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Le due terzine d’apertura, tra le più celebri della Commedia, oltreché a fornire una precisa indicazione
temporale ai fini del tempo della storia, servono soprattutto a creare una struggente atmosfera, propria
di tutto il canto. I primi sei versi indicano molto semplicemente il tramonto, ma il significato da
rintracciare oltre quello letterario, è molto più complesso. L’ora della compieta (ultimo momento di
preghiera della giornata, dopo l’ora dei Vespri) indica appunto il tramonto, il giungere della notte. Il
morire del giorno è evocato attraverso un’immagine di partenza, quella dei mercanti o marinai, che
al momento di iniziare il viaggio per mare, sono colti da un’improvvisa nostalgia per gli affetti e i
beni che hanno lasciato; e attraverso l’immagine del pellegrino il quale, all’inizio del viaggio, ode la
campana che preannuncia la sera. La metafora del giorno che trapassa nella notte introduce il tema
che si oppone al vocabolo “amore” della seconda terzina. Amore e morte dunque. Il tema
della morte,
unificante di questi veri è quello del viaggio, tema fondamentale della Commedia, metafora
tradizionale della vita cristiana; tra coloro che sono in viaggio c’è lo stesso Dante, pellegrino
nei tre regni dell’oltretomba, ma c’è l’umanità intera nel cammino verso la purificazione
itinerante
adombrata da Dante; c’è Dante come uomo politico, sulla via di un ingiusto esilio, che non a caso gli
verrà profetizzato in chiusura del canto, e ci sono le stesse anime purganti in attesa di ascendere
all’Empireo.
Il rituale della preghiera:
Questo momento crepuscolare è propizio ai rituali liturgici, occupazione precipua delle anime del
Purgatorio. Una di esse, dopo aver fatto cenno a Dante perché capisse che vuole essere ascoltata,
infatti si leva in piedi e ha congiunte le mani in atto di preghiera, avendo rivolto contemporaneamente
lo sguardo verso Oriente, secondo l’antico costume dei cristiani. Da quel punto cardinale infatti sorge
sempre il sole, identificato con Dio. Una delle manifestazioni del culto divino è soprattutto quella
canora e un canto dolcissimo si innalza nella sera; dapprima si tratta di una sola voce, mentre poi altre
voci giungono a formare un coro, tutte le anime guardano in cielo, come se stessero aspettando
Si canta l’inno un’invocazione a fuggire le tentazioni
qualcosa di straordinario. Te lucis ante,
notturne, attraverso l’aiuto e il favore di Dio, poiché la notte e il buoi sono il regno del maligno.
L’effetto complessivo del rituale è il rapimento estatico di Dante, che confessa di essere uscito di
mente, di aver cioè abdicato alle facoltà razionali per un contatto mistico con il divino.
L’appello al lettore e la prima parte della sacra rappresentazione:
che, con un appello al lettore, richiama l’attenzione sulla
A questo punto interviene Dante-autore
facilità nell’interpretare il significato allegorico della scena. Ha finalmente inizio la prima parte della
sacra rappresentazione. Il senso dell’attesa è dato dalla descrizione dell’atteggiamento degli spiriti
presenti, della nobile schiera che hanno lo sguardo rivolto verso l’alto in attesa di qualcosa, con i volti
pallidi e umili. Quei principi (sono i principi negligenti a pentirsi) caratterizzati in vita da alterigia e
superbia, hanno ormai perduto tale atteggiamento proprio del mondo terreno, dove rappresentavano
il potere politico al massimo livello. Ora sono divenuti convenientemente timorosi e umili, giacché
la superbia terrena non avrebbe ragion d’essere di fronte alla grandezza di Dio. Allora appaiono due
angeli dalle ali e dalle vesti verdi come foglie nate da poco, dalla chioma bionda e dal volto splendente
di luce che abbaglia per la virtù che emana; impugnano ciascuno una spada fiammeggiante privata
della punta. I due angeli si posano ai lati opposti della valle dove si trovano le anime. Così le anime
si trovano in mezzo ai due angeli, affidate alla loro vigilanza e alla loro tutela. Sordello chiarisce a
Dante che i due angeli vengono dall’Empireo e sono posti a guardia della valle, per difenderla dal
serpente che arriverà da un momento all’altro. Dante si stringe al solito, alle spalle della sua guida,
impaurito perché non sapeva a quale parte sarebbe giunto il serpente. Ma qui la narrazione si
narrazione, e si inserisce l’incontro con un personaggio,
interrompe, termina la prima parte della
improntato al senso dell’amicizia e della cortesia. Resta però da dire qualcosa sul significato
allegorico dei tanti particolari descritti. In primo luogo il significato dei colori, da porre in relazione
con le virtù teologali: il verde delle vesti degli angeli è simbolo della speranza cristiana, che deve
essere appunto sempre verde e quindi fresca nell’animo; il bianco splendente il volto è simbolo della
fede, il rosso delle spade della carità; le spade sono spuntate perché volte a difendere e non ad
offendere; l’una è la giustizia, l’altra la misericordia divina, virtù che in Dio non sono mai disgiunte.
Gli angeli non possono essere guardati in volo da dante, non ancora in grado di sopportare una realtà
sovrannaturale.
L’incontro con Nino Visconti:
Sordello conduce i due poeti in mezzo agli spiriti che si trovano nella valle, per parlare con loro, e il
trovatore aggiunge che esse saranno contente di parlare con loro. Solo dopo tre = pochi passi, il
numero tre è il simbolo del divino, della natura trinitaria di Dio, Dante scorge un’anima che lo
guardava come se lo riconoscesse. L’incontro è preceduto dal consueto linguaggio degli sguardi, volti
all’investigazione e al riconoscimento reciproco; seppure nell’incerta luce crepuscolare, i due adesso
scoprono ciò che la distanza tra di loro prima nascondeva. I due si avvicinano e subito Dante apostrofa
con gioia l’amico che è felice di incontrare tra le anime elette.
Si tratta di Nino Visconti, che fu giudice in Sardegna, che fu più volte a Firenze, dove incontrò diverse
volte Dante. seguono i saluti di rito, in un’atmosfera cortese e cavalleresca, lo scambio delle notizie,
lo stupore di Nino, all’apprendere che Dante è ancora vivo, stupore che si estende anche a Sordello,
e a cui è chiamato a partecipare anche un altro spirito, Corrado, che di lì a poco si intratterrà col poeta
fiorentino. Nino parla del mondo terreno come se si trattasse di una realtà ormai remota, sottolineando
cui si trova attraverso l’evocazione della sconfinata massa d’acqua che si
la distanza da quello in
frappone fra i due mondi. Poi nel suo animo subentrano i ricordi dei suoi cari; il suo pensiero va alla
figlia Giovanna, affinché sia prodiga di efficaci preghiere per lui; anche la moglie viene ricordata, ma
Nino prende le distanze dalla moglie, a cui si riferisce chiamandola “sua
in maniera più distaccata.
madre” (della figlia) che si era risposata. Ella ha abbandonato le bianche bende/veli che si portavano
portavano in segno di lutto. Segue poi il tema dell’incostanza delle
intorno al capo che le vedove
donne, tratto dall’esempio della moglie di Nino, uno dei luoghi comuni della letteratura del Medioevo.
Nino è ancora segnato dall’amore per la moglie, ma senza risentimento. Da questo suo amore nasce
ora il sentimento di pietà con cui considera i suoi errori e la sua sventura.
La pausa contemplativa:
Allo sfogo dell’amico, Dante non risponde, ma si immerge in un momento di contemplazione del
cielo, tanto che Virgilio lo apostrofa chiedendogli cosa stia guardando. Lo sguardo di Dante è
concentrato su tre stelle, in cui i commentatori antichi hanno voluto vedere un simbolo delle virtù
teologali, mentre le quattro stelle vedute al mattino e ormai basse, sono le quattro virtù cardinali. I
commentatori però si sono interrogati sul significato di questa alternanza nel cielo dei due gruppi di
Alcuni cirtici accolgono l’interpretazione di Alessandro Vellutello, commentatore
stelle.
cinquecentesco, che nell’alternanza tra le quattro e le tre stelle voleva vedere un prevalere dell’ideale
di vita contemplativa su quello della vita attiva. Il Sapegno ritiene che, nel momento in cui l’anima
cerca di liberarsi da ogni vincolo terreno, sia necessario l’aiuto delle virtù soprannaturali (teologia,
fede, speranza e carità). Ma ecco che inizia la seconda parte del dramma sacro:
La seconda parte del dramma sacro:
Sordello richiama l’attenzione sulla comparsa del serpente, chiamato “avversaro” attraverso un
epiteto biblico con cui viene comunemente designato il demonio. Costui appare sotto le forme subdole
e immonde di una biscia, forse la stessa che istigò Eva ad assaggiare il frutto proibito, che avrebbe
poi segnato l’umanità col marchio del peccato originale, fino al riscatto operato da Cristo. Il serpente
significativamente proviene da quella parte in cui la valle non è chiusa da pareti, ciò ad indicare che
la tentazione si insinua là dove ci sono minori difese a respingerla. La biscia, stretta e lunga come una
striscia malefica, avanza tra “l’erba e’ fior” cioè allegoricamente tra le lusinghe del mondo o le
apparenze di onestà dietro le quali si nascondono le tentazioni, o ancora i privilegi e gli onori di cui
godono i principi sulla terra. Il suo modo di avanzare è subdolo, strisciante. Ed ecco il tempestivo
soccorso divino, tramite la calata fulminea dei due angeli, resi con la metafora degli astori o uccelli
rapaci, che si ritenevano nel Medioevo non a caso predatori di serpenti. Al solo percepire il fruscio
delle ali, il maligno si dilegua e gli angeli possono tornare ai loro posti di guardia. Allegoricamente
ciò simboleggia la tentazione che viene vinta dalla grazia divina. Per alcuni commentatori la
rievocazione avrebbe valore per tutti gli uomini, come perenne ammonizione a non cadere nelle
insidie diaboliche. Ma secondo altri ci si rivolgerebbe proprio ai principi per punire in qualche modo
la loro negligenza dimostrata sulla terra, distratti com’erano dalle cure mondane. Si tende perciò ad
interpretare questo canto in senso politico-religioso: i principi, che hanno trascurato i loro doveri di
mantenere la pace, di essere imparziali nell’esercizio del potere, sono costretti ad assistere all’attuarsi
del volere di Dio, il quale ha delegato i due poteri, temporale e spirituale, simboleggiati dalle sue
a due distinte autorità, imperatore e papa. L’allegoria sarebbe dunque una presa di posizione
spade,
da parte di Dante contro la teocrazia o rivendicazione della superiorità del potere religioso su quello
politico da parte della Chiesa.