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Il canto si apre con un grandioso scenario cosmico introdotto dalla terzina iniziale, dominato dalla
in tutto l’universo,
luce divina che si diffonde, che penetra e si manifesta in cui tutte le creature e tutte
le cose derivano la loro essenza e la loro esistenza da Dio, seppure con intensità e gradazioni diverse
a seconda dei luoghi. La parte in cui risplende di più è l’Empireo, quella in cui risplende di meno
sono le creature inferiori all’uomo, come gli animali, che hanno minore capacità, una minore
di accogliere la “gloria”
disposizione di Dio. Dio è infatti definito nei suoi attributi di splendore,
magnificenza e come causa prima del creato, recuperando in parte la definizione aristotelica di Dio
come “primo motore immobile”. Ma nella concezione dantesca c’è anche l’idea di Dio c’è anche
l’idea neoplatonica dell’emanazione, verso il suo progressivo irradiarsi verso tutte le creature
dell’universo. Questa prima affermazione, “la gloria di colui che tutto move/per l’universo penetra e
è come un’introduzione a tutta la cantica.
risplende/in una parte più e men altrove”
La protasi, proposizione o enunciazione del tema:
Segue poi, dal vv.4-9, la protasi, o la proposizione del tema, la parte introduttiva. Infatti Dante
accenna brevemente all’eccezionale esperienza da lui vissuta nell’Empireo, un’esperienza talmente
straordinaria che difficilmente può essere tradotta in parole. Dante, nel cercare di comunicare il suo
messaggio ai lettori, cioè di narrare del suo viaggio nell’ultimo dei tre regni dell’aldilà, il Paradiso,
fa presente ai lettori le difficoltà riguardo al canale usato per trasmettere il suo messaggio, cioè lo
strumento, la lingua: Dante dichiara l’inesprimibilità del contenuto, per insufficienza e inadeguatezza
della lingua, tema che investe tutta la cantica del Paradiso. La facoltà espressiva dell’uomo viene
meno perché non può adeguarsi alla vastità e all’altezza della visione. Ciò si verifica in quanto
l’unione con Dio non può che avvenire misticamente, in una sorta di compenetrazione reciproca o di
estasi che implica la rinuncia alle proprie facoltà razionali con la conseguente impossibilità di
che accade quando l’uomo si avvicina al suo
ricordare, per almeno in termini razionali e precisi. Il
desiderio, al fine ultimo, Dio quale principio finale, oltre che causale, termine ultimo a cui aspirano
tutte le creature. La memoria umana non è in grado di tenere dietro a tale esperienza perché la mente,
quando si avvicina alla meta ultima del suo desiderio, a Dio, si addentra così profondamente nella
cognizione del bene supremo che poi, cessata la visione, non è più capace di ricordarla e di ritrarla
compiutamente. È la condizione dell’excessus mentis, estasi mistica, di cui parlano i mistici, cioè
l’uscita dell’anima da sé, quando, lasciato il proprio corpo, è rapita dalla contemplazione di Dio. Per
comprendere la poesia del Paradiso occorre che il lettore tenga presente la condizione di memoria
di un’esperienza mistica. Dunque solo ciò che è rimasto nella memoria
imperfetta e approssimata
dell’Io - narrato può essere oggetto del suo canto e costituirà la materia della terza cantica. Con questa
dichiarazione della limitatezza dei mezzi umani, si chiude la proposizione, una delle parti che
compongono il proemio, o l’esordio.
L’invocazione ad Apollo: consuetudine classica l’invocazione che conclude il proemio, questa volta
Segue sempre secondo la
non alle Muse, bensì ad Apollo in persona, in quanto dio della poesia: ciò sta ad indicare che per
l’ultima cantica occorre l’intervento di Dio stesso che trasfonda l’ispirazione poetica direttamente nel
petto dell’artista. Secondo l’interpretazione figurale, Apollo è qui figura o anticipazione di Cristo,
dio Sole nella mitologia classica, legato perciò all’idea della luce. Viene così
soprattutto in quanto
spiegata l’apparente contraddizione dell’invocazione a un dio pagano in un momento tanto solenne.
Questa mescolanza di credenze mitologiche e religiose è tipica del Medioevo, riconducibile
secondo cui non c’è sostanziale opposizione tra il mondo classico-pagano
all’interpretazione figurale,
e quello cristiano, ma semmai il primo costituisce in chiave criptica, in un significato non pienamente
manifesto, un’anticipazione che sarà pienamente chiarita all’avvento del de secondo. Il rapporto tra i
due mondi è di complementarietà e non di antitesi. Il rivolgersi ad Apollo assume perciò il significato
di un’invocazione a Dio, in relazione alla difficoltà e all’importanza della materia tratta tata. Se Dante
non si rivolgesse a Dio in questo caso, affidandosi cioè alla fede e alla rivelazione della verità che è
Dio, cadrebbe nell’errore compiuto da Ulisse, che per soddisfare la sua sete di conoscenza illimitata
sola ragione, alla virtù dell’intelletto, che non può comprendere i paradossi dei
si era affidato alla
dogmi di fede se non viene sostenuto dalla fede. Dante rischierebbe di cadere l’errore commesso negli
anni giovanili, quando si era avvicinato alla corrente dell’Aristotelismo radicale, che cerca di
raggiungere la verità attraverso la ragione, senza l’aiuto di Dio. Fino a questo punto era stato
sufficiente l’aiuto delle sole Muse, di una delle vette del Parnaso, ma ora , per quest’ultima prova,
le vette, da Apollo, che baita l’altra vetta, sempre ad indicare
Dante deve essere sostenuto da entrambe
la difficoltà della materia trattata. Il richiamo mitologico che segue, al mito del satiro Marsia, abile
nel flauto, che aveva osato sfidare Apollo, abile nella cetra e dio della musica, che sconfitto dal dio
fu legato ad un albero e scorticato vivo come atto di superbia, ha la funzione di sottolineare la
necessità di abbandonare ogni forma di superbia intellettuale, di eccessiva fiducia nei mezzi umani,
che possono portare a una letale e vana sfida con la divinità.
L’aspirazione dantesca alla gloria poetica:
Nel corso dell’invocazione ad Apollo, dio al quale era sacra la pianta di alloro, rievocato due volte
nell’invocazione, l’Io ribadisce il tema dell’impossibilità a ricordare
- narrante la sovrumana
esperienza vissuta, ma manifesta anche l’aspirazione ad un legittimo riconoscimento della propria
grandezza poetica, la solenne incoronazione con le foglie di alloro, secondo un uso e una prassi del
tempo. Il desiderio della fama e della gloria poetica sono legittime proprio perché si coniugano col
determinante apporto divino, non sono puro atto di superbia, ma consapevole riconoscimento
dell’insufficienza delle proprie capacità umane. Del resto, come chiarisce Dante, sono così rare ormai
le occasioni per le solenni incoronazioni di alloro, sia che si tratti di letterati, che di imperatori, per
colpa degli uomini e della scarsità delle loro legittime ambizioni. Segue infine una professione di
modestia: forse col suo esempio, Dante ispirerà altri poeti che pregheranno Apollo di ispirare la loro
poesia. con la quale si conclude l’invocazione e anche la protasi.
Il tempo in cui ha inizio il cammino:
La narrazione riprende con una determinazione temporale, relativa alla ripresa del viaggio, in forma
di articolata e complessa perifrasi astronomica (vv.37-42). Il riferimento astrale deriva dalla
convinzione dell’uomo medievale dell’influsso degli astri sulle vicende umane. Secondo
l’interpretazione più attendibile di queste complesse terzine dantesche, il poeta designa la stagione,
accennando alla posizione del sole nel giorno in cui egli salì al cielo dalla vetta del monte sacro. La
stagione è quella dell’equinozio di primavera, che corrisponde a una condizione astrale
il sole nel segno dell’Ariete, come nel momento della creazione
particolarmente benigna, trovandosi
del mondo. L’ora è quella di mezzogiorno, la più luminosa e lieta. I quattro cerchi, secondo la
spiegazione più attendibile, sono l’equatore (su cui il sole viene a trovarsi nell’equinozio), l’ellittica
(che nel punto equinoziale taglia l’equatore), il coluro equinoziale (il meridiano che passa per il punto
equinoziale) e l’orizzonte. I primi tre intersecano il quarto, dando luogo ad un unico punto a tre croci.
Il punto che Dante si propone di configurare è il punto cardinale di levante, in cui il sole si leva due
volte all’anno negli equinozi di primavera e di autunno; ed è ovvio che qui si riferisca all’equinozio
primaverile. Secondo i commentatori antichi i quattro cerchi e le tre croci simboleggiano le quattro
virtù cardinali e le tre virtù teologali, congiunte e cooperanti alla salvezza dell’uomo. Quindi siamo
nella stagione primaverile, quando il sole è nel segno dell’Ariete, e all’ora di mezzogiorno, il
Viene cos’ ripreso il tema della luce, che sarà costante in tutta la
momento in cui la più luminosa.
cantica. Il sole nella sua massima luminosità è ovviamente Dio e se il percorso infernale era iniziato
verso il tramonto, quello purgatoriale all’alba, il paradiso non può avere inizio se non nel momento
di massima luce che richiama l’immagine della divinità.
Beatrice e l’attraversamento della terra del fuoco:
Ecco che Dante scorge Beatrice il cui sguardo è rivolto verso il sole. Beatrice fissa il sole, Dante fissa
Così dall’atto di Beatrice, nel momento stesso in cui lo percepì il pellegrino, si
Beatrice e poi il sole.
genera quello di Dante e come lei Dante fissa adesso gli occhi nel sole, al di là di ciò che è consentito
in terra agli occhi umani. Beatrice fissa il sole, il quale riflettendosi attraverso gli occhi, nella facoltà
immaginativa di Dante, induce quest’ultimo a compiere un atto simile, cioè a guardare il sole.
Beatrice si fa quindi mediatrice tra la divinità e l’uomo e trasmette attraverso di lui l’influsso divino
attraverso lo sguardo. Dante descrive questo gioco di sguardi tra Dante e Beatrice attraverso una
similitudine, quella della rifrazione dei raggi, un fenomeno naturale, per riportare in qualche modo
un’esperienza ultraterrena a termini terreni e umanamente comprensibili. La difficoltà che Dante
all’esperienza
incontra nel Paradiso è appunto questa: il rendere in forme sensibili e rapportabili
umana una realtà che trascende completamente i confini e le leggi del mondo terreno