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CANTO SETTIMO
Ottava 1: “Intanto Erminia infra l’ombrose piante
D’antica selva dal cavallo è scorta,
né più governa il fren la man tremante,
e mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade si raggira e tante
Il corridor ch’in sua balia la porta,
ch’al fin da gli occhi altrui pur si dilegua,
ed è soverchio omai ch’altri la segua.”
C’è un richiamo molto forte all’incipit dell’Orlando Furioso.
Tasso sta riscrivendo l’incipit del Furioso.
Tasso finisce col canto precedente, sospende con tecnica ariostesca e dipende al
Canto Settimo, esattamente come il Furioso riprende la storia nel mezzo della fuga di
Angelica.
Qui fuga è la metafora dell’entrelacement che sorregge l’Orlando Furioso;
l’entrelacement che viene mostrato nella sua massima evidenza nel primo canto del
Furioso, è anche la metafora del disordine della vita, della casualità della vita e della
spinta pulsionale che muove tutti i personaggi.
Tasso fa questa sorta di tributo, ma anche risemantizza profondamente l’episodio.
Ottava 2: “Qual dopo lunga e faticosa caccia
Tornansi mesti ed anelanti i cani
Che la fera perduta abbian di traccia,
nascosta in selva da gli aperti piani,
tal pieni d’ira e di vergogna in faccia
riedono stanchi i cavalier cristiani.
Ella pur fugge, e timida e smarrita
Non si volge a mirar s’anco è seguita.”
Si nota il tema dello spavento: “ella pur fugge, e timida e smarrita non si volge a mirar
s’anco è seguita” (versi 7-8); c’è sempre il richiamo ad Angelica.
Ottava 3: “Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno
Errò senza consiglio e senza guida,
non udendo o vedendo altro d’intorno,
che le lagrime sue, che le sue strida.
Ma ne l’ora che ‘l sol dal carro adorno
Scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida,
giunse del bel Giordano a le chiare acque
e scese in riva al fiume, e qui si giacque .”
Marca il segno dell’erranza.
Ottava 4: “Cibo non prende già, ché de’ suoi mali
Solo si pasce e sol di pianto ha sete;
ma ‘l sonno, che de’ miseri mortali
è co ‘l suo dolce oblio posa e quiete,
sopì co’ sensi i suoi dolori, e l’ali
dispiegò sovra lei placide e chete;
né però cessa Amor con varie forme
la sua pace turbar mentre ella dorme.”
I primi due versi contengono un elemento che rimanda a Orlando, quando nella selva
smette di mangiare e di bere fino al deflagrare della pazzia.
Qui potremmo aspettarci questo esito, ma succede altro.
Erminia ha raggiunto quello che si può chiamare un Locus Amoenus. È arrivata sulle
rive del Giordano, che ha un valore simbolico fondamentale (battesimo nel Giordano,
tema della rinascita).
Questo è un luogo non toccato dalla guerra. Siamo di fronte a un luogo di estraneità
alla storia.
Siamo vicini a un luogo che è un tempo immobile, un luogo di pace.
Erminia finisce in questo luogo; ma c’è un altro fondamentale luogo estraneo alla
storia, che è invece il giardino di Armida, che è un luogo con una connotazione
profondamente negativa, rispetto alla sacralità del Giordano.
Si percepisce il fascino di Tasso per questi luoghi che si sottraggono alla violenza della
storia.
Se Gerusalemme è la meta destinata, l’approdo di una progressione lineare, rispetto al
quale ogni allontanamento è erranza e deviazione, quindi è errore, anche questi Loci
Ameni lo sono, con tutto il loro fascino.
Erminia si risveglia in questo luogo sacrale, e le si fanno incontro dei pastori; nel
sistema cristiano il pastore è figura positiva per eccellenza (basti pensare alla visita
dei pastori a Betlemme).
Ottava 5: “Non si destò fin che garrir gli augelli
Non sentì lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co’ i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
Alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami .”
Ottava 6: “Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti
Rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene,
che sembra ed è di pastorali accenti
misto e di boscareccie inculte avene.
Risorge, e là s’indrizza a passi lenti,
e vede un uom canuto a l’ombre amene
tesser fiscelle a la sua greggia a canto
ed ascoltar di tre fanciulli il canto.”
Ottava 7: “Vedendo quivi comparir repente
L’insolite arme, sbigottir costoro;
ma li saluta Erminia e dolcemente
gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro:
Seguite, dice, aventurosa gente
Al Ciel diletta, il bel vostro lavoro,
ché non portano già guerra quest’armi
a l’opre vostre, a i vostri dolci carmi.”
Ottava 8: “Soggiunse poscia: O padre, or che d’intorno
D’alto incendio di guerra arde il paese,
come qui state in placido soggiorno
senza temer le militari offese?.
Figlio, ei rispose, d’ogni oltraggio e scorno
La mia famiglia e la mia greggia illese
Sempre qui fur, né strepito di Marte
Ancor turbò questa remota parte.”
Al verso 5: parla il pastore anziano e si rivolge ad Erminia, scambiandola per un uomo
con l’armatura.
Si ha il tema della distanza dalla guerra e dalla storia.
Da notare l’aspetto delle greggi che sono rimaste illese; qui Tasso contrappone questo
Locus Amoenus e la vita pastorale, al tema delle corti.
Lo vediamo meglio dalle ottave 9 e 10.
Ottava 9: “O sia grazia del Ciel che l’umiltade
D’innocente pastor salvi e sublime,
o che, sì come folgore non cade
in basso pian ma su l’eccelse cime,
così il furor di peregrine spade
sol de’ gran re l’altere teste opprime,
né gli avidi soldati a preda alletta
la nostra povertà vile e negletta.”
C’è un idea di pastori che sono estranei alla violenza che invece colpisce i grandi.
Ottava 10: “Altrui vile e negletta, a me sì cara
Che non bramo tesor né regal verga,
né cura o voglia ambiziosa o avara
mai nel tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia ne l’acqua chiara,
che non tem’io che di venen s’asperga,
e questa greggia e l’orticel dispensa
cibi non compri a la mia parca mensa.”
La vita pastorale è tale che lui non brama nulla di regio.
Ottava 11: “Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro
Bisogno onde la vita si conservi.
Son figli miei questi ch’addito e mostro,
custodi de la mandra, e non ho servi.
Così me ‘n vivo in solitario chiostro,
saltar veggendo i capri snelli e i cervi,
ed i pesci guizzar di questo fiume
e spiegar gli augelletti al ciel le piume .”
Ottava 12: “Tempo già fu, quando più l’uom vaneggia
Ne l’età prima, ch’ebbi altro desio
E disdegnai di pasturar la greggia;
e fuggii dal paese a me natio,
e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia
fra i ministri del re fui posto anch’io,
e benché fossi guardian de gli orti
vidi e conobbi pur l’inique corti.”
Versi 1-4: riferimento al sonetto 1 del Canzoniere, con l’idea del cedimento ai desideri
di cui poi ci si pente (“quando più l’uom vaneggia”).
Il tema del “desio” è la spinta che muove al disordine.
Al verso 8: tema delle corti.
Ottava 13: “Pur lusingato da speranza ardita
Soffrii lunga stagion ciò che più spiace;
ma poi ch’insieme con l’età fiorita
mancò la speme e la baldanza audace,
piansi i riposi di quest’umil vita
e sospirai la mia perduta pace,
e dissi: O corte, a Dio. Così, a gli amici
boschi tornando, ho tratto i dì felici.”
Verso 7: il pastore ha abbandonato la corte ed è tornato a fare la vita pastorale.
La Gerusalemme Liberata è un testo encomiastico; eppure riporta una polemica contro
la vita delle corti.
Richiama un passo dell’Aminta in cui abbiamo un invettiva contro la vita della corte:
Andrai ne la gran Terra,
Ove gli astuti, e scaltri Cittadini,
E i cortegian malvagi molte volte
Prendonsi à gabbo, e fanno brutti scherni
Di noi rustici incauti. Però, figlio,
Và su l’avviso, e non t’appressar troppo
Ove sian drappi colorati, e d’oro,
E pennacchi, e divise, e foggie nove:
Ma sopra tutto guarda, che mal fato,
O giovenil vaghezza non ti meni
Al magazino de le ciancie. ah fuggi,
Fuggi quell’incantato alloggiamento.
Che luogo è questo? io chiesi. ed ei soggiunse,
Quivi habitan le maghe, che incantando
Fan traveder, e traudir ciascuno.
Ciò che Diamante sembra, ed oro fino,
È vetro, e rame, e quelle arche d’argento,
Che stimeresti piene di thesoro,
Sporte son piene di vesciche bugge;
Quivi le mura son fatte con arte,
Che parlano, e rispondono à i parlanti,
Né già rispondon la parola mozza,
Com’Echo suole ne le nostre selve,
Ma la replican tutta intiera intiera,
Con giunta anco di quel, ch’altri non disse.
I trespidi, le tavole, e le panche,
Le scranne, le lettiere, le cortine,
E gli arnesi di camera, e di sala,
Han tutti lingua, e voce, e gridan sempre.
Quivi le ciancie in forma di bambine
Vanno trescando, e, se un muto v’entrasse,
Un muto ciancerebbe à suo dispetto,
Ma questo è ’l minor mal, che ti potesse
Incontrar: tu potresti indi restarne
Converso in salce, in fera, in acqua, ò in foco,
Acqua di pianto, e foco di sospiri.
(Aminta I 2)
Quest’invettiva contro la corte è fatta da un personaggio profondamente negativo:
Mobso.
È un personaggio a cui viene tolta poi ogni credibilità; anzi la corte degli Este
nell’Aminta viene elogiata.
D’altronde l’Aminta è un testo teatrale, fatto per essere recitato a corte.
Siamo di fronte all’affidamento a personaggi negativi di posizione e di idee che
ritroviamo con accezione positiva in altri testi. Per esempio lo ritroviamo nelle parole
del pastore anziano nella Gerusalemme Liberata, che condanna le corti come il luogo
della falsità, dell’ipocrisia e della violenza.
È un aspetto molto importante per vedere l’ambiguità.
In questo luogo, Erminia resta per un po’ di tempo; spera di restare qua, ma in realtà
non può rimanere per sempre lì e torna nella storia. I