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Linguisti e giuristi parlano di linguaggio e diritto come “complessi istituzionali” e qui si
apprende una nuova nozione, quella di “istituzione”, con ciò intendendosi
quell’istituzione/istituto nascente dalla convinzione dell’efficacia e quindi della
opportunità di osservare determinati gesti e comportamenti.
Con l’inserimento del diritto nell’apparato statale si è assistito allo stravolgimento
della sua natura e funzione originario poiché chiamato adesso a svolgere un ruolo
strumentale del potere politico -> controllo sociale, che esige il primato della legge e
un rigoroso principio di legalità. Inoltre prevale sempre più la dimensione pensale,
legata a violazioni di notevole rilievo e che sfocia in un’attività repressiva e coattiva
dell’apparato di potere. Attraverso l’accostamento fra lingua e diritto e con il recupero
di una dimensione istituzionale sarà possibile ritrovare il ruolo originario del diritto.
2 – La vita del diritto
Essendo una componente fondamentale della società deve fare i conti con i tempi e
con gli spazi: avrà diverse manifestazioni a seconda delle diverse esigenze dei climi
storici in cui si immerge, manifestazioni che vanno interpretate e applicate. Non
bisogna infatti dimenticare che anche l’applicazione è creazione giuridica.
Il diritto è vecchio quanto il mondo; anche le più primitive costumanze giuridiche
costituiscono diritto, ma avendo fonte negli usi, rimanendo ancorata ad una
dimensione orale e strettamente territoriale, non hanno affatto inciso nel solco della
storia.
D L’età antica, invece, ci riserva manifestazioni giuridiche di civiltà culturalmente
I raffinate, anche dal punto di vista giuridico, ma spesso messe in ombra da
R quell’esperienza durata un intero millennio e solitamente identificata con “diritto
I romano”.
T È in Grecia che nasce la filosofia e la capacità di leggere il mondo in termini
T matematici, ma è a Roma che che nasce la capacità di leggere il mondo
O socio-economico-politico in termini giuridici. Apparve anche un personaggio nuovo, il
grammatico del diritto, il giurista. Si costituì un metodo autonomo di approccio alla
R dimensione socio-economico, oramai pensata in una visione nuova, quella giuridica.
O Il diritto romano è quindi un’opera derivante prevalentemente da scienziati,
M singolarissimi perché chiamati prima a inventare, poi a definire e poi ancora ad
A adattare questa costruzione ai confini di Roma che da città-Stato, pian piano, diventò
N impero. Questi scienziati costruirono un vero e proprio sistema, che ben si sposava con
O la stabilità del dominio politico di Roma. Ne scaturì un doppio volto e anche un doppio
modello: il primo era quello derivante dal suo proporsi come analisi scientifica, il
secondo faceva perno sulla figura dei giuristi, individui ben inseriti nel tessuto politico
romano e nella classe dirigente e non, invece, avulsi dal loro tempo. Il sapere dei
giuristi era prevalentemente civilistico; l’astrattezza delle loro categorie privilegiava
sostanzialmente l’abbiente e il possidente e proprio per questo costituiranno per la
futura età borghese un ottimo supporto tecnico-giuridico. La rilevanza storica
dell’esperienza giuridica romana è cospicua.
Il diritto medievale seguì la sorte della civiltà di cui era frutto. Si originava sulla base di
D due grandi vuoti: quello statuale, seguito al crollo dell’impero romano, e quello
I giuridico, conseguente alla caduta delle strutture dell’impero. L’assenza di uno Stato
R centrale forte e unitario, toglie al diritto il suo legame con il potere e con la sua
I funzione di controllo sociale. Il nuovo diritto è ben poco disegnato dai legislatori,
T essendo piuttosto frutto dell’esperienza quotidiana. Interpreti di questo nuovo diritto
T non furono più i teorici, ma gli applicatori: i giudici e soprattutto i notai.
O In assenza di un potere centrale il diritto si particolarizzò divenendo voce fedele delle
varie comunità e con il tempo l’interpretazione di questo tessuto consuetudinario
C passa nelle mani di uomini di scienza che insegnano nelle nascenti Università. Il
O pluralismo giuridico di questo periodo permise la convivenza tra due strati: quello dei
M “iura propria”(i diritti delle autonomie locali) e quello dello “ius commune”.
U Quest’ultimo era comune sia per la proiezione geografica, sia perché costituiva
N l’assorbimento delle sapienze giuridiche romana e canonica. Era un diritto scientifico
E che non discendeva da alcun apparato politico, ma che volle qualificarsi come
interpretazione. In realtà fu un’opera creativa di sapienti interpreti che avevano uno
strumento efficace nelle loro mani: quello dell’equità. Nonostante ciò, il diritto
comune si presentava affetto da una grave malattia: l’incertezza della disciplina
giuridica, che lo porterà al declino.
Dal Trecento la storia è piena di entità politiche che nascono e che tentano di rompere
con il tessuto politico universale, con una radicale trasformazione nell’identità del
E Principe, un soggetto ormai detentore di un potere assoluto, la sovranità. Questi
T intuisce il valore fondativo che il diritto può avere per la dimensione politica ed è
A’ pertanto determinato a controllarlo, diventando sempre più legislatore (e il diritto
sempre più legislativo). L’Europa continentale è frantumata in tanti Stati, all’interno
M del quale vigono i Principi e di conseguenza i loro diritti (si procede dal pluralismo
O giuridico al monismo). Il principio di strettissima legalità (necessaria corrispondenza di
D ogni manifestazione giuridica alla legge) è al cuore della società ed è considerato una
E garanzia del cittadino contro gli arbitrii della pubblica amministrazione o di cittadini
R economicamente e socialmente forti. Il bene pubblico in realtà è il bene di pochi,
N poiché lo Stato borghese è elitario.
A È possibile suddividere i nuovi Stati in due grandi categorie: Paesi di civil law ( tipico
sistema giudico dei grandi Stati dell’Europa continentale e delle loro colonie) e Paesi di
common law (sistema utilizzato in Inghilterra e nelle sue colonie). Il sistema
qualificato come common law è il frutto della storia inglese. Al fondo di questo
sistema batte un cuore medievale: non può essere il ceto dei giuristi a fissarlo ed
esprimerlo.
Il moderno ha durata assai breve: i suoi germi affiorano nel Trecento, ma già nel
Novecento il suo modello di interpretazione della realtà socio-giuridica si sfalda. La
civiltà moderna è divenuta sempre più complicata: civiltà di masse in azione e quindi
civiltà di lotte sociali, ove si ingigantiscono nuove collettività prima represse o
ignorate. In questo secolo ci si rende conto del profondo divario che vi è tra il
paesaggio socio-giuridico e il paese reale. Il Novecento si colloca quindi oltre il
moderno, perché è la progressiva presa di coscienza della complessità dell’universo
giuridico. Santi Romano percepisce questa complessità e la denuncia parlando di “crisi
dello stato moderno”, arrivando a teorizzare la “pluralità degli ordinamenti giuridici” e
quindi lo svincolamento del diritto dallo Stato. Lo Stato perde nel diritto la sua ombra
perfetta. Un altro fenomeno veniva ad aggravare la crisi dello Stato produttore di
diritto: il moltiplicarsi e sovrapporsi di strati di legalità. Le Costituzioni del Novecento
non sono più un insieme di principi, ma un complesso organico normativo che vincola i
cittadini e gli stessi organi dello Stato. Il secondo Novecento ha visto moltiplicarsi gli
organismi sopranazionali, tappa del comunitarismo trans-nazionale.
Comunemente si pensa al diritto con una sua proiezione geografica, un’abitudine che
deriva dall’aver immedesimato il diritto nello Stato e dal vederlo in strettissima
connessione con il potere politico: la statualità del diritto esige la sua territorialità. La
compattezza dello Stato esige che anche la sua ombra sia compatta: uno Stato, un
territorio, un diritto. Stiamo vivendo in una contemporaneità che va in una direzione
opposta.
La visione potestativa del diritto è un’eredità del moderno. Spostato il focus dallo Stato
alla società, le prospettive cambiano. La società si organizza prescindendo da una
proiezione necessariamente geografica, acquisendo così una proiezione immateriale, il
territorio non è più il suo oggetto necessario; suo oggetto necessario è il complesso
tessuto di relazioni fra gli uomini. Questa proiezione immateriale deriva dalla
globalizzazione giuridica.
Il diritto è costantemente sorretto dal bisogno di manifestarsi entro i tempi e gli spazi
più diversi. A queste manifestazioni i giuristi sono soliti dare il nome di “fonti”. Il
nemico culturalmente da battere con ogni sforzo è la riduzione di una “costituzione” o
di una “legge” in un testo cartaceo, riducendo la giuridicità nell’ossequio a quel testo.
Dall’antichità classica ad oggi, si è sempre parlato del diritto naturale ma
diversissimi sono i contenuti che gli sono stati dati. “Bisogna rinunciare a vedere nel
diritto naturale qualcosa di mortificante, anche se si tratta di un ben singolare
cadavere con ricorrenti sepolture e resurrezioni” (N. Matteucci). Più volte nel corso del
Novecento si è sentito il bisogno di ricorrere al diritto naturale e ciò va posto in stretto
contatto con il diritto positivo. La fiducia nel diritto naturale va di pari passo con la
sfiducia nel diritto positivo. Il diritto positivo è stato visto come l’unico possibile; buono
a patto che venisse dall’autorità sovrana. È nella Germania nazista e post-nazista che
il diritto naturale appare come l’unico salvataggio di fronte a una positività giuridica
che è violenza e tirannia. Le miserie del diritto positivo spingono a guardare più in alto,
a un livello superiore che sopravanzi i particolarismi e in cui si serbino i valori che la
coscienza collettiva avverte e di cui ha nutrito la vicenda storica.
Il giurista moderno ha sempre avuto qualche timore nel parlare di diritto/legge
naturale, sicuramente per quell’aurea di metafisica che questo comportava. Ma vi era
un grande bisogni di valori a cui ricollegare le costruzioni giuridiche, dal momento che
il diritto positivo si era spesso dimostrato fallimentare. A questo bisogno risposero le
Costituzioni. La Costituz