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K
impiegata* (per la legge dei rendimenti marginali decrescenti, come descritto in precedenza).
Il prezzo del bene capitale K si deprezza inoltre ad un tasso δ, che rappresenta il tasso del vero
ammortamento economico.
*[Matematicamente ciò si traduce in una derivata seconda negativa].
Immaginiamo per semplicità che ci siano due sole possibilità di investimento: un investimento in
capitale produttivo K, tale per cui q sia il prezzo di un'unità di bene capitale (es. il prezzo di un
telaio in una seteria); oppure un investimento in titoli a reddito fisso, che rendono il tasso di
interesse di mercato, i.
L'ammontare dell'investimento in capitale produttivo è qK, e porta ad un flusso di ricavi pari al
prezzo per la quantità prodotta: pF(K).
L'investimento in titoli a reddito fisso porta invece ad un flusso di interessi dato da iqK.
Ipotizzando che l'imprenditore decida di investire in capitale produttivo, iqK rappresenta il costo-
opportunità dell'investimento, ossia il costo della miglior alternativa possibile, poiché l'imprenditore
investendo in telai rinuncia al flusso di interessi iqK.
A tale costo-opportunità si contrappone il costo effettivo dell'investimento, e se l'imprenditore
dovesse indebitarsi al fine di investire capitale, e chiedesse a prestito al somma qK che rappresenta
l'ammontare dell'investimento, il costo effettivo sarebbe proprio iqK.
Come detto, l'obiettivo dell'impresa è massimizzare il profitto, ma nella sua accezione di profitto
economico, che non coincide con il profitto contabile (su quest'ultimo le imprese pagano le
imposte). La differenza tra i due sta nel fatto che il profitto contabile è dato dalla differenza tra
ricavi e costi espliciti (ossia costi collegati ad esborsi in denaro), mentre il profitto economico è
dato dalla differenza tra ricavi e costi economici, dove i costi economici sono dati dalla somma di
costi espliciti e costi impliciti (tra questi ultimi rientrano il costo-opportunità, ed il profitto
dell'imprenditore*).
*[Per questo si dice che nell'equilibrio di lungo periodo, in concorrenza perfetta i profitti economici
sono nulli. L'imprenditore fa profitti (contabili), non lavora per nulla, ma il profitto economico (cioè
al netto tra l'altro del suo compenso) tende a zero].
Occorre dunque definire la funzione dei profitti economici, che risulta essere:
π = pF(K) – δK – iqK
dove p è il prezzo del bene Y di cui si è detto, F(K) è la quantità prodotta, δK è il vero
ammoramento economico, ed iqK è il costo dell'investimento (effettivo nel caso l'imprenditore si
indebiti, o rappresentante il costo-opportunità nel caso l'imprenditore non ricorra al debito).
Per trovare la funzione di massimo profitto bisogna porre la derivata prima della funzione di
profitto rispetto a K uguale a 0, ossia: δπ/δK = 0
pF (K) – δ – iq = 0
K
pF (K) = δ + iq
K
Come visto in precedenza F (K) è la derivata prima della funzione di produzione rispetto al
K
capitale, ossia il prodotto marginale del capitale, e moltiplicato per il prezzo p dà pF (K), che
K
rappresenta il valore del prodotto marginale del capitale.
I profitti sono dunque massimizzati quando il valore del prodotto marginale del capitale, che
abbiamo chiamato beneficio marginale del capitale, è uguale al costo d'uso del capitale, che tiene
conto dell'ammortamento economico e del costo finanziario d'interesse.
Se normalizziamo i prezzi ponendo per semplicità p = q = 1, la condizione di massimo profitto
diviene: F (K) = δ + i
K
F (K) – δ = i
K
Tale condizione è rappresentata graficamente dal Grafico 23, in cui K* è la quantità di capitale
ottimo da investire nell'impresa, ed in cui il tasso d'interesse i è rappresentato da una parallela all'
“asse x” in quanto dato e non modificabile dalle imprese nell'ipotesi di concorrenza perfetta in cui
stiamo lavorando.
Tutti i valori di K a sinistra di K* sono le cosiddetta unità infra-marginali, per cui il beneficio
marginale è maggiore del costo marginale; per K* il beneficio marginale è esattamente uguale al
costo marginale; mentre investire più di K* porterebbe a costi marginali superiori al beneficio
marginale.
Introducendo in tale quadro di partenza le imposte, l'equilibrio viene inevitabilmente a modificarsi;
vediamo come.
Va innanzitutto detto che è possibile considerare diverse imposte, e dunque diverse aliquote. Tra
queste:
• t = t → aliquota dell'imposta sugli utili ritenuti e distribuiti (non c'è distinzione delle
s d
aliquote, come nell'IRES)
• t → aliquota dell'imposta sugli interessi dei titoli a reddito fisso (es. 12,5% sui titoli di
i
Stato)
• t → aliquota dell'imposta personale dell'azionista persona fisica
p
Con il sistema classico, di doppia tassazione dei dividendi, l'aliquota complessiva che grava sui
dividendi risulta essere: t * = t + t (1 – t )
d s p s
avente sia una componente di imposta societaria, sia una componente di imposta personale, ed essa
(t *) si riduce in presenza di meccanismi quale il credito d'imposta.
d
In secondo luogo va inoltre tenuto presente che, come visto nella prima parte del corso analizzando
l'IRES nel più ampio quadro della tassazione societaria in Italia, definire la base imponibile delle
imposte societarie non è affatto semplice, ed è dunque necessario assumere alcune ipotesi, di cui poi
valutare gli effetti, per definire la base su cui applicare le aliquote di cui si è appena detto. Tali
ipotesi riguarderanno principalmente il fatto che:
• Gli ammortamenti fiscali possono essere diversi dal vero ammortamento economico
• Gli oneri finanziari possono essere non sempre interamente deducibili
Ipotizziamo per ora l'ammortamento fiscale coincida con il vero ammortamento economico, e che
gli oneri finanziari siano interamente deducibili..
Consideriamo inoltre che, a fronte della volontà di fare un investimento, un imprenditore può
decidere di finanziarlo (scelte da di finanziamento) con:
• Debito (e distribuzione totale degli utili)
• Emissione di azioni (e distribuzione totale degli utili)
[N.B.: Si noti come venga data per assunta, indipendentemente dalla scelta di finanziamento,
l'integrale distribuzione degli utili].
Combinando queste variabili prendiamo in analisi il caso un'impresa che voglia investire
finanziandosi con debito nell'ipotesi che l'ammortamento fiscale coincida con il vero ammortamento
economico, e che gli oneri finanziari siano interamente deducibili.
Posto che il costo del debito è in questo caso un costo esplicito, dunque un costo effettivo, che
effetto hanno le imposte sulle decisioni di investimento dell'impresa in un simile quadro?
La funzione dei profitti, prima scritta come π = pF(K) – δK – iqK, essendo stata riferita ad un
quadro senza imposte, indica il profitto economico al lordo delle imposta.
I profitti al netto dell'impresa societaria risultano invece:
π = (1 – t )[pF(K) – δK – iqK]
2 s
I dividendi al netto di tutte le imposte sono invece
: π = (1 – t )(1 – t )[pF(K) – δK – iqK]
3 p s
Poichè (1 – t )(1 – t ) = (1 – t *), la funzione da massimizzare è:
p s d π = (1 – t *)[ pF(K) – δK – iqK]
0 d
Come visto in precedenza, per massimizzare la funzione è necessario porne la derivata uguale a
zero, dunque: δπ /δ K = pF (K) – δ – iq = 0
0 K
pF (K) = δ + iq
K
Normalizzando i prezzi, assumendo p = q = 1 si ottiene:
F (K) – δ = i
K
L'equilibrio con imposte è, nel caso considerato, esattamente uguale a quello trovato in assenza di
imposte; la quantità di capitale immessa nell'impresa (K*), dunque, non varia.
Possiamo dunque affermare che se l'impresa si finanzia con debito, se l'ammortamento fiscale
coincide con il vero ammortamento economico, e se gli oneri finanziari sono interamente
deducibili, le imposte sono neutrali rispetto alla decisione di investimento.
Posto che siamo giunti a tale conclusione matematicamente, attraverso la funzione di massimo
profitto, la spiegazione economica che giustifica tale risultato sta nel fatto che il rendimento F(K) –
δ, dopo il pagamento delle imposte diminuisce, divenendo (1 – t *)(F(K) – δ). Allo stesso modo,
d
anche il tasso d'interesse i si riduce, e nella stessa misura, divenendo (1 – t *)i, dunque sull'unità
d
marginale, l'impresa non paga imposte; vengono invece pagate imposte sulle unità infra-marginali.
Come mostrato dal Grafico 24, in presenza di imposte i profitti si riducono; l'area del triangolo
FHD, rappresentante i profitti in presenza di imposte, è infatti minore dell'area del triangolo ABC,
che misura i profitti ante imposte.
Un simile risultato è fortemente dipendente dalle assunzioni fatte in merito alla base imponibile, che
nel caso esaminato coincide con il profitto economico; modificando tali assunzioni, infatti, varia
anche il risultato che si ottiene.
Per dimostrarlo, mantenendo invariata la forma di finanziamento (debito ed integrale distribuzione
degli utili), ipotizziamo ora che l'ammortamento fiscale coincida con il vero ammortamento
economico, ma che gli oneri finanziari (interessi passivi) non siano integralmente deducibili.
Anche in questo caso, per trovare la quantità ottima di capitale da investire nell'impresa è necessario
individuare la funzione di profitto da massimizzare. Data l'ipotesi per cui p = q = 1, e definita h la
quota di interessi deducibili, la base imponibile, per le assunzioni fatte, risulta:
[F(K) – δK – hiK]
Il profitto al lordo delle imposte, come già visto, è:
π = (1 – t )[F(K) – δK – iK]
p
L'imposta societaria è pari a: (t )[F(K) – δK – hiK], dunque la funzione di profitto al netto delle
s
imposte risulta: π = (1 – t )[F(K) – δK – iK] – (t )[F(K) – δ K – hiK]
p s
Come più volta già visto, per massimizzare la funzione è necessario porne la derivata uguale a zero,
dunque: δπ /δ K = (1 – t )[F (K) – δ – i] – (t )[F (K) – δ – hi] = 0
0 p K s K
Svolgendo i calcolo intermedi si giunge a:
F (K) – δ = i[(1 – t h)/(1 – t )]
K s s