PER LE RIMENENZE
Nel processo di determinazione del costo delle rimanenze è fondamentale
individuare con precisione quali componenti possano essere inclusi nel valore dei
beni, così da ottenere una rappresentazione conforme ai principi contabili e
coerente con la natura del processo produttivo.
Le categorie rilevanti comprendono i costi accessori, gli oneri finanziari e i costi di
produzione.
Tra i costi accessori rientrano, innanzitutto, i costi di magazzinaggio, la cui
capitalizzazione è ammessa solo quando la fase di stoccaggio rappresenta un
momento necessario e funzionale del processo produttivo.
Normalmente, infatti, tali costi—che includono l’ammortamento o il canone di
locazione dei locali adibiti a magazzino, le spese di sorveglianza, le assicurazioni e
gli altri oneri legati alla gestione del deposito—sono considerati costi di periodo e
imputati direttamente a Conto Economico.
Tuttavia, esistono beni per i quali la conservazione prolungata costituisce un
passaggio essenziale della loro trasformazione: è il caso dei vini, dei liquori, dei
formaggi o dei salumi, che necessitano di lunghi periodi di stagionatura o
invecchiamento.
In questi contesti, lo stoccaggio diventa a tutti gli effetti parte del ciclo
produttivo, e i relativi costi possono essere capitalizzati, concorrendo così alla
formazione del costo dei beni.
A questi oneri si aggiungono altri costi accessori, come il trasporto fino al
magazzino e i dazi doganali o le assicurazioni legate all’acquisto dei materiali.
Una seconda categoria riguarda gli oneri finanziari, la cui capitalizzazione è
disciplinata dallo IAS 23.
In questo ambito, è fondamentale distinguere tra le diverse tipologie di oneri,
poiché non tutti possono essere inclusi nel costo dei beni.
Gli oneri finanziari si articolano infatti in oneri espliciti e oneri impliciti, ciascuno
caratterizzato da una specifica natura economica e da differenti effetti sulla
determinazione del valore delle rimanenze.
Gli oneri finanziari espliciti, quali gli interessi su finanziamenti contratti per
l’acquisizione o la produzione dei beni, possono essere inclusi nel costo delle
rimanenze quando si riferiscono a qualifying assets, ossia beni che richiedono
tempi di produzione o di maturazione significativamente lunghi.
Le condizioni richieste coincidono con quelle previste per le immobilizzazioni
materiali: gli oneri devono essere in grado di generare benefici economici futuri e
devono riguardare beni per i quali il prolungato periodo di lavorazione o
conservazione giustifica la capitalizzazione.
Per le rimanenze, ciò si verifica nei casi in cui il processo produttivo comprenda
fasi di invecchiamento o conservazione estesa.
Diverso è il caso degli oneri finanziari impliciti, che emergono quando la fornitura
è regolata da condizioni di pagamento insolite o eccessivamente dilazionate
rispetto alla prassi di mercato.
In tali circostanze, il prezzo richiesto dal fornitore incorpora una componente
finanziaria che deve essere scorporata, poiché non rappresenta un maggiore
costo del bene ma un onere finanziario da rilevare separatamente.
Se, ad esempio, un bene che normalmente viene venduto a 100 euro con
pagamento a 60 giorni è acquistato a 110 euro con pagamento a 300 giorni, la
differenza di 10 euro è un onere finanziario implicito e non può essere
capitalizzata.
Analogamente, le differenze di cambio, essendo componenti di natura finanziaria,
non incidono sul valore delle rimanenze.
Infine, assumono rilievo i costi di produzione, che includono il costo del personale
direttamente impegnato nel processo produttivo—comprese le funzioni di
supervisione—e le spese generali di produzione, ossia i costi indiretti imputabili
alle rimanenze.
Tra questi rientrano sia costi fissi sia variabili, come manutenzioni, ammortamenti
degli impianti, materiali indiretti e altri oneri industriali che concorrono alla
realizzazione del prodotto.
Nel complesso, la corretta imputazione dei costi al valore delle rimanenze richiede
un’attenta valutazione della natura dei costi e della loro effettiva connessione con
il processo produttivo.
Metodi di determinazione del costo
Nella determinazione del costo delle rimanenze, la scelta del metodo valutativo
dipende principalmente dalla natura dei beni oggetto di misurazione.
Per i beni non fungibili – cioè beni non intercambiabili, dotati di caratteristiche
specifiche e non assimilabili tra loro – nonché per le merci e i servizi prodotti
nell’ambito di progetti distinti, il criterio più appropriato è quello dei costi
specifici.
Tale metodo consente di attribuire a ciascun bene il costo effettivamente
sostenuto per la sua acquisizione o produzione, garantendo una correlazione
diretta e puntuale tra sostenimento del costo e singolo elemento di magazzino.
Si tratta, dunque, della soluzione più fedele quando il bene è unico o comunque
identificabile in modo individuale.
La situazione cambia radicalmente nel caso dei beni fungibili, ossia beni tra loro
indistinguibili, perfettamente sostituibili e spesso gestiti in massa.
In questi contesti risulta praticamente impossibile – o talvolta eccessivamente
oneroso – applicare il criterio dei costi specifici, poiché la natura del bene e le
modalità di stoccaggio non permettono di tracciare quale lotto sia
effettivamente rimasto in giacenza.
Si pensi, ad esempio, ai cereali immagazzinati in silos, al petrolio contenuto in
grandi serbatoi o a prodotti acquistati ripetutamente nel corso dell’anno a prezzi
variabili: identificare il costo preciso di ogni singola unità sarebbe tecnicamente
insostenibile.
Per tali beni è necessario ricorrere a criteri convenzionali di rotazione del
magazzino, che consentono di attribuire un costo alle rimanenze sulla base di
ipotesi contabili coerenti.
Perciò, lo IAS 2 ammette esclusivamente due metodologie: il FIFO (first in, first
out) e il costo medio ponderato.
Il FIFO si fonda sulla convenzione secondo cui i primi beni a entrare sono anche i
primi a uscire; ne deriva che le rimanenze finali sono valorizzate ai costi più
recenti, quindi più vicini ai valori correnti.
Il metodo del costo medio ponderato, invece, determina un valore unitario
basato sulla media dei costi dei beni disponibili nel periodo, ponderati per le
quantità acquistate o prodotte: un sistema che, pur non cogliendo perfettamente
le variazioni recenti dei prezzi, offre una valutazione equilibrata e non distorta.
Un elemento centrale nella disciplina internazionale riguarda, inoltre,
l’abbandono del metodo LIFO (last in, first out), in passato previsto come
alternativa consentita.
Lo IAS 2 ne ha eliminato l’utilizzo poiché il LIFO tende a mantenere in rimanenza
beni valorizzati ai costi più remoti, spesso molto distanti dai valori correnti di
mercato.
Ciò comprometterebbe la rappresentazione fedele della situazione patrimoniale,
obiettivo cardine dei principi contabili internazionali, orientati alla valorizzazione
degli elementi patrimoniali a valori quanto più possibile aggiornati.
Con il LIFO, infatti, i costi più recenti vengono attribuiti alle uscite, lasciando in
magazzino valori obsoleti, talvolta risalenti a molti esercizi precedenti.
Al contrario, il FIFO e il costo medio ponderato garantiscono valori di magazzino
più vicini ai prezzi attuali, evitando le distorsioni proprie del LIFO.
In questa prospettiva, la scelta dei criteri di valutazione non rappresenta una mera
formalità tecnica, ma uno strumento per assicurare che le rimanenze riflettano
valori coerenti e attendibili, in linea con i principi di rappresentazione fedele e
prevalenza della sostanza sulla forma che caratterizzano gli standard
internazionali.
LIFO E FIFO
Per comprendere appieno gli effetti dei diversi criteri di valutazione delle
rimanenze sul bilancio, è utile partire da una riflessione concettuale prima ancora
che numerica.
I metodi FIFO e LIFO presentano infatti impatti profondamente diversi sia sullo
Stato Patrimoniale sia sul Conto Economico, e la scelta dell’uno o dell’altro può
condurre a rappresentazioni contabili anche molto distanti tra loro.
In particolare, il FIFO tende a privilegiare una corretta e aggiornata
rappresentazione patrimoniale, mentre il LIFO, seppur più coerente nella
correlazione tra ricavi e costi a livello di Conto Economico, può generare
significative distorsioni patrimoniali.
Proprio questa asimmetria spiega perché il LIFO, in passato ammesso dallo IAS 2,
sia stato definitivamente eliminato: l’obiettivo dei principi contabili internazionali
è infatti quello di garantire una rappresentazione il più possibile fedele e attuale
del patrimonio aziendale.
Per rendere più chiara questa dinamica, consideriamo un esempio semplificato.
Si ipotizzi un’impresa al primo anno di attività che effettua due acquisti di merci:
un primo acquisto di 100 unità a 10 euro ciascuna (totale 1.000 euro) e un
secondo acquisto di ulteriori 100 unità a 15 euro ciascuna (totale 1.500 euro).
Il costo complessivo degli acquisti ammonta quindi a 2.500 euro.
Nel corso dell’esercizio, l’impresa vende 150 unità al prezzo di 20 euro l’una,
generando ricavi per 3.000 euro.
Le rimanenze finali sono pari a 50 unità.
Applicando il metodo LIFO, secondo cui gli ultimi beni entrati in magazzino sono i
primi a essere venduti, le rimanenze finali vengono valutate ai costi più remoti.
Le 50 unità rimanenti sono dunque valorizzate a 10 euro l’una, per un totale di
500 euro.
In questo modo, il costo del venduto risulta pari a 2.000 euro (2.500 meno 500).
La logica retrostante è chiara: nel Conto Economico vengono contrapposti ricavi
recenti e costi recenti, generando un risultato economico più prudenziale.
L’utile netto si attesta infatti a 1.000 euro.
Tuttavia, proprio perché le rimanenze sono iscritte in bilancio a valori ormai
superati, il LIFO può produrre una rappresentazione distorta dello Stato
Patrimoniale, soprattutto in contesti caratterizzati da prezzi crescenti: in
magazzino restano infatti i beni “più vecchi”, potenzialmente acquistati a valori
molto lontani da quelli correnti.
Il metodo FIFO segue una logica opposta: i primi beni acquistati sono anche i
primi a essere ceduti.
Le 50 unità in rimanenza vengono quindi valutate al prezzo dell’ultimo acquisto,
pari a 15 euro l’una, per un totale di 750 euro.
In questo caso, il costo del venduto scende a 1.750 euro e l’utile netto sale a 1.250
euro.
A livello di Conto Economico emerge quindi una minore prudenza, poiché i ricavi
correnti vengono confrontati con costi meno recenti.