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Appunti sul VI Canto Purgatorio di Dante Pag. 1
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Consisteva nello gettare su un tavoliere tre dadi e consisteva nell’indovinare in anticipo i numeri

risultanti dalle loro possibili combinazioni. Il nome del gioco deriva dall’arabo az-zahr, che significa

appunto dado (da cui l’italiano azzardo e il francese hasard). Finito il gioco, colui che perde rimane

solo (al gioco assisteva una grande folla che alla fine circondava il vincitore per approfittare della sua

vincita) triste e dolente, ripensa alla sua sfortuna e si illude di imparare per la prossima volta a

scegliere combinazioni migliori. Il canto si apre così con un’immagine di abbandono, di scissione; la

folla se ne va dal fortunato e lascia il perdente solo con i suoi pensieri. Simile alla condizione del

vincitore, verso cui si accalca la folla e che cerca di liberarsene, è quella di Dante in mezzo alla schiera

fitta di anime, che si accalcano su Dante che, per liberarsi da questa situazione, prometteva loro ciò

che desideravano, cioè di portare notizie della loro condizione ai loro cari sulla terra perché pregassero

per loro e permettessero così di farli avanzare, accorciando il tempo della loro permanenza in

purgatorio. Segue poi la sintetica rassegna di alcuni personaggi celebri morti in maniera violenta, i

quali hanno visto sbalzare via all’improvviso l’anima dal corpo (Benincasa di Laterina, ucciso da

nell’Arno durante un inseguimento; Federico

Ghino di Tacco, un ghibellino di Arezzo, annegato

Novello, ucciso; Orso degli Alberti, ucciso dal cugino e l’anima di Pierre dalla Broccia fatto morire

per odio e invidia ingiustamente e non per una presunta pena commessa di cui fu accusato da Maria

che deve pentirsi se non vuole finire all’inferno. È un condensato di cronaca nera, in

di Brabante,

quanto Dante attinge ai tragici eventi del suo tempo, per i quali non c’è bisogno di dilungarsi in

spiegazioni). Sono tutti morti per omicidio, spesso a tradimento. Si tratta quindi di personaggi che

hanno vissuto drammaticamente la scissone dell’anima dal corpo, avvenuta in maniera cruenta e

violenta.

Le preghiere

Dante, una volta liberatosi delle anime, pone una domanda a Virgilio: in seguito alle pressanti

di preghiere di quelle anime, coglie l’occasione per avere un chiarimento di natura teologica

richieste

dal suo maestro. Dante si chiede come sia possibile che le preghiere dei viventi in grazia di Dio

possano abbreviare le pene delle anime in purgatorio, modificando ciò che in tal modo Dio ha

stabilito, se si tiene presente che lo stesso Virgilio, in un passo del VI canto dell’Eneide afferma il

contrario. Dante si rivolge a Virgilio come fonte di saggezza e scienza, maestro di moralità. Le sue

affermazioni non possono essere ingannevoli. Il poeta latino fa semplicemente notare che la

preghiera, in quel caso rivolta ad un pagano, Palinuro, nocchiero di Enea, alla Sibilla perché gli

facesse attraversare l’Acheronte nonostante il suo corpo fosse rimasto insepolto, non aveva valore,

perché il supplicante non era in grazia di Dio. Così Virgilio mantiene intatta la sua auctoritas e risolve

quella che è una contraddizione apparente. Si rammenti sempre che nel Purgatorio Virgilio, cioè la

ragione umana, appare sempre più esitante e spesso in difficoltà, laddove già in questo regno si

attribuisce una funzione prevalente alla fede e alla grazia divina. La ragione, da sola, non può

comprendere i grandi dogmi cristiani, senza la fede. Virgilio poi richiama la figura di Beatrice. Dante

potrà rivolgersi a lei per la soluzione di un dubbio così importante. Beatrice, in quanto allegoria della

rivelazione e della teologia, la scienza di Dio, farà da tramite tra la ragione e la Verità. Comprensibile

per via del riferimento a Beatrice, la salvezza che lo attende in cima al monte del Purgatorio, è allora

la fretta di Dante, che vuole abbreviare il tempo che lo separa dalla salvezza.

Quando, dopo le precisazioni di Virgilio sul tempo che dovrà essere impiegato per raggiungere la

vetta della montagna (è pomeriggio e prima di giungervi Dante vedrà sorgere ancora una volta il

sole), riprende la narrazione.

Sordello da Goito:

Ma ecco che appare alla vista una figura solitaria e taciturna che guarda verso i due poeti. Essa è

definita “altera e disdegnosa” e “nel mover gli occhi onesta e tarda”: si intende indicare con questi

aggettivi la fierezza e il senso di distacco dalle cose, la dignità e la lentezza dello sguardo. Non dice

nulla, ma lascia che i due proseguano seguendoli solo con lo sguardo, fermo come quello di un leone

che si riposa. Il paragone è d’ascendenza biblica. È il trovatore mantovano Sordello da Goito, presso

Benedetto Croce come “il Farinata del Purgatorio”, per via dell’amore per la

Mantova, definito da

i due. Virgilio si rivolge a lui con la solita richiesta circa l’agibilità dei sentieri,

patria che accomuna

richiesta che resta però insoddisfatta. Sordello invece pone loro un’altra domanda. Interroga i due

poeti circa la loro origine e sulla loro identità. Virgilio ha solo il tempo di far riferimento alla propria

patria, Mantova, che subito Sordello, colpito da quella parola, lo interrompe e si precipita ad

abbracciarlo. L’abbraccio appare significativo proprio perché dettato dall’amore per la patria di

Sordello, dal riconoscere Virgilio come suo conterraneo. A questo punto, alla solitudine che era

propria della figura di Sordello alla sua apparizione, fa riscontro il ricongiungimento. Di nuovo si

presenta nel Purgatorio l’alternanza tra scissione e ricongiungimento. Molto probabilmente Dante

sceglie Sordello da Goito per introdurre il tema politico perché questo trovatore italiano era famoso

soprattutto per avere scritto un componimento politico sul genere del “compianto”. Dante ammirava

molto questo trovatore italiano tanto da elogiarlo nel De Vulgari eloquentia e da conferirgli un ruolo

di rilievo nei canti VI, VII e VIII del Purgatorio.

L’apostrofe all’Italia

Ma alla voce di Sordello a questo punto si sovrappone quella di Dante-autore che, in un processo di

col personaggio, lancia la sua apostrofe dolorosa all’Italia:

auto identificazione Ahi serva Italia, di

dolore ostello/ nave sanza nocchiero in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello (vv.76-

78). L’Italia è definita serva per la libertà perduta, per l’assenza di un imperatore, senza pilota, preda

della tempesta = le ambizioni, le cupidigie, le lotte feroci. Oppressa come da tanti tiranni, non è più

donna, cioè signora di province (Dante qui allude al passato imperiale dell’Italia, signora dei popoli),

ma è divenuta un luogo di corruzione (il termine bordello, luogo di prostituzione è una metonimia

che indica attraverso il luogo, la persona, la prostituta); l’Italia è così una nave senza guida in mezzo

alla tempesta: metafora consueta di ascendenza classica, in particolare oraziana e virgiliana. Mentre

nel Purgatorio, dove i vincoli terreni sono pure superati e le anime si considerano cittadine di una

medesima patria, quella celeste, Sordello accoglie Virgilio con animo festoso solo al sentir nominare

sua patria, l’Italia è ora teatro di guerre intestine che vedono fronteggiarsi anche i

il nome della

cittadini di una stessa città. Gli abitanti di una medesima città dovrebbero sentirsi uniti da un unico

destino, mentre invece in ogni città italiana ci sono fazioni che si combattono con odio implacabile.

L’essere originari di una stessa patria non ha pi, come nel caso di Virgilio e Sordello, una funzione

unificatrice nell’Italia del tempo di Dante. Se non c’è pace all’interno della penisola, allora a cosa

serve il codice di Giustiniano, se non viene applicato e con le sue leggi renda saldo lo Stato in assenza

di un imperatore? Senza il codice delle leggi, la vergogna sarebbe minore. Segue la metafora

continuata della cavalla, non più domata ma “fatta fella”, cioè resa selvaggia senza le leggi, senza un

cavaliere, l’imperatore. Il codice giustinianeo, un complesso di leggi riformate dall’imperatore

Giustiniano, diventa allora essenziale guida, ma inutile se la sella, il torno imperiale, è vuoto, se

che eserciti la sua autorità su tutto il territorio imperiale. Ma se l’imperatore

manca un imperatore

pecca di latitanza e scarsa energia nel compito che gli è proprio, gli ecclesiastici peccano perché,

travalicando i loro compiti e mansioni, prettamente spirituali, sconfinano nel terreno della politica.

Essi vogliono salire in sella alla cavalla, l’Italia, invece di guidarla per la briglia, cioè vogliono

sostituirsi all’imperatore. L’imperatore è colpevole per la sua assenza, e gli ecclesiastici per via delle

L’apostrofe prosegue in una molteplicità di destinatari: prima era l’Italia e gli

loro ingerenze.

ecclesiastici, ora, l’imperatore Alberto d’Asburgo, poi lo stesso Dio, di nuovo l’Italia e infine Firenze.

Per l’imperatore Dante usa il vocabolo dispregiativo “tedesco”, per sottolineare come questi si curi

dei suoi territori in Germania e trascuri l’Italia, il giardino dell’impero, e su di lui è addirittura

la maledizione del cielo, perché è venuto meno al compito, all’autorità concessa da Dio

invocata

all’imperatore, cioè quella L’apostrofe

di guidare gli uomini in questa terra (vedi De Monarchia).

prosegue poi facendo riferimento a una molteplicità di destinatari, attraverso una lunga anfora:

Vieni…Vien…Vieni…Vieni, che interessa quattro terzine, con il riferimento a due coppie oppositive,

Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi: si riferiscono a partiti e fazioni fra loro avverse. I

Montecchi erano ghibellini di Verona, i Cappelletti, guelfi di Cremona. I Monaldi guelfi di Orvieto e

i Filippeschi ghibellini della stessa città (Santafiore è la contea degli Aldobrandeschi, alla quale il

comune di Siena aveva tolto con la violenza una buona parte dei suoi antichi domini) l’imperatore è

descritto come incurante del dovere di porre fine alle lotte interne, ed è “crudel” perché incurante

delle tribolazioni dei suoi vassalli. Soprattutto non raccoglie il grido di Roma, sposa che piange per

l’assenza del suo sposo. Con ironia, Dante apostrofa l’imperatore: se egli resta insensibile alla pietà,

vergogna della sua cattiva fama. Tanta è l’amarezza e lo

venga in Italia, cedendo almeno alla

sconforto che Dante-autore sente la necessità di rivolgersi a Dio stesso, per sapere se la giustizia sia

rivolta altrove e le vicende umane siano quindi lasciate al caso. La manifestazione di questo dubbio

Dettagli
Publisher
A.A. 2012-2013
4 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher minniti.vale di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Messina o del prof Onorato Aldo.