a un sindacato
ex post le manifestazioni di libertà individuale extra-ordinem in funzione di un controllo di secondo grado
rispetto a quello formale di liceità.
Resta da interrogarsi sul criterio per accertare l’integrabilità dell’atto di autonomia nell’ordine sociale. Si
propone l’assunzione del mercato ma la prospettiva appare restrittiva. Se la causa indica la necessità di un
vestimentum è allora necessario rintracciare un modello sociale di azione in campo patrimoniale che
presenti un’oggettività che renda l’atto di autonomia riconoscibile come frutto di un assetto sociale
condiviso. Il mercato offre un ventaglio di modelli di azione che possono essere sintetizzati tramite il
rifermento allo scambio reciproco di ricchezza; ma non è certo questo l’unico dispositivo sociale idoneo a
tradurre in termini oggettivi l’atto di autonomia. Altrettanti paradigmi di razionalità sono espressi, idonei a
fondare una valutazione oggettiva di interessi non commutativi al trasferimento di ricchezza sono espressi,
infatti, dalle tradizioni in ambito familiare, amicale o comunitario, che offrono schemi di organizzazione
sociale in campo patrimoniale grazie ai quali sottoporre a una veduta oggettiva interessi non riconducibili al
paradigma mercantil-utilitario. Le trasformazioni e le innovazioni delle razionalità sociali che consentono
l’oggettivazione producono la libera determinazione dei privati, la quale si può tradurre in schemi nuovi. Ed
è qui che entra in gioco la causa che consente di superare l’azione individuale che innova rispetto ai modelli
sociali che legittimano i corrispondenti schemi negoziali, ai fini del suo riconoscimento in diritto. Il
riconoscimento giuridico è ammesso solo se l’atto di autonomia non incontra ragioni sociali contrari al
modello di razionalità al quale il negozio può essere ricondotto.
Occasioni di razionalità nel diritto penale. Fiducia nell’assolo della legge” o nel “giudice compositore”?
Di Matteo Caputo
1.Indispensabili premesse a uno studio altrimenti irrazionale.
Come sappiamo, il nostro sistema penale è paralizzato da alcuni mali strutturali: sovraffollamento
carcerario, disfunzioni del sistema sanzionatorio e povertà di alcuni testi legislativi. Una prima
considerazione va a rapporto tra razionalità e diritto penale, in particolare una concezione di razionalità
penalistica e un’altra di razionalità della pena.
2.Una pista genealogica
La razionalità penalistica è assunta come attitudine a fare la cosa giusta, cioè a prendere la decisione giusta
quando si è chiamati ad elaborare una scelta: infatti si è soliti associare al concetto di decisione l’aggettivo
razionale. Il concetto di razionalità penalistica affonda le proprie radici nell’illuminismo: la ragione per
rischiare il percorso della conoscenza e la luce come antidoto alle tenebre dell’ignoranza. Per porre la
ragione come centro nella conduzione dei problemi umani, Cartesio cominciò mettendo in discussione le
certezze filosofiche consolidate nel tempo a lui precedente; l’unico dato certo della sua persona è che lui
“pensava”, tradotto COGITO ERGO SUM. Questa sua certezza diventò in breve una certezza sostitutiva delle
superstizioni medievali in quanto prese piede l’idea secondo cui se l’incertezza e il dubbio derivano dalla
ragione, essi possono da quest’ultima essere controllati.
Fu così che il mondo si prestava ad essere sollevato da nuove certezze in grado di generare stabilità sulla
conoscenza e sulla sicurezza, anche nella sfera del diritto: se pensiamo che la norma e la sentenza sono il
frutto di processi di razionalizzazione, non ci sono dubbi sulla loro struttura e coerenza logica.
Questa nuova visione del mondo fu rivoluzionaria, perché da un lato accantonava la vecchia metafisica,
dall’altro fu conservatrice perché collocò la ragione a fondamento di qualsiasi cosa: la ragione, di fronte al
fluire della realtà e della storia, seduce mostrando semplicità di soluzioni e prevedibilità degli esiti. In
questo frangente non si comprende la diversità di approccio tra i formalistici e gli anti-formalistici, i quali
hanno adottato posizioni divergenti sull’elaborazione della razionalità del diritto: il formalismo cerca di
stabilizzare le certezze interne al sistema giuridico; l’anti-formalismo, al contrario, ritiene che la sicurezza
sociale esterna sia la risultante espressa dalle categorie giuridiche incorporate nelle leggi e nei codici.
Vediamoli entrambi. 10
3.Orientamenti alla razionalità formale.
Nelle correnti formalistiche, la premessa è che la razionalità del diritto si combina con il concetto di
certezza: alla norma penale si richiede di esibire, in primis, una certezza di carattere formale derivante dal
fatto che la norma appartiene e si fonda su un ordinamento giuridico legittimo e valido; in secundis, si
prevede che la norma alloggi in un testo peculiare, edito dal legislatore che vive in un ordinamento dedito
alla legalità.
Le espressioni giuridiche sono chiare e tassative perché mirano ad evitare dubbi intorno all’interpretazione
del contenuto, eliminano l’incertezza derivante dalla possibilità di dubitare all’infinito; non meno positiva è
l’insidia contenuta nell’ipertrofia legislativa: la massa normativa attenta alla razionalità penalistica perché
rende debole la volontà dello Stato e imprevedibili le scelte di condotta dei cittadini. Si assiste così ad una
nascita di un paradosso interno alla concezione formalistica, in quanto, da un lato si erge l’aspirazione alla
maggior precisione possibile della norma, che deve essere chiara e tassativa; dall’altro, l’emersione di
nuove necessità sociali comporta sempre la nascita di nuove pretese di razionalità.
Chiaro è che, per dare sicurezza all’azione dei cittadini, la legge penale deve camminare di pari-passo con i
cambiamenti sociali, ma con ciò si rischia la nascita di nuove leggi incerte; di fronte a questo ostacolo, gli
orientamenti formalistici si sono ritrovati in uno stato di incertezza, non potendo ignorare le trasformazioni
sociali, ma neanche potendo riconoscere l’onnipresente tasso di imprevedibilità contenuto in ogni
operazione giuridica. L’unica iniziativa assumibile dal formalismo sarebbe opporre il mito del legislatore
razionale, il cui compito primo è quello di scovare le leggi immutabili che esistono in natura e trasformarle
in leggi positive: se le norme derivano dalla necessità delle cose, nel diritto non dovrebbero esistere lacune
e l’ordinamento sarebbe completo, in quanto l’assenza di una qualsiasi regolamentazione positiva
diventerebbe frutto di una scelta del legislatore, non invece di una mancanza o imprecisione. In tale
prospettiva, la legalità assume la forma di una garanzia che l’intervento pubblico avverrà in senso conforme
alla legge. Per concludere, la strategia del formalismo giuridico predica che l’incertezza del futuro sarà
controllata dalla razionalità del diritto.
4.Orientamenti alla razionalità sostanziale.
Le correnti antiformalistiche, invece, si oppongono a tali costruzioni logico-astratte, in modo da ridefinire il
diritto come un costrutto sociale spontaneo, lontano dall’astrattezza delle leggi; la diagnosi anti-
formalistica vede nella logicità, che sta alla base della costruzione giuridica formalistica, la premessa per un
diritto statico incapace di assorbire l’evoluzione sociale, e diretta a isolare il sistema giuridico dal sociale,
rendendolo appunto inadatto al cambiamento: per accoppiare diritto e sviluppo sociale occorre uno
schema che vincoli il contenuto giuridico al progresso delle relazioni sociali.
La legislazione è, per antonomasia, ambigua perché esiste pluralità sociale; questa fa si che il testo
normativo non riesca a fissare un significato unico e la società sospetta del testo normativo perché
autorizza più di una possibilità di azione; anche se intervenisse il legislatore razionale, egli comunque
proverebbe a ridurre l’ambiguità introducendo nuove leggi e, così facendo, otterrebbe il risultato opposto
perché le opzioni interpretative si moltiplicano creando un circolo vizioso. Ecco che la superproduzione
legislativa, conducendo all’indebolimento del carattere dell’ordinamento, segna il fallimento delle teorie
formalistiche, le quali avrebbero finito per estendere l’ordinamento a dismisura.
Naturalmente le insufficienze del formalismo obbligano alla ricerca di un’alternativa, di una razionalità
sostanziale, che può essere trovata nell’interpretazione dei giudici: se la razionalità formale produce
incertezza, i giudici esercitano un ruolo attivo nel consolidamento del diritto c.d. vivente; al magistrato non
si chiede di essere bocca della legge, ma di aprirsi all’esterno tramite interpretazione, per gestire i casi non
espressamente previsti dalla legge e mostrandosi sensibile agli interessi emergenti dalle relazioni e i
cambiamenti sociali. Non è un caso che queste proposte si siano fatte strada principalmente negli
ordinamenti di common law, dove è stato sollevato il c.d. problema dell’Inghilterra: ci si è infatti domandati
se nella patria delle consuetudini e dello stare decisis il mondo potesse dormire a sogni tranquilli in assenza
di leggi scritte. Qui il diritto dei giudici è un manifesto di una razionalità alternativa allo strumento del
legislatore.
5.Traiettorie dello scetticismo. 11
La suddetta tesi, secondo cui la razionalità sostanziale ripone fiducia nei tribunali, è stata accolta da due
distinti sistemi teorici, interni alla corrente anti-formalistica: stiamo parlando dello scetticismo rispetto alle
regole (rule skeptics) e dello scetticismo rispetto ai fatti (fact skeptics).
I seguaci del primo orientamento ritengono che le norme astratti e generali non funzionano come
meccanismi di prevedibilità perché non tengono conto delle innovazioni sociali, mentre la sentenza avrebbe
il merito di rendersi sensibile agli interessi sociali. Gli scettici rispetto alle regole cercano di stabilire criteri
che favoriscano l’elaborazione di proiezioni delle decisioni giudiziarie, convinti che il diritto altro non sia che
la previsione di quel che i tribunali faranno effettivamente.
La seconda corrente di pensiero predica che i fatti possano rivelarsi non meno incerti delle norme; i fatti
sono fonte di indeterminazione, perché il giudice vi giunge tramite giudizi pronostici: si pensi alla falsa
testimonianza, alle impressioni e alle dimenticanze, tutti fatti umani che impediscono al diritto penale di
pretendere in maniera convincente prevedibilità. Il giudice è creativo e la sua pronuncia è razionale non
perché egli conosce le norme e i fatti, ma perché egli è umano.
In ambedue le correnti scettiche si nota come si accumuli un deposito di fiducia nelle virtù dell’organo
giurisdizionale.
6.A proposito dello scontro tra le Corti.
A sottolineare l’importanza della prevedibilità della decisione giudiziaria è stata la Corte Europea dei diritti
dell’uomo: la corte EDU ha coniato una nozione autonoma di legge penale, che poggia sugli elementi della
ragionevole conoscibilità della norma violata (nel nostro ordinamento ciò si traduce nel principio ignorantia
legis non excusat) e sulla ragionevole prevedibilità della sua azione.
La giurisprudenza si avvia ad essere considerata fonte del diritto penale? Sarebbe azzardato rispondere in
modo affermativo, ma è anche vero che uno slittamento del sistema penale verso il common law si è
avvertito in Italia a causa di un recente “scontro” tra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale: alle
Sezioni Unite della Cassazione fu rimesso il quesito se il mutamento di giurisprudenza recato da una
decisione delle stesse Sezioni Unite renda ammissibile o no la riproposizione della richiesta di indulto in
precedenza rigettata. La conclusione è stata che il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione
delle Sezioni Unite di Cassazione, rende ammissibile la riproposizione della richiesta di indulto in
precedenza rigettata. Una tale pronuncia di uno dei massimi organi giurisdizionali di un ordinamento di civil
law come il nostro, non è rimasta senza repliche: infatti la Corte Costituzionale fu investita della questione
se sia possibile estendere i casi di revoca della sentenza di condanna, espressamente circoscritti alle sole
ipotesi di abolitio criminis o di declaratoria di illegittimità costituzionale, anche al caso in cui la
sopravvenuta irrilevanza penale del caso sia determinata da un mutamento giurisprudenziale derivato dalla
Cassazione; la Corte Costituzionale ha risposto seccamente che ammettere una tale cosa comporterebbe la
consegna al giudice di una funzione legislativa, che entrerebbe in contrasto con il principio di separazione
dei poteri proprio del nostro ordinamento costituzionale.
La Corte Costituzionale è apparsa allarmata ma ha comunque richiamato i principi della riserva di legge e
della separazione dei poteri, puntualizzando che la conclusione non può cambiare solo perché la nuova
decisione della Cassazione procede in direzione favorevole al reo. Fine della disputa? Nemmeno per idea,
perché il Tribunale di Torino, che ha sollevato la questione dinnanzi alla Corte Costituzionale, ha ammesso
comunque la revoca della sentenza di condanna, in presenza di interventi della Corte di Cassazione e senza
avvertire la necessità di consultare la Corte Costituzionale.
7.Irrazionalità del reato e razionalità della pena?
Nella pena convivono da sempre una dimensione dionisiaca, che rinvia allo splendore dei supplizi, e una
dimensione apollinea, che cerca di rendere il rimedio della pena migliore del male del crimine: la pena
sembra ergersi sin dall’inizio come una reazione, una risposta al male commesso.
Nel corso del tempo sono state assunte strategie di sterilizzazione della pena dagli elementi passionali: i
cultori del diritto penale sogliono distinguere la pena dal concetto di vendetta, anch’essa reazione ma
spropositata, perché il diritto penale che nasce come reazione al crimine altro non è che uno strumento di
vendetta (combattere la violenza e la paura ricorrendo alla violenza e alla paura, è una mossa inefficacie; il
rischio dell’errore giudiziario, consistente nella pretesa di fare giustizia praticando l’ingiustizia). 12
Il penale quindi rischia sempre di trasformarsi in un abuso, in contrapposizione ad un diritto penale frutto
della ragione oggetto invece del pensiero di un tale Cesare Beccaria; in Dei Delitti e delle pene venivano
enunciate premesse nutrite di razionalità, nutrite dell’idea che la pena possa diventare una prospettiva
anziché un castigo: non ci sia accontenta di punire tanto per punire perché la teoria retributiva è
strutturalmente debole, come enunciato dallo stesso comma 3, art. 27 Costituzione. Dire che la pena ha la
funzione di reinserire e rieducare il reo significa collocare sullo stesso piano diverse, e talvolta incompatibili,
finalità.
8.Razionalità della legislazione penale
Nel cantiere della politica criminale circola la convinzione che un dosaggio opportuno di sanzioni positive e
negative permette che le condotte possano essere indirizzate al raggiungimento di vantaggi comuni;
l’idoneità della sanzione penale a condizionare gli individui dipende da una pluralità di variabili sociali che, a
loro volta, condizionano le probabilità di influenzare gli stili di vita dei destinatari di una norma
incriminatrice. Alla critica per cui i reati continuano a commettersi, sia da autori primari sia da recidivi,
viene opposto un ragionamento di tipo controfattuale: il diritto penale sarebbe una condizione necessaria
alla sopravvivenza del mondo, in un frangente in cui lo Stato non è più avvertito come un nemico, ma come
un partner privilegiato del cittadino, confluendo nel fatto che la tutela penale rafforza i comportamenti
leciti e evita che la convivenza sociale si basi sullo spettro dell’Homo homis lupus.
È chiaro che persiste un’incertezza di fondo circa l’idoneità dell’esecuzione della pena a dare segni di
recupero del reo; se il discorso sull’utilità della pena è da sempre avvolto nell’incertezza, il contrario deve
dirsi con riferimento ai costi che derivano dalla pena stessa: costi, questi numericamente certi, in quanto la
scelta di punire si traduce in spesa per il singolo e per la società. Per la società infatti, la decisione legislativa
significa allocare risorse che potrebbero essere altrimenti investite: ad esempio su agenzie di controllo
delegate esclusivamente a prevedere fatti prima che possano assumere rilievo penale; nulla è gratis nel
mondo della persecuzione penale.
La considerazione sociale dell’impossibilità di fare a meno della pena dovrebbe essere contrapposta
all’ammissione del ricorso penale solo e soltanto nei casi in cui si sappia, ex ante, che dell’esecuzione della
pena non si possa fare a meno.
9.Razionalità della giurisdizione penale.
Le insidie maggiori alla configurazione di un diritto penale razionale arrivano dalla sfera giudiziaria, nella
quale preoccupante non è solo il vuoto dell’articolo 133 c.p. in tema di commisurazione della pena.
Diversamente da quanto si possa pensare, il giudice penale non è isolato dalle emozioni, né è vincolato da
un ragionamento sterilizzato; la toga che egli indossa, anzi, è un’escamotage che gli consente di occupare
una posizione privilegiata garantendogli un’impunità. Il giudice non si esprime mai con la benda sugli occhi,
ma anzi vede e sente bene, avendo una mente attraversata da intuizioni che propiziano giudizi di rigetto
e/o di approvazione; ne deriva che la sentenza non è che la razionalizzazione ex post di un’intuizione che
muove la decisione.
10.Umiltà del diritto penale e cura del capitale istituzionale.
L’ipotesi di un diritto penale razionale subisce un netto ridimensionamento, in quanto tale razionalità è
limitata da vincoli di tipo politico, epistemico ed emotivo. La grandezza del diritto penale sta nella sua
umiltà, ovvero nel costringere chi pratica il penale ad un esercizio di auto-riflessione; umiltà del diritto
penale è consapevolezza dei costi del proprio impiego.
Contro questa crisi la razionalità della decisione politico criminale non è assicurata dall’ossequio alle
procedure delle riserve di legge; esiste una sostanza della riserva di legge in materia penale che implica la
valorizzazione di una scienza della legislazione che faccia edotti circa l’impatto che la decisione riverserà in
un sistema delle fonti ormai multilivello, nel quale l’opzione parlamentare deve misurarsi con a) il diritto
dell’UE, b) il diritto CEDU, c) il diritto della Corte Costituzionale, d) il c.d. diritto vivente.
Rilevato il grado di complessità decisionale, oggi la scelta sui temi politico criminali deve rivestire una
dimensione progettuale: per rivestire il carattere razionale, il diritto penale dovrà avere fondamenta
empiriche, dovrà ergersi in accordo con le fonti sovra ordinate e in dialogo con la giurisprudenza, ed infine
dovrà essere diretto al principio del minor sacrificio possibile della libertà personale. 13
Questo vuol dire umiltà del diritto penale, che si rende necessaria anche sul versante giudiziario: in esso da
tempo si assiste al passaggio da una razionalità automatica, nella quale il giudice era concepito come mero
esecutore di una decisione, ad una razionalità “opificia” (che crea), per la quale il giudice decide
partecipando alla determinazione del significato normativo.
Bisogna accrescere i coefficienti della legittimazione dell’interpretazione giudiziale, coltivando due
prospettive: la prima di tipo formativo, volta ad innalzare gli standard formativi dei giudici, a cominciare dai
corsi universitari finendo alle scuole di specializzazione e alle iniziative di aggiornamento; nell’attività di
formazione il giudice deve essere continuamente ammaestrato all’umiltà, ad un esercizio moderato del suo
enorme potere, per non disperdere ciò che è definito come “capitale istituzionale”; la seconda prospettiva
ha una valenza politico-culturale, perché sapere che la riserva di legge è stata svuotata a favore di fonti
esterni che hanno attribuito un enorme potere ad ordinamento sforniti di una piena legittimazione
democratica, deve indurci a riflettere sulla possibilità che lo stesso giudice si faccia interprete di istanze ri-
equilibratrici; bisogna considerare, da un lato, che il diritto dell’UE esprime attenzioni nei confronti della
vittima molto più che rispetto all’imputato, mentre il diritto penale, come configurato in molte direttive e
nel trattato di Lisbona, si muove con l’obbiettivo di regolare il comportamento futuro di una amplia platea
di consociati.
In questo scenario, anche il dibattito tra anti-formalisti e formalisti si arricchisce di nuovi elementi; il giudice
nazionale deve essere avvertito del fatto che, nel caos delle fonti e delle Corti, il profilo regolativo del
diritto penale rimane un profilo problematico, a causa della sua scarsa legittimazione democratica; mentre
il lato buono del diritto penale, cioè prevenzione generale e uso promozionale dell’uso sanzionatorio, non
riesce a nascondere i rischi associati agli squilibri tra le forze in campo: da un lato una politica criminale
ormai europea, dall’altro lato il singolo cittadino di uno stato membro e in mezzo il giudice nazionale, diviso
tra il compito di essere portatore del dritto europeo e il ruolo di garante dei diritti del singolo.
La concezione del diritto penale come Magna Charta del reo si ha a patto che il giudice si faccia muovere da
un’interpretazione ispirata dal favor rei, cioè si potrebbe sostenere che il giudice, nel caso in cui sussista un
dubbio rispetto alla scelta tra varie interpretazioni tutte legittime, debba privilegiare sempre e senz’altro
quella più favorevole al reo. In conclusione si può dire che la razionalità del diritto penale è una razionalità
per approssimazione, approssimazione che deriva dalla non eliminabile tensione tra approcci formalistici e
anti-formalistici; una razionalità debole, che esorta ad indossare vesti di umiltà e di attenzione verso le
conseguenze dell’intervento della pena. In un ordinamento non più costituito da sole regole, ma da
laboratori giudiziali di multilivello, la certezza giuridica non può più essere ricondotta alla certezza della
legge e della norma, ma sposta le sue aspettative a livello dei principi e dei fondamenti sottesi al diritto
vivente.
Ragionevolezza, razionalità e argomentazione giuridica
Di Silvia Zorzetto
1.Premessa.
Il ragionamento giuridico è un tipo di ragionamento pratico. Nel diritto si ragiona, si decide in relazione a
quello che si fa o a quello che si deve o si dovrebbe fare. E in tutto ciò, un parametro di giudizio di uso
corrente è rappresentato dalla categoria del razionale.
Quello della razionalità è un problema sia teorico sia pratico e può essere suddiviso in due grandi sotto-
problemi: quello della razionalità del diritto e quello della razionalità nel diritto; nel primo caso si tratta di
determinare se il diritto vigente può e/o deve essere razionale e in quale senso dovrebbe esserlo, nel
secondo caso si tratta di determinare se e in quali forme si agisce nel diritto e/o si decide razionalmente, e
quali sono le condizioni per un ragionamento giuridico razionale.
Questi quesiti hanno delle interferenze con la questione di cosa è lecito/illecito perché si pone un terzo
problema che sta in ciò che l’eventuale irrazionalità di una disciplina normativa potrebbe risultare in un
comportamento che, pur essendo illecito, deve considerarsi lecito perché ci si trova in una normativa
irrazionale.
Nel diritto contemporaneo, la categoria del razionale fa spesso coppia con la categoria del ragionevole, con
il risultato che di fatto co-esistono forme diverse di razionalità/ragionevolezza e correlativamente la
questione se considerare una di esse giuridicamente più legittima delle altre; per questo ci si deve 14
concentrare sul modo comune di concepire la razionalità come ragionevolezza e di esaminarne gli elementi
distintivi rispetto al razionale.
Occorrono due premesse per introdurre la suddetta analisi: in primo luogo i concetti di razionalità e
ragionevolezza posso essere considerati tra loro interconnessi in più sensi; in secondo luogo le diverse
considerazioni del razionale/ragionevole derivano da differenti assunzioni sulla razionalità umana.
2.Lo stato dell’arte nella teoria e nella pratica giuridica.
L’analisi del concetto di ragionevolezza nel diritto è stata oggetto di attenzione da parte di numerosi autori,
come ad esempio Manuel Atienza, ed esponenti del dibattito italiano come Mengoni. Alla base delle teorie
e degli studi dei giuristi, il comune obiettivo è quello di esaminare il rapporto tra il razionale e il ragionevole
ma nella sfera pratica, in particolare nel diritto e di comprendere, come detto prima, a quali condizioni
l’argomentazione giuridica possa essere razionale ovvero ragionevole. Per citare, in molti Paesi la
giurisprudenza ritiene pacifico che i discorsi attorno al diritto debbano essere razionali/ragionevoli e che
anche le decisioni giudiziarie debbano fondarsi su argomentazioni razionali/ragionevoli, senza tuttavia
prescindere dal quadro concettuale di riferimento: esempi derivano dall’argomentazione razionale di Alexi,
che prese le mosse da una sentenza della Corte Costituzionale Federale Tedesca, che affermò che il giudice
deve basarsi su argomentazioni razionali. Medesima conclusione adottata dalla Corte Europea dei diritti
dell’uomo, che si autoimpone di rispettare le scelte di politica legislativa di ciascuno Stato a meno che esse
non risultino manifestamente prive di un fondamento ragionevole.
È dunque assodato che consideriamo un bene avere leggi e decisioni giudiziarie razionali e ragionevoli e che
troveremmo strano chi desiderasse avere leggi e decisioni giudiziarie invece irrazionali e irragionevoli.
3.Ragion pratica e somiglianze di famiglia.
Razionalità e ragionevolezza sono concetti derivati dal concetto più fondamentale di ragione; in italiano,
ragionevole e razionale condividono visibilmente con ragione la comune radice semantica. Tuttavia tra le
idee di ragione da un lato, e le idee di razionale/ragionevole dall’altro, vi sono non solo somiglianze ma
anche divergenze concettuali. È discusso se una scelta possa essere razionale e/o ragionevole sempre e
comunque o, piuttosto, se dipendono dalle circostanze in cui ci si trova a scegliere; mentre è noto che il
pensiero filosofico ha elaborato concezioni distinte di questi termini: ricordiamo che sono considerate
ragionevoli quelle azioni che conduco al raggiungimento dei relativi scopi.
Quali siano le caratteristiche di un agente razionale è un problema aperto. La tesi da cui ci si muove è che
sia sensato affermare che una certa persona e una determinata scelta, pur essendo assolutamente
razionali, sono non di meno ragionevoli; oppure dire di qualcuno che è irragionevole non significa anche
qualificarlo come irrazionale. Nel linguaggio corrente infatti questi termini assumono sfumature diverse di
significato e vengono usati distintamente in circostante diverse.
Caratteristica da sottolineare è il legame tra i concetti di razionalità/ragionevolezza con l’opportunità: è ben
possibile che una decisione razionale/ragionevole sia reputata anche la più opportuna. Emerge anche che la
differenza tra i concetti suddetti e quello di opportunità sta nel fatto che un ragionamento razionale o
ragionevole è sempre generalizzabile, mentre le valutazioni di opportunità vengono prese hic et nunc a
prescindere da qualunque ragione.
Inoltre, il ragionevole risulta collegato alla percezione di sé in relazione agli altri, tratto, questo che sembra
estraneo al razionale; infatti nonostante non sia discusso che il dolore sia percepito in maniera diversa da
ciascuno, per tutti gli uomini ci sono comunque tipi e misure di dolore che è ragionevole evitare. Sotto
questo profilo il ragionevole assume una dimensione esistenziale, potendo così essere paragonata alla
categoria del razionale in senso kantiano: su questa linea, ogni giudizio è reso in concreto in uno specifico
contesto, ma la sua razionalità consiste nella possibilità di pensare ogni particolare sotto una lente
universale.
Per illustrare quanto sopra detto possiamo considerare gli standard di giudizio dei processi civili e penale:
nel processo penale la sanzione penale incide sulla libertà personale del reo, e quindi si condanna “oltre
ogni ragionevole dubbio” e non ci si accontenta del convincimento sul “più ragionevole che non” del
processo civile. Ciò significa che ogni giudizio, in cui si decide ciò che è ragionevole casus casus, poggia su
un ragionamento. 15
4.Il binomio razionalità/ragionevolezza nella filosofia pratica contemporanea.
Nella filosofia pratica contemporanea, razionale è anzitutto sinonimo di logico, coerente, conforme a
ragione, in cui la ragione è intesa come capacità di conoscenza a priori. In seno a questa tradizione, la
razionalità è intesa come una caratteristica specifica dell’uomo, propria di tutti gli esseri umani.
Ma, secondo la concezione moderna della razionalità, una persona razionale è una persona che agisce in
base al proprio bene e interesse, se ha determinati fini e intende perseguirli si adopera per farlo nel modo
più efficiente possibile. È razionale avere la consapevolezza di poter raggiugere i propri fini; ed è altrettanto
razionale selezionare i mezzi più efficienti per la realizzazione di tali fini; ed è altrettanto razionale agire
secondo la propria volontà, senza lasciarsi influenzare da emozioni.
Secondo la visione corrente, la razionalità implica anche la consapevolezza dell’incertezza: è irrazionale
quindi cercare di prevedere il futuro ovvero pretendere di avere assolute certezze. Il razionale implica una
produttiva attività di coordinazione sociale e il raggiungimento del proprio benessere e del vantaggio altrui,
solo nella misura in cui aumenta anche il proprio; invece il ragionevole crea equi termini di cooperazione
tra le persone, perché egli è una persona intelligente capace di comprendere gli altri punti di vista.
Ecco perché la persona ragionevole è in grado di concepire qualunque situazione pratica universalizzabile
ed anche le norme di comportamento come regole universali. Ancora, una persona ragionevole è una
persona imparziale in giudizio, perché in caso di conflitto vuole sempre moderarsi ed accordarsi con gli altri
secondo modalità che sono ritenute eque e giuste anche dagli altri.
Concludendo, essere persona ragionevole non vuol dire essere spinta dalla separazione rispetto a coloro
che manifestano concezioni morali, politiche, sociali diverse dalle proprie; anzi la persona ragionevole
esprime tutta la propria attitudine a favore della tolleranza, il che porta alla libertà di pensiero.
5.Il ragionevole giuridico e le intuizioni ordinarie.
Nei confronti della ragionevolezza, nel diritto vi sono opposti atteggiamenti: la ragionevolezza suscita in
alcuni entusiasmo, in altri scetticismo. L’accusa più frequente che si rivolge al ragionevole è di essere un
concetto dai contorni indefiniti, un termine di fatto privo di significato.
Analizzando le accuse reciproche che i giuristi si lanciano circa l’uso della ragionevolezza, si capisce che il
bersaglio delle critiche, non è l’uso della nozione in sé, ma le operazioni di politica del diritto che si
compiono tramite essa. Affermare che i discorsi dei giuristi sulla ragionevolezza e i loro impieghi siano
esercizi retorici, è esso stesso un atteggiamento ideologico. In un ambiente amministrato come il diritto,
l’ultima parola su ciò che è o non è ragionevole è del giudice chiamato a decidere sulla question, senza che
vi sia la possibilità di un’ulteriore revisione. Ciò non significa che la decisione finale sarà ragionevole, ma
piuttosto che la ragionevolezza è un concetto che richiede una determinazione singolare: nel diritto la
decisione di un giudice. Palesare questa caratteristica del ragionevole è un atto di realismo, non di
scetticismo nei confronti del diritto.
Anche se né nel diritto , né nei discorsi ordinari, ci si impegna a definire cosa è ragionevole, grazie al
contesto di discorso, frasi come “sii ragionevole!” risultano comprensibili e veicolano un messaggio
complesso. Oppure pensiamo ad altre parole, come gentilezza, grazia, eleganza; non è facile definire in
astratto questi concetti, ammettendo pure che ne se ne ammetta una definizione, questa non sarebbe
comunque sufficiente per dire, in ogni contesto, cosa è elegante, cortese, gentile. Adoperare in modo
appropriato parole come quelle in esame involge un sapere più ampio.
In questo senso si può considerare la ragionevolezza come un concetto poroso rispetto al contesto d’uso.
La spiegazione del ragionevole non può prescindere ed è dipendente, tanto sul piano strutturale quanto su
quello funzionale, dalla singola situazione linguistica, dall’insieme di assunzioni e credenze dei parlanti,
dalle regole e relazioni pragmatiche che informano il contesto d’uso del concetto.
6.La pragmatica della ragionevolezza tra valori e fatti.
Si può individuare uno schema concettuale del ragionevole nella sfera pratica; con un esercizio di analisi
possiamo individuare le componenti concettuali del ragionevole nelle tre seguenti: una componente
normativa, data dal riferimento a ragioni d’azione; una valutativa, data dal riferimento a valori; una
descrittiva, data dal riferimento ad una situazione di fatto. Dalla loro interazione derivano le speciali
caratteristiche del ragionevole; in questo senso la ragionevolezza è un costrutto concettuale. 16
La ragionevolezza così caratterizzata involge una giustificazione: dire che qualcosa è (ir)ragionevole è
esprimere un implicito giudizio pratico. Ma il contenuto della giustificazione varia in funzione delle altre
due componenti concettuali: a) i valori che vengono prescelti dal parlante; b) i fatti di cui si parla.
Al variare dei valori prescelti, una medesima situazione può essere giudicata ragionevole o irragionevole.
Per converso, al variare dei fatti si possono esprimere giudizi diversi, in termini di ragionevolezza o
irragionevolezza, pur rimanendo fermo il valore prescelto.
Un primo corollario di questa spiegazione del ragionevole è che non vi è un valore o un insieme di valori
ragionevole per definizione; segue che qualunque situazione di fatto è o non è ragionevole sulla base di
previe scelte di valore e gerarchie di valore, e i giudizi di ragionevolezza cambiano al variare dei valori e
delle gerarchie tra i valori. Venendo al secondo corollario, al pari della componente valutativa, anche la
componente descrittiva ha contenuto variabile: proprio grazie a questa apertura ai fatti, la ragionevolezza si
predica di un’infinità di situazioni pratiche e mai in astratto. Qualunque sia il valore da cui si muove, la
ragionevolezza indica che c’è una linea di azione, ma non quale essa sia, perché il referente ultimo non è
unico, ma è predeterminato; ciò implica che non esistono in natura azioni per definizione ragionevoli e che
la ragionevolezza non è una proprietà intrinseca ad alcunchè.
Un ritardo di pochi minuti nella consegna di un’opera in appalto è irrilevante, e sarebbe irragionevole
considerarlo un inadempimento grave; viceversa, è ragionevole considerare rilevante e grave un ritardo di
pochi minuti in una prestazione di trasporto aereo.
Sottolineare la scelta di valore che sta alla base di ogni giudizio di ragionevolezza è importante perché, a
seconda del valore prescelto dal parlante, diventano rilevanti proprietà diverse della situazione e azione
oggetto di considerazione. Un’altra implicazione di questa caratteristica della ragionevolezza è che essa
consente di leggere diversamente i fatti.
Come è stato osservato, il giudizio che un dato comportamento è razionale o ragionevole può essere
compiuto solo esaminando il comportamento all’interno di un contesto di premesse date. Queste ultime
comprendono la situazione, gli scopi e i mezzi disponibili per valutare se gli scopi possono essere raggiunti.
7.La ragionevolezza e la pratica del dare ragioni per l’azione.
La ragionevolezza è un concetto disposizionale nel senso di delineare una guida del comportamento
umano; parlare di guida del comportamento naturalmente è una metafora, perché dire che il
comportamento umano sia guidato da ragion vuol dire che si da una giustificazione alla scelta di agire in un
certo modo. Qualunque sia il mio giudizio di ragionevolezza, resta aperta per chi mi ascolta la possibilità di
criticare. Quando un individuo decide di agire in un certo modo, lo fa perché ritiene che vi siano buone
ragioni. A chi mi domanda perché ho agito in un certo modo, posso rispondere “perché è ragionevole”, ma
il problema è perché debba essere considerato ragionevole: ad esempio è ragionevole presentare una
petizione pubblica al Parlamento europeo, perché ciò è permesso dal diritto stesso dell’UE, e non sarà
invece ragionevole inviare una richiesta di risarcimento danno per variazioni sfavorevoli dei tassi di cambio
euro/dollaro.
La ragionevolezza serve a determinare le condizioni in cui si sceglie di vivere bene e in pace, specie nel caso
in cui tali condizioni non siano ovvie o scontate. È possibile attribuire due sensi fondamentali alla parola
ragionevole: ragionevole come provvisto di ragioni e ragionevole come ovvio. A seconda dei contesti
discorsivi, la ragionevolezza è usata per dare ragioni, ma anche per non dare altre ragioni, e i livelli di
ragionevolezza non sono predeterminati in assoluto, ma anzi, logicamente parlando, sono infiniti. Possiamo
spiegare questa caratteristica del ragionevole dicendo che la ragionevolezza ha natura ricorsiva usando la
clausola “a meno che…”: questa indica che le condizioni per l’impiego del concetto di ragionevolezza sono
sempre condizioni d’uso necessarie e solo normalmente sufficienti.
Definire ciò che è ragionevole non è una questione logica, bensì pragmatica; la normalità o meno delle
assunzioni iniziali è legata al contesto d’uso del concetto: per esempio, se normalmente è ragionevole non
accendere un fuoco nel bosco, per pericolo di causare un incendio, in casi eccezionali può essere
perfettamente ragionevole fare altrimenti, si pensi al caso di un escursionista che debba trascorrere la
notte nel bosco. Queste valutazioni sono del tutto indipendenti da qualunque discorso sia sulla
qualificazione giuridica del fatto in questione, sia sulla sua liceità. 17
Quindi non è la logica ma il contesto pragmatico a determinare cosa è ragionevole, e concepire la
ragionevolezza come un costrutto del genere, mostra una particolare virtù della stessa: quella di essere un
indice della rivedibilità delle scelte pratiche.
Naturalmente resta da chiedersi chi valuta cosa è ragionevole in ciascun caso e in base a quali scelte di
valore; la risposta a questa domanda è che, nel diritto, ad avere l’ultima parola sono le autorità investite del
potere di condere ius e che un esercizio di tale potere passa attraverso scelte di valore trasparenti.
Il modello come strumento razionale di conoscenza e di decisione: dall’uso scientifico all’uso giuridico.
Di Giovanni Righini
L’obiettivo di Giovanni Righini è quello di esaminare i concetti di razionalità, conoscenza, legge e giudizio
dal punto di vista dell’approccio scientifico. La differenza tra lo scienziato ed il filosofo illuminista è che il
primo fa affermazioni certe e dimostrabili su modelli di cui conosce i limiti, il secondo pretende di fare
affermazioni assolute sulla realtà, che però si rivelano incerte, incomplete o addirittura sbagliate. Se lo
scienziato può permettersi di avvicinarsi alla conoscenza della realtà gradualmente senza mai raggiungerla
del tutto, in quanto il suo obiettivo è quello di comprendere i fenomeni, il giurista o il legislatore hanno
bisogno di fondamenta oggettive hic et nunc, per lo scopo di decidere e non di comprendere; il loro lavoro
non ha uno scopo meramente conoscitivo, ma concretamente operativo e destinato a prendere decisioni
per guidare la vita di una società. E per questo che la sua situazione è più simile a quella dell’ingegnere o
del medico.
Il contributo di Righini è diviso in 4 sezioni: nella prima affronta alcuni problemi relativi all’uso dei modelli
come strumenti razionali di conoscenza; nella seconda descrive l’uso dei modelli matematici come
strumenti di supporto per le decisioni; nella terza discute dell’uso dei modelli matematici nell’ambito
economico; nella quarta delinea alcune caratteristiche che dovrebbe avere un’ ipotetica scienza del diritto,
costruita secondo un approccio modellistico.
1.Modelli e razionalità della conoscenza.
I motivi per cui, nella filosofia del diritto, si sente necessità di rivisitare il concetto di razionalità nascono da
osservazioni concrete che pongono in discussione concetti essenziali per il diritto, quali verità e conoscenza.
Il punctum della situazione è l’indispensabile distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione, tra gli
oggetti concreti e i concetti astratti; la tesi di Righini esclude che esista alcuna crisi della logica né alcuna
crisi dell’esperienza, ma piuttosto una crisi culturale dovuta alla nostra impreparazione (come un uomo
fisicamente normodotato, ma che non abbia ancora imparato a nuotare).
Parlando di certezza della conoscenza, ebbene considerare il dubbio, che misura l’incertezza della
conoscenza. Il dubbio è parte nutritiva della conoscenza, ma richiede altresì una fiducia nella logica e
nell’esperienza, quando studiamo concetti astratti e oggetti concreti; a chiunque è lecito dubitare che 2+2
faccia davvero 4, o che la luna esista davvero: dubitare di tutto può essere lecito, ma non è significativo,
perché non aiuta a distinguere il vero dal falso e a produrre conoscenza. Quindi anche il dubbio, come
l’assenso, richiede una giustificazione razionale.
Alcune critiche sostengono che oggi serva una diversa razionalità perché in ambito matematico sono entrati
in crisi concetti come verità, certezza, dimostrazione; una prima critica, in tal senso, verte su una presunta
incapacità della matematica di accedere alla verità. A sostegno di questa critica vengono citati il fallimento
del programma di Hilbert e la dimostrazione del teorema di Godel: Hilbert si proponeva di capire se fosse
possibile derivare tutte le proposizioni vere all’interno di un sistema definito; Godel dimostrò che ciò è
impossibile, perché in ogni sistema formale esistono proposizioni vere ma non dimostrabili. La conseguenza
della conclusione di Godel non è che i matematici debbano accontentarsi di un linguaggio ragionevolmente
rigoroso ma non pienamente formalizzato; non è vero che da Godel in poi si sia scoperto un metodo
matematico pieno di limiti e privo della certezza di evitare errori, ma piuttosto la conseguenza fu che il
metodo matematico, pur essendo certo, è intrinsecamente incapace di dimostrare come vere tutte le
proposizioni. Quindi il teorema di Godel non afferma che in matematica ci sia spazio per l’errore, ma
piuttosto per l’indecidibilità, e quindi non che non ci sia verità, ma anzi che ci sia più verità di quanta ne
riusciamo a dimostrare.
Altre critiche, invece, fanno leva sulla difficoltà che si incontra nel raggiungere certezze condivise dalla
comunità scientifica in casi particolarmente complessi; l’esempio per antonomasia è la dimostrazione del 18
famoso teorema di Fermat da parte di Wiles, dimostrazione che richiese molti anni di lavoro a molti
matematici. Notiamo che chi ha controllato la dimostrazione di Wiles, ha raggiunto la certezza della sua
correttezza perché le dimostrazioni matematiche hanno due utili proprietà: sono scomponibili in più
passaggi semplici e sono descritte con un linguaggio univoco; tali proprietà consentono di raggiungere la
certezza della verità delle proposizioni matematiche. Proprio il fatto che ci fossero errori nella parte iniziale
della dimostrazione di Wiles e che questi siano stati corretti durante la verifica della comunità scientifica è
un ottimo esempio dell’ingente affidabilità del metodo seguito, che a sua volta dipende dal linguaggio
matematico utilizzato. Quindi, in sintesi, la matematica dà certezze, mentre i matematici producono
conoscenza verificabile e falsificabile.
Giungiamo al principio per cui in matematica la verità, anche se esiste e si può dimostrare, non si può
condividere. È evidente, infatti, che la conoscenza non è la stessa in tutte le teste; chi non ha
personalmente studiato qualcosa, si fida di chi l’ha studiata, proprio perché la conoscenza è di tutti. Ciò che
contraddistingue la conoscenza scientifica è che essa sia potenzialmente riproducibile o verificabile da
chiunque; questo tuttavia non significa che i matematici non possano comunicare certezze, ma una cosa
diversa, ovvero che non tutti sono in grado di verificare personalmente le certezze che i matematici
offrono.
Analogamente al caso della matematica, anche la conoscenza fisica, secondo alcuni, sarebbe entrata in
crisi. Alcuni filosofi sostengono che la fisica, oggi, ci costringe a rinunciare ad ogni pretesa di conoscenza del
mondo naturale, il che avrebbe effetti devastanti su una serie di presupposti fondamentali, che stanno
anche alla base del diritto. Ad esempio è tipico porre in dubbio l’esistenza di reali relazioni di causa-effetto
facendo leva sul fatto che nella meccanica quantistica il nesso deterministico tra causa ed effetto in alcuni
fenomeni non vale: ciò sembra porre in dubbio il principio di causalità.
Comunque, il fatto che il nesso tra causa ed effetto, in alcuni fenomeni, non sia deterministico non significa
che esso non esista, significa invece che il manifestarsi dell’effetto non potrebbe essere previsto, se non per
approssimazione. Lo studio dei fenomeni quantistici ci conduce ad ampliare in senso non-deterministico il
concetto di causalità, ma non elimina affatto tale concetto; pensiamo a Kant, che riteneva che la legge di
causalità fosse soltanto, a priori, una categoria mentale che noi utilizziamo istintivamente. Ebbene, i
moderni progressi della scienza dimostrano in modo chiaro quanto le relazioni causa-effetto siano reali,
perché sulla conoscenza di tali relazioni si fonda la possibilità di usare le leggi della natura. È palese anche
che i legami causa-effetto non esistano solo nella nostra mente, ma sono reali e ciò è dimostrato dalla
straordinaria capacità predittiva di cui tali modelli dispongono, quando sono utilizzati per progettare
sistemi artificiali.
In questa prospettiva, rileva anche la contrapposizione tra razionalismo ed empirismo, ovvero i modelli
della realtà su cui la nostra mente ragiona e in base ai quali prendiamo decisioni, sulla base dell’esperienza.
La logica e l’esperienza non si escludono a vicenda nella produzione della conoscenza, ma anzi sono i due
ingredienti fondamentali per giungere ad essa. In tal senso, un contributo è quello di Popper, che ha
evidenziato che un modello merita di essere definito scientifico non se è verificabile ed è stato verifica,
bensì se è falsificabile ed è stato falsificato. Il metodo scientifico consente quindi di superare le sterili
contrapposizioni tra correnti filosofiche razionaliste ed empiriste.
Concludiamo affermando che la conoscenza scientifica procede con certezza, oggi non meno di ieri; la fonte
di questa certezza è la capacità della ragione di esaminare criticamente i propri processi. Quando la nostra
conoscenza incontra l’incertezza, l’affronta facendone un modello.
2.Modelli e razionalità delle decisioni.
Ci troviamo nella seconda parte della critica di Righini; l’ambito dal quale prende le mosse questa parte è
quello della Ricerca Operativa, disciplina ideata appositamente per dare supporto alle decisioni. Il
ricercatore operativo si trova con un piede nel mondo dei modelli matematici, e con l’altro nel mondo
reale, trattandosi quindi di una collocazione intermedia tra quella descrittiva del fisico e quella prescrittiva
del medico.
In tal senso fondamentale è la distinzione tra lo studio dei “problemi decisionali” e quello dei “processi
decisionali”: i problemi decisionali sono ambito di indagine della RO, mentre i processi decisionali sono
oggetto di indagine delle scienze cognitive e di altre discipline. Nei processi decisionali si possono
distinguere due fasi, la prima di analisi e la seconda di sintesi: nella fase di analisi si ricerca la relazione, 19
spesso nascosta, tra le possibili decisioni e le loro conseguenze; questa analisi chiama in causa l’intelligenza
di chi analizza il problema; nella fase di sintesi, quindi, si perviene ad una decisione, che implica assunzione
di responsabilità. È il caso di sottolineare che i “sistemi di supporto alle decisioni” basati su modelli
matematici della RO, non sono chiamati a rimpiazzare il decisore, ma ad aiutarlo a prendere le decisioni
migliori.
Per definire cosa si intende per decisione buona, e quindi anche migliore, è necessario definire le
caratteristiche di una decisione; ve ne è almeno cinque: efficacia, efficienza, robustezza, tempestività e
giustificabilità. Ad esempio una decisione è efficace quando è tale da raggiungere gli obiettivi, ed è
efficiente quando consente di ottenere molto in termini di obiettivi. Gran parte del corpus di conoscenza
sviluppate da quando è nata la RO (2^guerra mondiale), riguarda i primi due aspetti, cioè efficacia ed
efficienza, che caratterizzano la cd. Ottimizzazione. Infatti, recentemente, in tutti gli ambiti delle attività
umane, è aumentato l’interesse verso la ricerca di soluzioni non solo efficaci ed efficienti, ma anche
robuste, tempestive e giustificabili.
In RO le decisioni si classificano anche in base all’orizzonte temporale cui si riferiscono; proprio per questo
si distinguono tre diversi livelli decisionali: strategico, tattico e operativo. Per decisione strategica si intende
quella decisione che si vorrebbe assumere una volta sola e non ridiscutere più per molto tempo; per
decisione tattica si intende una decisione che per sua natura deve essere presa periodicamente; per
decisione operativa si intende una decisione che va presa immediatamente.
Tornando al nocciolo, possiamo distinguere tre categorie di modelli matematici, utilizzati nell’ambito della
RO, denominati descrittivi, predittivi e prescrittivi:
-Modelli descrittivi: sono quelli che rappresentano in modo rigoroso un sistema complesso, descrivendone
le caratteristiche salienti e solitamente sono il risultato dell’analisi statistica. Essi sono comuni sia alla fisica
e all’ingegneria che alla RO; esiste però una differenza importante: oggetto di studio della fisica e
dell’ingegneria sono, rispettivamente, la natura con i suoi fenomeni e i sistemi artificiali con la loro
struttura; la RO invece descrive, studia e aiuta a risolvere problemi decisionali.
-Modelli predittivi: sono quelli che servono per individuare le caratteristiche di serie temporali che
descrivono l’evolversi nel tempo di un dato fenomeno, in modo da poterne prevedere l’evoluzione nel
futuro. Diversi studi hanno mostrato che questi modelli sono quasi sempre molto più precisi e affidabili
delle previsioni umane.
-Modelli prescrittivi: sono quelli che non descrivono un sistema complesso, bensì un problema decisionale e
sono denominati in questo modo perché l’algoritmo che li risolve è in grado di determinare la scelta
migliore da prendere.
Un’ultima precisazione riguarda l’analisi dei processi decisionali. In questo caso si tratta di organizzare un
processo decisionale in modo razionale, compito questo affidabile a chi abbia maturato sufficiente
esperienza nella RO. Un tipico ambito applicativo di questa conoscenza è l’economia. È importante
sottolineare che la razionalità di un processo decisionale non dipende dai suoi risultati, ma deve essere
valutata prima di vederne gli effetti e deve dipendere dal metodo che il decisore segue per giungere alla
sua decisione.
È naturale che vi sia, da chi non addetto ai lavori, scetticismo verso l’utilizzabilità reale dei modelli
matematici a supporto delle decisioni. Questo scetticismo sembra nutrirsi dell’idea, errata, che la scienza
delle decisioni consista nel delegare a qualcosa di automatico e meccanico la soluzione dei problemi
decisionali. L’autore tende a precisare che l’uso di modelli matematici in supporto a processi decisionali
non si risolve meramente nello spegnere il cervello ed eseguire un algoritmo. Al contrario presuppone un
continuo esercizio in senso critico, perché proprio le discrepanze tra i risultati, previsti e ottenuti,
consentono di evidenziare i limiti del modello, e quindi di sviluppare un modello successivo, che sia
affidabile. Tale modello di procedere è senz’altro razionale e genera conoscenza.
La validazione di un modello matematico, di qualunque tipo, avviene sempre per confronto con i dati e in
constante interazione con competenze diverse, con la conseguenza che l’adozione di un metodo di lavoro
basato su modello richiede un approccio sperimentale e aperto.
3.Modelli e razionalità in economia.
Prima di affrontare il tema della razionalità in ambito economico bisogna mettere in evidenza la natura
polivalente dell’economia, che può fungere sia da disciplina descrittiva, che predittiva, che prescrittiva. 20
I modelli descrittivi e predittivi si utilizzano quando si studiano fenomeni; quelli prescrittivi per supportare
decisori, quindi nell’ambito dei processi decisionali. Inoltre una differenza rispetto all’ambito scientifico-
ingegneristico: nei sistemi economici e sociali agiscono persone libere, non oggetti determinati da leggi
fisiche. Nel saggio introduttivo (Bombelli, Montanari) si suggerisce che il fatto stesso di aver preteso di
utilizzare modelli matematici, meccanismi economici dei comportamenti degli attori economici abbia avuto
un importante ruolo nel causare la crisi.
Nel corso dell’ultimo secolo il mercato è stato da un lato demonizzato e dall’altro descritto come “naturale”
e come tale soggetto a “leggi di natura” non modificabili. Guardando al mercato da un punto di vista
modellistico, non è difficile osservare che il mercato è un’attività umana e sociale e come tale può essere
regolata da leggi. Naturale, non demoniaca, è la tendenza dell’uomo ad interagire per scambiare beni e
servizi e da ciò nasce l’attività economica che è soggetta a regole che gli uomini stessi si danno: pertanto si
tratta di un sistema artificiale e il modello di mercato che l’economia studia deve affrontare il problema di
come il sistema-mercato va controllato. Questo costringe a studiare il sotto-sistema “mercato” nell’ambito
di un più grande sistema “società”. La globalizzazione, che genera problemi in ambito giuridico ed
economico, è un chiaro esempio di integrazione tra modelli diversi su scale dimensionali diverse, con
decisori diversi, vincoli diversi.
La lucida analisi delle cause della crisi finanziaria degli anni recenti effettuata dalla Financial CrisisInquiry
Commission e ben riepilogata nel saggio di Bastieri, consente di evidenziare alcune carenze tipiche sia nella
regolamentazione che nel controllo di un sistema complesso. Tra le cause della crisi finanziaria figurano le
seguenti:
-Difetto di legislazione sulle attività bancarie: la crisi si deve in particolare all’abolizione del Glass-Steagall
Act del 1929, che ha fatto cadere la distinzione tra banche commerciali e banche di investimento. Ma
quello che bisogna chiedersi è “chi deciso di abolirlo aveva idea delle conseguenze?”. Quando la
discussione sulle leggi si svolge sul terreno dello scontro tra ideologie, è molto più facile che vengano
adottate leggi cattive o cancellate leggi buone, perché nessuno sa dire alcunché di razionale sulle
conseguenze che la legge o la sua abolizione potrà avere. È un problema di metodo. Ponendo che i politici
fossero a conoscenza delle conseguenze e abbiano agito con negligenza o per interesse personale; perché
un sistema sia robusto occorre che su ogni processo decisionale esista un’azione di controllo. Chi controlla i
politici? Gli elettori. L’opinione pubblica è stata informata? La mancanza di informazioni adeguate per il
controllore/valutatore è un grave difetto nei processi decisionali e produce irresponsabilità.
-Difetto nella valutazione e nel controllo delle attività bancarie: è mancato il controllo da parte della FED e
inoltre le agenzie di rating hanno emesso valutazioni acritiche. In questo caso il controllore omette di
controllare e il valutatore omette di valutare. In un processo decisionale qualcuno deve controllare i
controllori e valutare i valutatori: è utile metterli in collaborazione o in libera competizione tra di loro, a
volte serve un’autorità garante apposita. In questo specifico caso la FED non risponde agli elettori, e dato il
proprio potere sovranazionale, si evidenzia un problema di sovranità. Anche questo consegue da un grave
indebolimento del potere politico, incapace di mantenere il controllo della situazione.
-Cieca fiducia nei modelli matematici da parte degli investitori: chi usa modelli matematici deve essere
formato, altrimenti tenderà ad usarli in modo acritico e quindi sbagliato. Anche il modello migliore del
mondo, alimentato con dati sbagliati, produce risultati inaffidabili.
-Impreparazione del governo: per ogni sistema complesso, sia esso una città costruita in una zona sismica, o
una centrale nucleare, sia esso un mercato finanziario, è indispensabile che esista un piano di prevenzione
e gestione d’emergenza. Se questo fosse stato adottato, il vantaggio sarebbe stato evidente. Il rapporto
della FCRI ha il pregio di esaminare il sistema finanziario dal di fuori: aiuta a ragionare criticamente sul
modello, non nel modello, operazione indispensabile. Dalla diagnosi sarebbe utile passare all’azione, ma
pare che non sia stato modificato il metodo di lavoro sbagliato. Anche questo sembrerebbe sintomo
dell’enorme divario culturale che esiste tra il mondo scientifico-tecnico e il mondo economico-giuridico.
Concludendo: in primo luogo la crisi non è stata causata dall’uso di modelli matematici, ma piuttosto
dall’incapacità di utilizzarli correttamente. Serve quindi aumentare la preparazione culturale di tipo
scientifico e quantitativo di chi li utilizza. In secondo luogo il problema manifestatosi a livello economico e
finanziario è stato causato soprattutto a livello politico e giuridico e ciò pone il problema della mancanza di
uso dei modelli in ambito politico e giuridico. In terzo luogo i modelli matematici esistenti, sarebbero stati
sufficienti per prevedere la crisi, se fossero stati utilizzati correttamente. In quarto luogo i processi 21
decisionali sia a livello legislativo che a livello governativo si sono rivelati difettosi, il che suggerisce non di
diminuire l’uso dei modelli matematici ma, piuttosto, di estenderne quanto più possibile l’uso della
soluzione di problemi decisionali alla progettazione di processi decisionali.
4.Modelli e razionalità nel diritto.
Partiamo dalla considerazione che il diritto è uno strumento che serve ad un fine; è un prodotto della
cultura umana ed è stato inventato perché serve ad uno scopo: regolare la vita comune nella società.
Il fondamento oggettivo del diritto va ricercato nel suo fine: il fine è la ragion d’essere. Il diritto non
avrebbe ragion d’essere se per regolare la convivenza bastasse la “legge della giungla”, cioè l’assenza di un
diritto. Come ogni strumento che deve raggiungere uno scopo, anche il diritto andrebbe progettato ed
utilizzato razionalmente ed una scienza del diritto potrebbe affiancare la filosofia del diritto a questo scopo.
Nei processi decisionali che sono di interesse per la filosofia del diritto si distinguono diversi decisori e tipi
di decisioni:
-i legislatori decidono le leggi; -i singoli soggetti giuridici (cittadini) che vivono in una società soggetti a certe
leggi decidono come perseguire i propri obiettivi; -le autorità di governo decidono come controllare; -i
giudici decidono se e come punire le eventuali violazioni della legge.
Potere legislativo ed esecutivo: al legislatore compete adottare decisioni strategiche, di lungo termine,
mentre, l’azione di governo deve essere in grado di rispondere in modo rapido alle circostanze, nel rispetto
dei limiti imposti dalle leggi stabilite dal legislatore. Pertanto è importante che i due ruoli condividano uno
stesso modello del sistema complesso su cui agiscono. Condividere un modello significa condividere
anzitutto un metodo di lavoro, un linguaggio comune, un’impostazione culturale.
Poiché la stabilità delle leggi è condizione indispensabile per dare stabilità a tutte le relazioni sociali ed
economiche, l’adeguamento della legge alla realtà deve essere perseguito con una saggia divisione dei
compiti tra decisori con orizzonti temporali diversi e competenze diverse: una legge robusta e tempestiva
dovrebbe specificare che esiste un elenco aggiornato da un’autorità competente con una certa frequenza e
in base a dati criteri, a seconda del mutare di una certa situazione.
Potere giudiziario: il magistrato è chiamato ad applicare una legge generale ed uguale per tutti ad ogni
singolo caso specifico, diverso di volta in volta. Egli deve costruirsi un modello del fatto e del contesto
oggetto di giudizio. Il giudice, come il ricercatore operativo, ha un piede nella teoria (le leggi) e l’altro nella
pratica (i fatti da giudicare). Ciò che caratterizza un buon giudice non solo è la conoscenza delle leggi, ma
l’abilità nel costruire modelli di fatti reali che siano coerenti con i dati disponibili e confrontabili con le leggi.
Esistono inoltre dei casi nei quali il giudice è chiamato a completare la legge, e, quindi, la sua azione tende
ad affiancarsi a quella del legislatore con l’evidente pericolo che il “diritto creativo”, esercitato dai giudici,
sovrascriva o contraddica in casi concreti ciò che viene prescritto dalle leggi. Questo problema è diventato
argomento di scontro tra le due scuole di pensiero, formalista e anti-formalista.
Anzitutto una buona legge esprime il limite, stabilendo chi e come lo deve colmare. Poiché il legislatore non
può prevedere tutto a priori, egli dovrebbe essere consapevole di lavorare su un modello semplificato della
realtà e che pertanto la legge che produce non potrà essere applicata acriticamente. Deve essere la legge
stessa perciò ad assegnare al giudice un ruolo attivo e non di mero esecutore, circoscrivendone il campo
d’azione. Ma a ben vedere la situazione attuale è lontana da un approccio razionale.
In un approccio modellistico ogni decisione nel campo del diritto dovrebbe essere accompagnata da una
definizione del modello che la genera o la supporta o la giustifica. La responsabilità più grande è di chi
decide il modello, più che di chi prende la decisione. Ogni modello è imperfetto per definizione: considera
qualcosa, tralascia altro. Cosa considerare e cosa tralasciare è una scelta di cui qualcuno si deve prendere la
responsabilità. Se la responsabilità è verso la società, la definizione del modello è un compito politico: il
politico dovrebbe acquisire competenze modellistiche senza delegarle a tecnici irresponsabili ed il tecnico
dovrebbe sapersi assumere responsabilità pubbliche senza delegarle a politici incompetenti.
Concludendo: abbracciare in ambito giuridico un metodo modellistico, comporterebbe una rivoluzione
culturale e metodologica. Ogni legge dovrebbe avere una scadenza ed essere sottoposta a verifica
periodica: ciò significherebbe che ogni legge dovrebbe essere accompagnata dalla descrizione dei riscontri
concreti e oggettivi in base ai quali essa deve essere validata. Vorrebbe dire che i giuristi dovrebbero
adottare i linguaggi delle altre discipline, o comune, invece di esprimersi in un gergo da iniziati. 22
5.Considerazioni finali.
La conclusione è che non ci mancano le certezze, bisogna solo saperle cercare nel posto giusto e nel modo
giusto. La nostra ragione è cosciente di sé stessa e quindi può auto-esaminare con spirito critico i propri
modelli, i propri processi e le conseguenti decisioni. Questo è un fondamento naturale della razionalità.
Ciò che invece oggi viene messo in crisi davvero e in modo irreparabile, è l’approccio assiomatico-
ideologico su cui il diritto si fonda e che si dimostra del tutto inadeguato ad affrontare la complessità
odierna. In realtà si potrebbe sviluppare la filosofia del diritto in una scienza/ingegneria del diritto.
Un approccio modellistico al diritto, consentirebbe di risolvere il problema dell’auto-fondazione del diritto.
L’approccio assiomatico-ideologico seguito finora si rivela insufficiente ed un grande merito della nostra
epoca è quello di aver svelato tale insufficienza metodologica. In un approccio modellistico il fondamento
certo del diritto sarebbe basato più sul suo metodo e sul suo fine che sui suoi contenuti.
La razionalità di una legge o di una decisione non si fonderebbero sulla verità degli assiomi da cui sono state
derivate, bensì sulla razionalità del fine per cui sono state progettate e del metodo modellistico-
sperimentale utilizzato per formularle.
Volendo ipotizzare una scienza del diritto, essa dovrebbe avere tra le sue caratteristiche metodologiche
quelle di essere aperta e sempre in relazione di dipendenza dalle altre discipline e per questo motivo, per le
nuove generazioni di giuristi, sarebbe utile una formazione più quantitativa, più consapevole della potenza
e dei limiti dei modelli formali, più orientata al metodo scientifico e consapevole delle sue caratteristiche.
Razionalità giuridica e razionalità economica nell’unione europea. Un conflitto evitabile?
Giovanni Magrì
Il saggio di Magrì presenta anzitutto un prologo dedicato al racconto di Isaac Asimov, racconto che oggi
impressionerebbe più che nell’epoca in cui venne pubblicato, ovvero nel secondo dopoguerra. Asimov
racconta di uno scenario futuristico caratterizzato dalla presenza dei robot, le cui capacità superavano
esponenzialmente la possibilità dell’uomo; grazie alle macchine doveva essere garantito che la nuova
economia mondiale, basata sui robot, resterà stabile, perché le decisioni sono affidate a macchine che
hanno a cuore il bene dell’umanità. Questo prologo è inserito perché Magrì vuole presentare la peculiare
posizione dell’europa continentale che, forse nel tentativo di non ridursi ad una appendice economica dei
paesi anglosassoni, sta rinunciando, non del tutto inconsapevolmente, al patrimonio della razionalità
giuridica, generando la prosperazione di un’economia continentale svincolata da vincoli di diritto; è il diritto
europeo la vittima illustre di questa forma di rinnovamento della vecchia europa.
Magrì giunge al nocciolo del saggio, incentrato sul “rapporto” tra razionalità giuridica e razionalità
economica europea, riportando prima un esempio cardine della torsione anti-giuridica della cultura
europea attuale.
Questo esempio è dato da una pronuncia, emanata dalla corte di cassazione nel 2013, con la quale essa
conferma la condanna penale per un ex-presindente del consiglio e senatore in carica e dopo la quale si
riaccende la discussione sull’eventualità, poi verificatasi, della sua decandenza dal seggio senatoriale; in
merito a tale situazione, un autorevole professore di scienza politica, di nome Panebianco, nel denunciare
per l’ennesima volta i problemi della giustizia, scrisse importanti parole: egli mise in luce che, in materia di
giustizia, in realtà qualcosa può cambiare, ma con lungimiranza; il problema va affrontato là dove è
generato, ovvero è necessario che vengano rivoluzionati i corsi di studio di giurisprudenza, incidendo
maggiormente sulle competenze e sulle mentalità connesse di coloro i quali andranno a fare i magistrati.
Bisogna quindi equilibrare il formalismo giuridico impartito in università con competenze economiche e
statistiche e con solide conoscenze degli impianti amministrativi e giudiziari degli altri paesi occidentali, in
quanto è inaccettabile che un giudice possa intervenire su delicate questioni di finanza o di industria senza
conoscere approfonditamente finanza ed economia industriale.
Il passaggio di panebianco è chiaro nel sottolineare come il formalismo giuridico porti a trascurare la
complessità della realtà e la conoscenza di altre compentenze, e quindi la soluzione non può che
prospettarsi in direzione di una incisione sulle competenze e sulle connesse mentalità; e quale sia questa
connessione tra competenze e mentalità lo dice lo stesso Panebianco, ovvero dosi massiccie di sapere
empirico, il quale può aiutare anche in senso di interpretare il diritto in senso empirico, sottolineando la
funzione di esso come strumento di regolazione sociale. 23
Ora, questo permette di capir meglio come, specialmente in Europa, gli istituti giuridici connessi con l’idea
di sovranità non godano affatto di buona salute; e il “funzionamento” della moneta unica euro è il luogo in
cui questa difficoltà è più palese.
Magrì parla dell’euro come una moneta senza sovrano, perchè non può contare su un potere politico
legittimato a decidere in ultima istanza sul suo valore; è naturale che la scelta dell’euro può essere
considerata una errore inevitabile, più per questioni geopolitiche e internazionali, ma è anche vero che la
moneta senza sovrano consegna alla scienza del diritto pubblico e dell’economia politica un interrogativo
legittimo: che ne è della sovranità quando essa è limitata dalla politica monetaria? Dopo Maastricht, i
giuristi europei non hanno osato formulare una possibile risposta e anche per questo quell’errore
inevitabile e il colpevole ritardo nell’individuazione dei modi per rimediarvi hanno generato quelle divisioni
che ancora oggi sono presenti nelle istituzioni europee: in primis, la spaccatura tra paesi dell’euro e paesi
dell’unione europea che non hanno adottato l’euro ( vedi l’Inghilterra ); in secundis, la spaccatura
all’interno dello stesso gruppo dei paesi dell’euro ( paesi creditori contro paesi debitori ); in tertiis, la
spaccatura in europa tra le due velocità, che rafforza la posizione di potenza dominante della Germania
nell’unione europea.
Un altro esempio meritovole di essere citato è la considerazione di Prantl : Prantl, come a suo modo
dicemmo per Panebianco, lamente il fatto che si possa compiere qualcosa che è vietato dalla Costituzione,
senza riflettere se quello che è vietato dalla costituzione non sia imposto dalla necessità di proteggere
l’euro, l’unione europea e l’economia in generale. È bene che la giurisprudenza e la dottrina si occupi di
questa questione, perché il diritto non può deporre la sua funzione di controllo, e i parametri più alti di
questo controllo sono, senza dubbio, i testi costituzionali degli stati nazionali. Se si compie qualcosa che sia
contrario al dettame costituzionale, quali che siano le necessità di queste azioni, un giurista non può che
denunciare tale violazione; siamo certamente d’accordo sul punto per cui il diritto ha bisogno di tempi più
lunghi, rispetto alla finanza internazionale, per valutare la legittimità o meno delle varie trasformazioni in
atto, ma aggiungiamo che forse è meglio che sia così, perché solo grazie alla distensione temporale dei suoi
processi riflessivi il diritto vede salvaguardata la sua autonomia funzionale e strutturale rispetto
all’economia finanziaria.
È quindi possibile “istituire” il mercato? A ben pensarci, è la stessa questione del primato del diritto
sull’economia a dover essere ripensata alla base; se non proprio il primato, quanto meno il rispetto dei
confini “funzionali” del diritto sembra fuori discussione. Questa consolidazione si verifica per una ragione
che non è mai stata seriamente messa in dubbio da nessuno, la ragione, cioè, che il mercato è
un’istituzione, la quale necessita di una regolamentazione giuridica per “funzionare”. Certo è che con
questa dizione si possono intendere cose diverse: si può pensare, infatti, ad un mercato come un insieme di
processi tutti determinati, che comprendono precise regole di funzionamento, in relazione alle quali spetta
al diritto assicurare la formulazione esatta in vista della loro osservanza da parte di tutti gli operatori (
questo è un significato di “ordine giuridico del mercato” ); ma si può anche pensare al mercato come un
istituzione in modo più radicale, nel senso che il mercato è fatto dagli operatori di mercato, e non esiste se
non attraverso e nei loro comportamenti e non invece come insieme delle regole predeterminate di tale
coordinamento, giacchè le regole nascono di volta in volta proprio dai comportamenti degli operatori.
In tal senso, è opportuno presentare l’esempio, non troppo casuale, che più si avvicina al nocciolo di questo
esame, l’indipendenza delle banche centrali dai governi; tale indipendenza può o non deve essere
considerata come una “legge” di buon funzionamento del mercato? Questo è uno dei campi in cui il
neoliberalismo ha dispiegato il suo potenziale: infatti, nel giro di pochi anni, i primi ottanta, ovunque le
banche centrali hanno acquistato una forma di indipendenza dai governi, con la conseguenza di non
emettere più denaro in relazione al deficit dei bilanci pubblici, ma solo in relazione alla stabilità o instabilità
dei prezzi.
L’impressione di Magrì è quella per cui le parti in causa- in primis Mario Draghi e il suo board- abbiano
affrontato di petto la questione di una moneta senza sovrano, da cui era scaturita la crisi dei debiti sovrani,
e lo abbiano fatto con la dichiarazione di Draghi alla Global Investment Conference del 2012; e lo abbiano
fatto esercitando una prerogativa essenzialmente sovrana. Intanto, infatti, la speculazione internazionale
poteva continuare a scommettere contro la solvibilità del debito pubblico degli stati dell’Europa
meridionale, in quanto questo debito era rimasto senza sovrano: questo perché nessuno poteva più
adottare, per fronteggiare la speculazione, misure non condizionate a dei limiti prefissati. Inequivocabile in
24
tal senso fu la dichiarazione di Draghi “ The BCE is ready to do whatever it takes to preserve the euro” ,
nella quale dichiarazione il termine “whatever” contiene grossi indizi di incondizionalità.
L’insostenibile razionalità dei mercati
Di Alessio Basteri
1.Razionalità dei mercati: analisi di una domanda.
Partendo dall’assunto di Weber, che l’economia capitalista necessita di un sistema di diritto razionale,
l’analisi della “razionalità” dei mercati deve coinvolgere la dimensione giuridica perché il diritto presenta la
cornice attraverso cui i mercati operano. L’indagine del rapporto tra razionalità e finanza deve partire e
trovare la propria ragion d’essere nell’assunto di base che coincide con l’analisi di tre dimensioni: giuridica,
logico-matematica, filosofico-cognitiva del reale.
In sintesi, il metodo a cui deve necessariamente sottendere ogni riflessione sulla razionalità delle dinamiche
economiche e finanziarie, dovrà rispondere alle seguenti domande: a) il fenomeno è regolato
giuridicamente? b) a quale modelli decisionali soggiace? c) quale ratio filosofica e cognitiva è a fondamento
del fenomeno economico?
Il porsi il problema di dare una risposta alla ratio del mercato impone una violenta azione di
semplificazione. A tale fine Basteri ha ritenuto opportuno prendere in considerazione un unico fenomeno
attraverso l’esame di un documento del “Final Report of the Nation Commission on the Causes of the
Financial and Economic Crisi in the United States” che rappresenterà la più profonda e sistematica indagine
ufficiale effettuata sulla crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti d’America nel biennio 2007-08. Il
documento offre riflessioni per realizzare un tentativo di delineare il rapporto tra razionalità e irrazionalità
della dimensione economico finanziaria.
2.The Final Crisis Inquiry Report: scopi e struttura.
FCIR è un documento fondamentale che rappresenta la pietra miliare nell’indagine sull’origine e sulle cause
della crisi finanziaria manifestatasi all’inizio del 2007, con il fallimento di due hedge funds della banca
d’affari americana Bearn Stearns, ed esplosa nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers.
È stato redatto dalla Commissione che l’ha consegnato al Presidente e al Popolo americano.
L’indagine ha per oggetto l’analisi delle cause e della dinamica che hanno determinato la crisi finanziaria.
La Commissione ha condotto una ricerca interdisciplinare sui settori identificati come i focolari della crisi
quali a) il sistema denominato di shadow banking, b) il mercato immobiliare, c) il processo di
cartolarizzazione, d) i prodotti finanziari derivati, e) la corporate governance, f) il risk management.
Uno degli aspetti fondamentali dell’indagine è dedicato al ruolo rivestito dalle agenzie di raiting e all’uso
illimitato dei derivati non regolamentati denominati over the counter (OTC).
Il documento è suddiviso in cinque sezioni a cui vanno ad aggiungersi le conclusioni della Commissione
dove sono elencate le cause della crisi.
Passando all’analisi:
Nella prima sezione la Commissione afferma che negli anni precedenti al biennio, vi fossero già tutti i
presentimenti che una crisi finanziaria di dimensioni mai viste sarebbe potuta esplodere.
Il Rapporto presenta un modello di sviluppo economico incentrato su due componenti: la politica
monetaria espansiva che permette la crescita del mercato immobiliare e il processo di cartolarizzazione
della massa debitoria fondiaria, contratta dai cittadini in un contesto di minima regolamentazione e di
vigilanza.
La seconda sezione del Documento è dedicata alla ricostruzione storica, avvenuta negli ultimi 30 anni, del
mercato finanziario e bancario americano. Il rapporto riassume le cause della crisi, soffermandosi in primis
sul sistema dello shadow banking. Un sistema parallelo e concorrente a quello delle banche commerciali, in
cui le banche d’investimento, eludendo i limiti imposti dal dispositivo normativo del Glass-Steagall Act,
crebbero rifinanziandosi su canali alternativi a quelli della raccolta bancaria.
L’abolizione di tale legge rappresenta il passaggio cruciale perché grazie a ciò si assistette all’avvento delle
banche universali, venendo meno la distinzione tra banche commerciali e banche d’investimento.
Ciò si affianca all’adozione da parte della FED di una politica di vigilanza più elastica, per consentire
maggiore libertà alla banca universale, caratterizzata dal modello broker/dealer per le sue attività di
mediazione e partecipazione. Il terzo focolare da cui derivò la crisi, viene individuato nella crescita del 25
settore immobiliare e nelle regole di concessione dei mutui. Il legislatore americano modifica il modello
economico, passando da una situazione caratterizzata da precisi limiti regolamentari ad una in cui il
principale stimolo per la crescita coincise con l’idea rivoluzionaria di commerciare i “debiti”, confezionati
attraverso la Cartolarizzazione e venduti agli investitori di tutto il mondo. La res da vendere non era il bene,
l’immobile oggetto della compravendita, ma il debito. Grazie a questa pratica il mercato si trasforma in
liquido, in un contesto in cui la proliferazione dei mutui concessi senza un criterio discriminante tra cittadini
meritevoli ed immeritevoli, ha determinato la nascita del fenomeno dei subprimes. Con l’avvento del
fenomeno dei mutui spazzatura nello scorso decennio, proliferò un nuovo mercato che ha visto coinvolti
intermediari, istituti di credito, hedge funds e private equity.
Accanto al fenomeno subprimes, la commissione considera la Cartolarizzazione e la diffusione dei derivati
finanziari non regolamentati le cause propaganti degli effetti della crisi.
Con lo scoppio della bolla immobiliare e la svalutazione dei subprimes e dei suoi derivati, si crearono due
effetti disastrosi per il mercato finanziario: da un lato il collasso dei valori immobiliari e dei portafogli titoli
di banche e fondi hedge e dall’altro, vista l’opacità della loro struttura, l’assoluta incomprensione dei titoli
mobiliari e della meccanica che ne regolava la formazione del prezzo.
Nella terza sezione la commissione si concentra sull’analisi della relazione tra la Securitization e le politiche
d’investimento delle banche d’affari. Per comprendere la nascita della bolla immobiliare, si devono
collocare gli eventi nel periodo storico successivo al 2000, a seguito dell’esplosione della bolla della Net
Economy e al crollo delle Torri Gemelle, quando la FED approvò una politica monetaria espansiva al fine di
evitare il crollo dei consumi e l’inizio di una fase di recessione negli Stati Uniti. In quel frangente prese avvio
la crescita incontrollata dei subprimes. la corsa è poi stata incentivata dalle maggiori istituzioni finanziarie:
alcune di queste, come Lehman Brothers e Morgan Stanley, a seguito dell’abolizione del Glass-Steagall Act
nel 1999, acquisirono istituti di credito per fronteggiare questa richiesta di prodotti, facilitando la
concessione dei mutui con l’apertura di nuove linee di credito e con l’acquisto e la Cartolarizzazione di
garanzie bancarie e finanziarie. In questo scenario, per aumentare il processo di crescita legato alla
Securization, il mercato creò una nuova serie di prodotti finanziari come i CDO e i derivati sintetici. Grazie
alla garanzia assicurativa e ai raiting favorevoli, i Sintetici permisero alla Securization ed al mercato
immobiliare di raggiungere il loro apogeo.
Il modello finanziario collassò quando il mercato immobiliare entrò in crisi, causando la svalutazione dei
Sintetici presenti nei bilanci di banche e fondi, con una incontrollabile esposizione alle perdite a seguito
dell’applicazione meccanica delle regole contabili del mark to market e del fair value. La commissione
imputa alla SEC una responsabilità sulla mancata vigilanza degli investimenti delle più grandi banche
d’investimento.
La quarta sezione del Rapporto espone gli avvenimenti occorsi nel biennio, dalla crisi di liquidità e
dall’insolvenza di due hedge funds della banca d’affari Bearn Stearns specializzati nel mercato subprimes
fino al fallimento della Lehman Brothers e alla successiva fase di panico. Il crollo avvenne nel momento in
cui il mercato immobiliare entrò in crisi contraendo il mercato dei finanziamenti da cui dipendevano le
banche e i fondi di investimento. La crisi di liquidità fu disastrosa per tutta l’economia americana.
Nel 2007, Bearn Stearns, su richiesta del Governo americano, fu fatta acquisire dalla banca concorrente JP
Morgan, ma il tentativo di contenimento fu inutile.
La data cruciale per l’esplosione della crisi finanziaria fu il 15 settembre 2008 con il fallimento della Lehman
Brothers, quando il Governo, la NYFED e la FED decisero di lasciare fallire la banca d’affari più antica
d’America. Il crollo della Lehman mandò nel panico il mercato finanziario mondiale e in quei giorni lo shock
dei mercati determinò svalutazioni ed ingenti perdite che imposero al Governo nuovi interventi pubblici.
Il Governo americano nel giro di pochi giorni si trovò a decidere sul futuro delle sue istituzioni finanziarie e
sul salvataggio dei risparmi dei cittadini. Salvò gli istituti bancari ed assicurativi considerati “too big to fail”,
indirizzando il settore finanziario verso un ulteriore consolidamento realizzato mediante una serie di fusioni
dal valore sistemico.
Nella quinta parte del Rapporto, la Commissione mette in evidenza le conseguenti economiche, politiche e
sociali determinate dalla crisi ed il carattere di eccezionalità epocale di tale intervento. 26
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