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Purgatorio, canto III Pag. 1
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Estratto del documento

Una delle anime si rivolge a Dante e lo invita a guardarlo per capire se lo riconosce; il

poeta lo osserva con attenzione e vede che è caratterizzato da connotati tipicamente

cavallereschi, quali bellezza, nobiltà di stirpe e di costumi, valore e gagliardia: infatti,

«biondo era e bello e di gentile aspetto,/ ma l'un de' cigli un colpo avea diviso» (vv. 107-

8). Dopo aver risposto di non averlo mai visto, il penitente si presenta come Manfredi,

nipote dell'imperatrice Costanza d'Altavilla; egli prega Dante, quando sarà tornato nel

mondo, di annunciare la sua salvazione a Costanza, «bella figlia, genitrice/ de l'onor di

Cicilia e d'Aragona» (vv. 115-6), che, come tutti, lo crede dannato: gli racconta che si

trova nell'Antipurgatorio poiché durante la battaglia di Benevento si pentì soltanto in punto

di morte dei suoi «orribili» (v. 121) peccati, ottenendo poi, però, il perdono di Dio

infinitamente misericordioso; prosegue malinconico dicendo che il vescovo di Cosenza,

su istigazione di papa Clemente IV, lo dissotterrò di notte, abbandonandolo senza

sepoltura al di là dei confini del regno di Napoli, oltre il fiume Liri; spiega poi che gli

scomunicati, prima di poter cominciare l'espiazione del loro peccato nelle varie Cornici,

devono rimanere nell'Antipurgatorio trenta volte il periodo vissuto «in sua presunzïon» (v.

139), cioè in contumacia verso la Chiesa, a meno che qualcuno sulla Terra non accorci

con le proprie preghiere tale periodo. Manfredi lo supplica, quindi, di dichiarare tutto

questo alla figlia Costanza, affinché lei, con le proprie orazioni, abbrevi la sua pena e la

sua permanenza nell'Antipurgatorio, accelerandone l'ascesa al sacro monte.

1.2. Interpretazione

Le pagine del III canto del Purgatorio ruotano attorno al tema dell'insufficienza della

ragione umana a penetrare i grandi misteri della fede e della conseguente necessità

dell'uomo di rimettersi alla Rivelazione. Allo sbigottimento che Dante prova di fronte

all'assenza dell'ombra del maestro accanto alla sua, Virgilio dichiara come la ragione

umana si ostini a spiegare con l'ausilio del solo intelletto cose indecifrabili; nel suo monito

a tutti coloro che hanno la pretesa di poter percorrere l'infinita via dell'operare divino,

Virgilio dà voce anche al proprio dramma di uomo saggio, vissuto certo in modo giusto,

ma che non ha conosciuto Dio e che è per questo relegato per sempre nel Limbo,

conscio della vanità dei suoi sforzi di conoscenza.

La giustizia divina, però, ha salvato qui le anime dei contumaci, di coloro, cioè, che

sono morti dopo essere stati scomunicati dalla Chiesa. Il gruppo di penitenti viene

presentato attraverso la similitudine con le pecorelle: come esse lentamente escono dal

recinto una dietro l'altra, inconsce di dove vanno e perché, altrettanto a rilento si

muovono le anime che Dante e Virgilio incontrano. È importante osservare come questo

paragone non sia occasionale, sia perché la pecora è l'animale simbolo di quella

mansuetudine che gli scomunicati non hanno dimostrato di avere quando erano in vita,

sia perché la loro inclinazione indocile è la traduzione concreta del discorso fatto in

precedenza da Virgilio riguardo il dovere del cristiano di accontentarsi del «quia» (v. 37),

senza avere la pretesa di «veder tutto» (v. 38).

Fra le anime degli scomunicati vi è anche quella di Manfredi. Nato intorno al 1232 da

Federico II, Manfredi consegue alla morte del padre la reggenza nell'Italia meridionale;

nel 1258 diviene re di Sicilia e ottiene alcune terre in Piemonte e in Liguria grazie al primo

matrimonio con Beatrice di Savoia e altre in Illiria grazie al secondo matrimonio con la

figlia del despota d'Epiro. Tale potenza suscita l'invidia di papa Urbano IV, che chiama in

aiuto Carlo d'Angiò, il quale muove contro Manfredi alla testa di un esercito di trentamila

uomini; nel 1266 si giunge allo scontro decisivo a Benevento, durante il quale egli, colpito

all'occhio da una freccia e ferito al ventre, cade violentemente; il suo cadavere viene

rinvenuto dopo tre giorni: si erige un tumulo di sassi sul luogo della sepoltura, ma in

3

seguito il corpo viene dissotterrato e le ossa disperse fuori dai confini del regno.

Il personaggio di Manfredi consente a Dante di fare un altro importante discorso sui

limiti della ragione umana di fronte a Dio, la cui giustizia non è sempre spiegabile

razionalmente alla luce delle azioni di un personaggio: egli infatti, sebbene si sia mostrato

in vita ribelle all'autorità della Chiesa, viene inserito nell'Antipurgatorio a seguito del suo

sincero e profondo pentimento in punto di morte, a dimostrazione -questo- di come la

3 Sulla figura di Manfredi e le sua vicende storiche si veda G. Leone: Un re nel Purgatorio. Manfredi di

Schena (Brindisi 1994, ristampa 1995).

Svevia dalla vita terrena all'oltretomba dantesco,

grazia divina possa favorire anche un personaggio che, per la sua fama, era stato posto

al di fuori della comunità dei fedeli. In tal modo Dante vuole affermare come le istituzioni

ecclesiastiche si attribuiscano erroneamente il diritto di stabilire il destino ultraterreno dei

loro nemici e che solo Dio può sapere con certezza se una persona, dopo la morte, sia

salva o dannata; infatti, il suo destino nell'aldilà dipende non solo dalle sue azioni terrene,

ma anche e soprattutto dalla sincerità del suo pentimento, che soltanto Dio può cogliere.

Occorre quindi l'umiltà di rimettersi al giudizio divino, così come ha fatto Manfredi: in

bocca sua non vi è alcuna accusa od odio né contro Carlo d'Angiò, né contro il vescovo di

Cosenza, né contro il papa Clemente IV, che hanno disseppellito i suoi resti disperdendoli

di notte; perdonato da Dio, ha a sua volta perdonato; è memore del suo destino terreno

ma fiducioso nella propria salvezza (per questo egli parla «sorridendo», v. 112,

affermando così la pace interna raggiunta e la gioia della propria salvazione).

Particolare, infine, da sottolineare è come le ferite di Manfredi, stando su di un corpo

aereo, non dovrebbero in realtà esserci. Secondo la critica, esse significherebbero la sua

relazione con il padre: egli, infatti, non dice di essere il figlio di Federico II e concepisce

una genealogia tutta al femminile, dichiarandosi nipote dell'imperatrice Costanza

d'Altavilla e padre di un'altra Costanza, madre di Giacomo d'Aragona e Federico di Sicilia.

Tale reticenza è stata spiegata in due modi differenti: Manfredi, benché fosse il favorito di

Federico, non era suo legittimo erede, e quindi non era cosa opportuna che egli

nominasse il proprio padre; inoltre, Federico era al tempo un eretico e uno scomunicato e

perciò Dante, salvandone il figlio, esprimerebbe la sua adesione agli ideali ghibellini.

Dettagli
Publisher
A.A. 2007-2008
5 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Tonnina di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Verona o del prof Chiecchi Giuseppe.