vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
4. L A MORTE IN DIRETTA
Le fotografie del Novecento puntano spesso all’emotività, che si tratti di composizioni o meno.
Celebri in questo senso sono due fotografie che immortalano la morte in diretta, immagini con
significati simili anche se diametralmente opposte dal punto di vista dell’ambientazione e del
momento. La prima, Street Execution of a Vietcong
Prisoner, scattata da Eddie Adams nel 1968,
raffigura l’esecuzione di un Vietcong da parte
di un militare vietnamita. L’immagine presenta
la vittima di fronte, un attimo prima di morire,
mentre l’esecutore è di spalle: l’inerme è visibi-
le in volto, il “cattivo” no, rappresenta la mi-
naccia, l’astrazione, quasi il male assoluto, è
simbolo di violenza cieca. L’immagine scatenò
un acceso dibattito sul problema morale: il fo-
tografo sta scattando e potrebbe per questo essere responsabile della morte del ragazzo. Invece
di fotografare avrebbe potuto fermare l’esecuzione, oppure, il generale potrebbe sentirsi spinto
nel compiere il gesto proprio dalla presenza dell’obiettivo fotografico, rendendolo così un gesto
di monito nei confronti di tutti i vietcong, come fosse una pubblicità. Adams venne contestato:
la macchina fotografica è complice di un delitto.
La seconda invece, di Bob Jackson, immortala Jack Ruby che spara a Lee H. Oswald, pre-
sunto assassino di Kennedy, ed è stata scattata da Bob Ja-
ckson nel 1963. Questa foto è stata preceduta da un’altra che
immortala il momento immediatamente precedente
all’uccisione di Oswald, questa scattata invece da Paul Metsa.
L’angolazione è diversa, l’ambientazione chiaramente la stes-
sa, le persone coinvolte
non si sono ancora rese
conto di quello che sta
accadendo. Anche quest’ultima pone il problema relativo al
fotografo: avrebbe potuto evitare l’omicidio? È stato uno
scatto fortunato o ha preferito scattare piuttosto che ferma-
re l’omicidio? Qual è il ruolo del fotografo di fronte alla
morte? 5
2. La falsificazione delle immagini nel Novecento 4
La falsificazione delle immagini diventa un’opera comune soprattutto con l’avvento dei regimi
dittatoriali del Novecento. I capi di Stato avevano pieno interesse nel manipolare le fotografie,
soprattutto quando si trattava di eliminare soggetti sco-
modi dagli scatti o inserirne altri per migliorare la pro-
pria immagine. Prima fra tutti l’Unione Sovietica, che fa-
ceva largo uso di fotografia e cinema a scopi propagandi-
stici.
Celebre, seppur modificata attraverso
un semplice ritaglio, è l’immagine che
raffigura Stalin alla 15esima riunione
del partito comunista sovietico nel
1926. Insieme a lui nella foto compaiono in posa anche Antipov, Kirov,
Shvernik e Komarov. Con il passare degli anni, uno a uno i suoi collaborato-
ri sono stati eliminati (politicamente e non solo) da Stalin e di conseguenza
vennero eliminati anche dalla fotografia. È un tentativo di eliminazione anche dalla memoria
storica, come se non fossero mai esistiti e, soprattutto, come se i traditori non avessero mai po-
sato né avuto a che fare con Stalin. La storia dell’evoluzione di questa fotografia rispecchia an-
che la storia del regime staliniano.
Lo stesso avviene in altre fotografie che ritraggono il leader
sovietico. La più famosa è quella che lo ritrae insieme a Ye-
zhov: considerato un traditore, venne eliminato dalla foto, su-
bendo anche lui la damnatio memoriae, sorte già toccata ai
politici presenti nella fotografia precedente.
Diversa è invece la sorte di un’altra foto-
grafia russa con protagonista il dittatore.
Quest’immagine vede Stalin e Lenin in-
sieme, ma è una manipolazione, è stata
realizzata per creare continuità tra i due
governi, una sorta di auto legittimazione
di Stalin, ha dunque un forte valore sim-
bolico: il potere è stato trasmesso, non
preso.
La manipolazione non avveniva solo nei confronti di perso-
naggi politici scomodi, ma anche per persone comuni che ri-
schiavano di rovinare graficamente e simbolicamente una fo-
tografia. Accade con un uomo del popolo indica la strada a
Stalin: nessuno può indicare la strada al leader, lui sa da solo
dove deve andare e dove sta andando.
Lezione 5, 12 marzo 2015.
4 6
Anche Lenin era solito manipolare le fotografie con fini politici.
Celebre è una fotografia che lo ritrae durante un discorso alle
truppe del 1920. Nella foto originale, alla sua sinistra, sui gradi-
ni che permettono l’accesso al palco compaiono Trotsky e Ka-
menev, ma nella foto manipolata vengono eliminati perché rite-
nuti in seguito una minaccia per il suo governo. Si assiste dun-
que ad un altro esempio di eliminazione politica e visuale.
Un altro dittatore novecentesco usava la manipolazione fotografica con scopi propagandistici:
Mussolini. Un esempio è la foto che lo immortala a cavallo du-
rante un’opera di colonizzazione. Lo scudiero che tiene le briglie
del cavallo viene cancellato dalla foto, perché Mussolini non ha
bisogno che qualcuno domi il suo destriero al suo posto. Ciò che
rende doppiamente falsa la foto è la “spada dell’Islam” brandita
dal dittatore: in realtà si tratta di un falso
realizzato a Firenze.
Di natura tutt’altro che politica è il celebre
ciclo di manipolazione delle fate (1917): si
realizzarono moltissime foto fantasy di
questo genere ed ebbero molto successo,
soprattutto prima che si scoprisse che erano dei falsi.
7
3. Fotografia e propaganda negli Stati Uniti
1. Farm Security Administration 5
Gli anni successivi alla crisi del 1929 furono caratterizzati da forti
difficoltà economiche. Il presidente Roosvelt (unico nella storia a
venire eletto ben quattro volte), nel 1932, lancia il programma eco-
nomico New Deal per riprendersi dalla crisi, che prevedeva inve-
stimenti pubblici per far ripartire l’economia, più lavoro per le clas-
si meno agiate e puntava a stimolare così il consumo e il lavoro. I-
noltre viene creato un programma di intervento a favore
dell’agricoltura, il Farm Security Administration. Ciò portò
anche all’assunzione di molti fotografi per documentare le condi-
zioni di vita e di lavoro degli agricoltori americani. Si realizzarono
più di 170mila fotografie che colpirono l’opinione pubblica.
La fotografia più famosa è “Migrant Mother” (1936), scattata da Dorothea Lange, che venne
così consacrata a celebrità della fotografia. Sorgono però due letture opposte tra chi scatta e chi
viene immortalato, Lange afferma:
«I saw and approached the hungry and desperate mother, as if drawn by a magnet. I do not remember how
I explained my presence or my camera to her, but I do remember she asked me no questions. I made five
exposures, working closer and closer from the same direction. I did not ask her name or her history. She
told me her age, that she was thirty-two. She said that they had been living on frozen vegetables from the
surrounding fields, and birds that the children killed. She had just sold the tires from her car to buy food.
There she sat in that lean- to tent with her children huddled around her, and seemed to know that my pic-
tures might help her, and so she helped me. There was a sort of equality about it».
Quarant’anni dopo però la donna ritratta venne ritrovata ed intervistata da un giornalista, Flo-
rence Owens Thompson diede una versione diversa:
«I wish she hadn't taken my picture. I can't get a penny out of it. She didn't ask my name. She said she
wouldn't sell the pictures. She said she'd send me a copy. She never did».
Dopo la pubblicazione delle foto (sono 5), vista la loro popolarità, il Governo inviò del denaro
al campo, ma Florence se ne era già andata, non ottenendo così alcun
compenso economico.
La fotografia sembra un richiamo alla realtà, ma, dato i numerosi scatti,
sembra frutto di una progettualità, più che di uno scatto spontaneo.
Nelle prime le bambine sono dentro la tenda e la fotografa scatta da una
distanza maggiore, poi il campo viene ristretto e ci si avvicina di più alla
famiglia. Un’altra foto, più simile a quella definitiva vede la piccola
Norma in braccio alla madre, mentre l’altra figlia si appoggia alla sua
spalla: ricorda le immagini di “Madonna con il bambino e San Giovan-
nino”. Questa è una foto più ordinata, lo sguardo della madre è più profondo, di interrogazione
verso un futuro incerto. Il piatto vuoto è un simbolo, la bambina ha lo sguardo perso, mentre
Lezione 8, 27 marzo 2015
5 8
in quella definitiva le bambine si nascondono. Dunque la prima foto è l’esito di un lavoro pro-
gettuale e di una messa in posa. La spontaneità non è il punto di partenza, ma di arrivo. A dif-
ferenza della prima foto analizzata infatti questa risulta più ordinata (gli stessi capelli della
donna lo sono), l’altra invece è molto lontana dalle immagini icastiche: i capelli sono in di-
sordine e c’è più confusione. La foto si trasforma in un simbolo della nazione americana (lei
era di origine indiano americana), diventando anche un franco-
bollo nel 1998, una novità, visto che le protagoniste erano ancora
tutte in vita. La foto venne inoltre venduta all’asta per 250mila
dollari. Nel 1983 Florence si ammala di cancro e non ha i soldi
per potersi curare, ma una delle figlie decide di ricreare una nuo-
va versione della fotografia per chiedere aiuto: in pochi giorni le
donazioni furono numerose. C’è omologia gestuale tra la vecchia e la nuova foto.
2. La Seconda Guerra Mondiale
6
Nella prima metà del Novecento la fotografia è stata fondamentale in termini politici. Con la
seconda metà del secolo e l’avvento di mezzi di comunicazione miglio-
re è stata il cardine della propaganda politica e bellica. Esempio cal-
zante è la fotografia Flag rising on Iwo Jima (1945), nella quale
sono stati immortalati dei soldati americani intenti ad innalzare la
propria bandiera su un colle giapponese. La fotografia, una volta di-
vulgata, ebbe un impatto enorme (diventò anche un francobollo) e fu
molto importante per lo sforzo bellico perché fu stampata su milioni
di manifesti per la richiesta di bot (prestiti per la guerra) agli ameri-
cani: come loro sollevano la bandiera, i cittadini devono aiutare a ri-
sollevare l’America. Era il simbolo di un gesto patriottico. Secondo ri-
cerche successive però, la foto si è rivelata una messa in scena: il vero alzaba