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Consolatione ad Polybium, e poi facendone il protagonista di una feroce satira, l’Apokolokyntosis, a
distanza di soli dieci anni dal primo elogio, poco dopo la sua morte e dopo aver, tra l’altro, scritto
una solenne laudatio funebris, pronunciata in senato dal suo allievo e neo-imperatore Nerone.
Tuttavia, questa contraddittorietà si manifesta anche negli aspetti più intimi della sua personalità e
della sua produzione, poiché è evidente in lui come il richiamo ad una vita ascetica, già presenti in
età giovanile, si intersechi con la sua ambizione a ricoprire ruoli politici di spicco. Allo stesso
modo, il suo invito alla misura e all’autocontrollo viene puntualmente smentito sia dal suo stile di
scrittura, caratterizzato dall’enfasi, dalle figure retoriche, dalle perifrasi esclamative e interrogative
che ritroviamo nelle sue tragedie, dove la razionalità tanto decantata dal filosofo è destinata
inevitabilmente a soccombere di fronte alla forza irrazionale e travolgente delle passioni.
Forse è proprio questa sua contraddittorietà a rendere Seneca un pensatore moderno ed affascinante.
2 Tacito ne dà un intenso resoconto negli Annales (Ann. 15, 62-64). 4
Seneca e lo stoicismo
Seneca è uno dei principali esponenti dello stoicismo di epoca romana. Egli insiste sul carattere
pratico della filosofia: essa aiuta a vivere con razionalità e saggezza, liberando l’uomo dai timori
infondati che lo attanagliano; al contempo può essere un valido aiuto per l’uomo di governo,
affinché impari ad improntare la sua azione politica in base ai valori della ragione e del benessere
del popolo.
L’etica degli stoici è una teoria dell’uso pratico della ragione allo scopo di conciliarsi con il Logos
che governa il mondo. Per gli Stoici sia la natura universale sia la natura umana, che è parte di
quella universale, sono ordine e razionalità (Logos). Il mondo secondo gli Stoici è dominato quindi
da un ordine razionale prestabilito, una sorta di fato o provvidenza, in base al quale si verificano gli
eventi. Detto altrimenti, tutto ciò che accade obbedisce ad una connessione causale necessaria
prestabilita dalla divinità e il singolo essere umano non può sottrarsi alla catena di eventi che
costituiscono il destino.
In questo quadro teorico, la libertà dell’uomo consiste nell’adeguarsi a ciò che è già stato previsto
dal piano razionale che governa l’universo, cioè nell’assecondare il destino e non opporsi ad esso.
A tal proposito possiamo citare le consolationes che Seneca scrisse durante gli anni dell’esilio: in
queste opere l’autore si avvale di argomentazioni proprie dello stoicismo per sostenere che il saggio
deve dimostrare forza d’animo nelle situazioni difficili e deve tendere all’imperturbabilità e al
distacco dalle passioni. La Consolatio ad Helviam matrem fu scritta nel 41 d.C., agli inizi dell’esilio
per confortare la propria madre, scossa dalla cacciata del figlio da Roma: il filosofo sostiene che
l’esilio non è un male poiché il cambiamento di luogo e la condizione dell’esilio non turbano la
tranquillità d’animo del saggio, né gli precludono la possibilità di coltivare la virtù e il sapere. Il
saggio è autosufficiente e si accontenta del minimo indispensabile per sopravvivere: le condizioni
esteriori sono moralmente indifferenti, non inficiano la possibilità di raggiungere l’apatia e
l’atarassia.
Più controversa la Consolatio ad Polybium, scritta attorno al 44 d.C.: qui Seneca si propone di
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confortare il liberto Polibio , tra i collaboratori più influenti presso la corte dell’imperatore Claudio,
per la morte del fratello. Il filosofo riprende l’argomentazione tipicamente stoica secondo la quale
non ha senso temere la morte né disperarsi per essa, poiché rappresenta una tappa fondamentale ed
ineludibile della vita e parte integrante del logos che permea l’intero universo. In quest’opera sono
3 Si trattava di un liberto addetto agli archivi e alla cultura (a studiis) o forse alle suppliche (a libellis). 5
presenti delle adulazioni rivolte non solo al liberto Polibio e al fratello defuto, ma anche
all’imperatore, con riferimento alle sue vicende belliche vittoriose in Britannia.
Risulta evidente il carattere opportunistico non solo delle digressioni adulatorie inserite, ma
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dell’intera opera: Seneca si “sarebbe abbassato ad adulare un liberto” e ad encomiare il
responsabile del suo esilio pur di ricevere la grazia e rientrare a Roma, in netta contrapposizione
con i principi della morale stoica da lui teoricamente praticata e sostenuta in più opere.
Pochi anni dopo la Consolatio ad Polybium Seneca compose il De brevitate vitae: quest’opera di
genere protrettico vuole essere un’esortazione alla filosofia, un invito rivolto a giovani ed anziani a
dedicarsi alla coltivazione degli studi e al culto della saggezza, evitando di sprecare tempo ed
energie in inutili affanni, per poi rimpiangere il tempo perduto.
Lo scopo del vivere, secondo gli stoici, è dunque il raggiungimento della felicità che si persegue
vivendo “secondo natura”, ossia secondo ragione. L’uomo virtuoso deve coltivare la saggezza,
esercitare la ragione in ogni aspetto pubblico e privato della vita, dedicandosi allo studio e alla
conoscenza per poter comprendere il Logos e adeguare ad esso la propria volontà ed azione. Solo
così è possibile raggiungere la felicità.
Vivere secondo ragione non esclude la possibilità, per il saggio stoico, di prendere parte alle
vicende politiche del suo tempo. A tal proposito scrive Seneca:
Siamo soliti dire che il sommo bene è vivere secondo natura: la natura ci ha generati per
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entrambi questi fini, la contemplazione della realtà e l’azione . Epicuro dice: “il saggio non
prenderà parte alla vita dello Stato, a meno che non intervenga qualche novità straordinaria!”;
Zenone dice: “Prenderà parte alla vita dello Stato, a meno che qualche ostacolo non glie lo
impedisca”. L’uno cerca la vita ritirata di proposito, l’altro per un motivo particolare, ma quel
motivo è molto ampio. Se lo Stato è troppo corrotto perché lo si possa soccorrere, se è nelle
mani dei malvagi, il saggio non si adopererà invano né si sacrificherà senza poter minimamente
essere utile; se avrà poca autorità o scarse forse e lo Stato non sarà intenzionato ad accoglierlo,
se la cattiva salute lo ostacolerà, […] così non intraprenderà una strada che saprà essere per lui
impraticabile. […] All’uomo si richiede questo, che giovi agli altri uomini; se è possibile a
molti, se no, pochi, se neanche questo è possibile, giovi a chi gli è più vicino, se non è possibile
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a sé stesso.
4 P. Fedeli, Storia letteraria di Roma, F-lli Ferraro ed., 2004, p. 602.
5 Seneca, De otio, 5,1.
6 Epicuro nacque a Samo nel 341 a.C. Insegnò in varie località greche e successivamente si trasferì ad Atene. Qui nel
307 / 306 a.C. fondò il Giardino, una scuola lontana dal tumulto della vita pubblica cittadina e vicino al silenzio della
campagna. La vita politica, per il fondatore del Giardino, è sostanzialmente innaturale: essa comporta continui dolori e
turbamenti, compromettendo così l’atarassia e, quindi, la felicità. I piaceri ricavabili dalla vita politica (potenza, fama,
ricchezza) sono desideri non naturali né necessari, da qui l’ideale del «Vivi nascosto!» e la svalutazione della vita
associata. Zenone di Cizio intorno al 300 a.C. fondò una nuova scuola nell’agorà di Atene, lo Stoá poikíle, lett. portico
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Questo, a ben vedere fu proprio ciò che fece Seneca: prese parte alla vita politica e cercò prima di
istruire e formare e poi di consigliare il giovane imperatore Nerone. Successivamente, preso atto
che la situazione era incontrollabile e che i suoi consigli non erano più ascoltati, si ritirò a vita
privata. Il letterato difende tanto il dovere del saggio di intervenire per dare il proprio apporto alla
politica e alla società, quanto il diritto a non impegnarsi tout-court in essa e a rifugiarsi nello studio
e nella contemplazione, in piena coerenza con i principi dello stoicismo. Queste tematiche sono
trattate sia nel De otio, sia nel De tranquillitate animi: entrambe le opere risalgono al 62 d.C., al
tempo del ritiro di Seneca dalla vita politica attiva. Il saggio deve affiancare il principe nelle attività
di governo, lo deve educare e consigliare, pur nella consapevolezza che l’imperium è
completamente nelle sue mani.
La felicità non dipende dunque dalle ricchezze, né dalla gloria politica o dagli eventi che accadono
all’uomo, bensì dalla capacità di assumere il giusto atteggiamento nei confronti di ciò che accade.
Salute, onore, ricchezze sono preferibili alla malattia, al disonore e alla miseria ma, in ultima
analisi, sono moralmente indifferenti, non sono indispensabili per raggiungere la felicità.
Il saggio è felice quando si adegua all’ordine razionale e gode di una condizione di autosufficienza
e autarchia, a prescindere dalla sorte che gli è toccato vivere. Queste tematiche vengono trattate nel
De vita beata, opera nella quale Seneca intende difendersi dalle accuse di incoerenza di praticare
una filosofia ascetica e rigorosa, pur nel lusso, nelle ricchezze e negli agi ai quali non seppe mai
effettivamente rinunciare. Seneca rivendica il diritto di praticare la filosofia stoica pur nella sua
condizione favorevole: lo stoico “sa godere dei vantaggi della vita; non è un male, poi che sia ricco,
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perché almeno sarà capace di impiegare nel modo più saggio le sue ricchezze” .
Lo stoicismo inoltre nega il valore delle emozioni (páthos): esse non hanno alcun ruolo nell’ordine
razionale della realtà, poiché nascono da opinioni o giudizi dettati dalla leggerezza e dall’ignoranza
e sono paragonabili a “malattie”, errori della ragione. Solo lo stolto si lascia dominare dalle
passioni, il vero sapiente invece coltiva l’apatia, il totale distacco dalle emozioni. Solo nell’apatia,
nell’impassibilità, l’uomo può raggiungere la felicità e l’equilibrio razionale.
Il tema del controllo delle emozioni viene trattato sia nel De tranquillitate animi, sia De ira.
Quest’ultimo è composto da tre libri: i primi due risalgono al periodo precedente l’esilio, mentre il
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terzo è del 41. Le emozioni incontrollate sono caratteris