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C’è poi un altro aspetto del Concilio lateranense III, ossia quello (p. ) che si è peraltro

conservato il testo dell’orazione inaugurale pronunciata dal vescovo di Assisi Rufino, con

accenti che sottolineano il primato della Chiesa di Roma e il suo arbitrium et potestas

(giudizio e potere; ossia imperium) nella convocazione dei concili, nonché

nell’emanazione e nella riforma delle norme regolanti la vita dei fedeli (canones novos

condere). Si dà solo al Papa il potere di convocare il Concilio (quindi primato della Chiesa

di Roma e primato, al suo interno, del Papa di arbitrium e potestas) nonché

nell’emanazione delle norme regolanti la vita dei fedeli. Notiamo subito il verbo condere:

ebbene, dal Decreto di Graziano (nel passo di cui sopra alla nostra analisi) al Concilio

lateranense III, la decretistica – scuola dei canonisti che studiano il Decreto – ha preso

a interpretare in modo rigido quel canone grazianeo e lo ha modificato in via

interpretativa. E, rispondendo al dictum di Graziano, pare abbia rifiutato l’idea che il

concilio non abbia vis costituendi: qui si dice espressamente che il concilio ha la forza

di creare nuovo diritto (vent’anni dopo il dictum di Graziano che cristallizza il principio

secondo cui il concilio non avrebbe vis costituendi, ma solo la possibilità di imporre ciò

che altrove è stato stabilito come precetto). Invero, si dice qui, la Chiesa di Roma ha la

possibilità di creare nuove leggi.

In realtà la chiesa di Roma ha la possibilità di creare nuove leggi. In tanto in quanto le

regole vengono recepite da tutti, queste diventano regole della Chiesa.

In questa breve parentesi di anni (ca 1150-1200) l’istituto conciliare assume le forme

della ecumenicità: i canoni presso il concilio generale fissati sono recepiti da tutte le

Chiese allo stesso modo.

A supporto di questa attività – di creazione di diritto, in fin dei conti – si introduce il

principio maggioritario (di cui al canone I, noto come Constitutio licet de evitanda, con

cui si pone fine alle elezioni di Pontefici in discordia che fino a lì erano state realizzate a

causa dell’ingerenza pressante dell’aristocrazia romana in seguito alla de-laicizzazione

dell’elezione del Papa), a suggellare la validità dell’elezione pontificia (maggioranza

qualificata dei degli elettori).

Il Concilio Lateranense III (che è ecumenico) del 1179 ci interesse anzitutto rispetto

al suo canone I (non tanto rispetto al suo merito, che riprende il periglioso problema

delle discordie intime all’elezione del sommo pontefice). Il problema dello scisma era

ancora vivido (con un impatto politico altissimo, laddove il potere secolare riconosca un

Papa e non l’Antipapa, in un mondo nel quale i due poteri sono intersecati per necessità).

L’interruzione dell’unità del Chiesa, ad un primo livello concettuale ed esplicativo, non

è tuttavia il solo (e il maggiore) tra gli effetti generati dallo scisma, essendo più rilevante

la spaccatura che questo comporta per il potere secolare (laddove i due poteri sono

fortemente interrelati, e ne risente l’Imperatore) e le conseguenze che questa

spaccatura secolare può ricondurre sulla Chiesa. La Chiesa infatti non era rimasta

indebolita come Chiesa-istituzione, giacché a contare era comunque l’obbedienza

romana (quella che ormai aveva conquistato il posto di preminenza; l’autorità pontificale

apostolica non ne esce scalfita). Paradossalmente infatti, lo scisma dimostra che il Credo

petrino della prima (e sola) Roma (primato dell’honos) si è ormai consolidato. La doppia

elezione non incide più di tanto sulla Chiesa-istituzione (sebbene sia pur sempre un

problema per la unicità del capo del corpus), ma incide sull’Impero e sul potere secolare

(che di frammenta nell’appoggiare ora questo ora quel Papa). E, al contrario, nel lungo

periodo anche la Chiesa-istituzione – non più unitariamente appoggiata dall’Impero, che

si faziona – rischia di essere condotta all’indebolimento. In quel contesto (oggi non

potrebbe essere così in ragione della separazione tra i poteri; la presenza di due Papi di

per sé non creerebbe scisma) lo scisma sarebbe inevitabile. Lo scisma è un problema

di obbedienza, non di elezione: se anche vi fossero più Papi e tutti ne riconoscessero

solo uno, non si avrebbe scisma (ma solo eventualmente una disorganizzazione). Il vero

problema è quella della obbedienza (a due Papi diversi) che diventa essenziale in un

contesto di mancata separazione tra temporale-spirituale quale è quello medioevale.

Ciò che merita però di essere bene messo in luce è che lo scisma non si ha tanto con

riferimento interno alla Chiesa, quanto rispetto ai poteri civili (che riconoscono

obbedienza a questo o a quel Papa). Lo scisma è quindi una questione tutta politica in

un sistema di difettosa separazione tra spirituale e temporale. È banale dire che la

presenza di due Papi comporta di per sé lo scisma (certo ne è condizione necessaria,

ma non spiega da sé sola l’interezza del fenomeno; lo scisma deriva dalla

diversificazione di obbedienze politiche).

Il canone I ci colpisce però non per il problema di merito, ma per il linguaggio che usa.

Il canone ci dà il senso profondo del peso concettuale che la fonte «canone conciliare»

ha assunto nel 1179 (anno, quello in cui si tiene l’assise conciliare, in cui si ha la prova

che esso sia divenuto ormai legge). Non si tratta più di quel vecchio modello di canone,

recepito dalle Chiese-locali (quod alias statum est). Il concilio, con l’approvazione del

Papa, pare si stia approssimando a divenire lo strumento a mezzo del quale il Papa si

fa legislatore. Si parla di clausola complementare (una sorta di neo-introdotto comma).

Non è un caso che la mancata ricezione inizi a valere di qui come formale opposizione

al Pontefice.

Si dice che, in caso di discordia sull’elezione, sia considerato romano Pontefice (romano:

quello al quale soltanto si deve obbedienza) quello che è stato eletto e riconosciuto dai

terzi (⅔). Si formalizza un vagito di quella che è, nello Stato moderno, la legittimità

dell’elezione del capo.

Non era scontato che la maggioranza qualificata dovesse prevalere. Per ora essa è

costruita sul numero (maior pars), ma più avanti andrà anche sulla sanior pars (la

qualità in termini di autorevolezza: la parte ritenuta più autorevole, ad es. i più anziani,

qualifica - insieme col numero - la maggioranza). In caso di discordia, saranno più avanti

i soli cardinali (sanior) a scegliere, con maggioranza dei il romano Pontefice.

⅔,

Il linea generale il principio della maior et sanior pars può modularsi. La sanior pars può

costituirsi anche in relazione alla maggiore o minore dignitas (e non all’età) del soggetto

cardinale (dal più alto in grado: vescovo, presbitero, diacono). Questo meccanismo

complesso mette in relazione la maior pars con la sanior pars. Se qualcuno si arrogasse

il titolo di vescovo per cambiare le maggioranze, sia scomunicato. Si vede lo sforzo della

Chiesa di darsi norme sull’elezione (legittima) del capo.

Nel caso di controversie, si ha finanche un tribunale chiamato a decidere (giudizio

dell’autorità superiore): vi è una legge elettorale con un tribunale che sorveglia e

garantisce il meccanismo. Il principio di maggioranza è risolto logicamente dopo la

l’avvenuta risoluzione del problema della laicizzazione dell’elezione (risoluzione che era

avvenuta col decreto imperiale di Nicolò II nel 1054).

Il concilio Lateranense III è il primo concilio ecumenico, ma ancora è generale solo

perché i canoni sono inviati a tutte le Chiese locali che devono recepirlo. A partire dal

Concilio lateranense IV i vescovi sono chiamati in adunanza a Roma: di qui in poi la

generalità passa attraverso la fisica compresenza dei vescovi nel medesimo luogo.

È importante far luce su come si addiviene al principio maggioritario, essendo lo stesso

estremamente importante nella legittimazione del potere. Il principio fa prevalere il

numero, come può facilmente intuirsi.

Va però fatta luce sul principio della sanior pars, principio che non riferisce al numero,

bensì alla opinione preferibile in quanto più sana. Si tratta evidentemente di un criterio

impervio. Non che il criterio del numero lo sia di meno; si sa che questo, quando assurge

a criterio di maggioranza, può condurre alla dittatura della maggioranza, acquisendo

un’idea forza in tanto quanto sostenuta dal numero, indipendentemente dalla forza del

pensiero. È importante porre dunque l’elemento numerico in relazione con la sanior pars

(i problemi del criterio numerico vanno dibattuti in relazione al criterio della qualità del

giudizio espresso; sono entrambi criteri che portano sì problemi, ma su cui vale la pena

di riflettere).

Non è difficile comprendere come si possa originare la prevalenza del numero. Più

difficile è comprendere il criterio della validità del giudizio espresso in relazione alla

valutazione della bontà del giudizio. Come stabilire la migliore qualità del giudizio

espresso, prescindendo dal numero dei soggetti che lo esprimono?

Si è fatto riferimento alla dignità della maggiore carica, che conduce con sé la maggior

autorevolezza nell’esprimere il giudizio. Dobbiamo però capire come nasce in seno alla

Chiesa questo criterio così eccentrico, che sottolinea di far prevalere la scelta giusta

sulla stolta (ma chi stabilisce quale sia quella giusta?).

Per comprendere bene il tutto, bisogna riecheggiare il problema dell’unanimità. Mentre

per noi moderni il criterio del numero risponde delle esigenze della pluralità di opinioni

tipiche del contesto democratico (dove l’opinione di minoranza concorre, con una sua

rilevanza, a introdurre una dialettica coi più). Nella nostra mentalità giuridico-sociale,

l’unanimità ha il sapore del totalitarismo e il criterio del numero prevale perché riflette

la dialettica tra diverse opinioni (il numero maggiore non toglie di mezzo il numero

minore; nella dialettica dei numeri, il meno mette in discussione il più).

Nel Medioevo invece il valore da tutelare non era quello della pluralità ma quello della

unanimità. Ciò cui aspira il Medioevo è l’unità, pure nella pluralità degli ordinamenti

tipica della cultura giuridica medioevale: questa è tutta tenuta insieme dall’unità (essa

figurante nell’Impero e

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Scienze giuridiche IUS/19 Storia del diritto medievale e moderno

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher makil_ di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del diritto medievale e moderno II e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Trento o del prof Natalini Cecilia Frida.
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