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Mercato Vecchio, costui era sopra un paniere di fichi, e dicea alla forese:
— O donna, quante fiche date vui per un dinaro?
E comprandole le mangiava in piazza.
Le cose stratte fuori di forma, e nuove di scienza, e con sciocchezza
adornate nelle sue prediche, furono tante che lingua appena le potrebbe
contare, non che io scrivere. Tanto dico che, essendo costui così scorto, la
gente lasciava l’altre predicazioni, e correano alla sua; essendogli fatte alcu-
na volta di nuove cose, e fra l’altre gli vidi un dì conficcare la cappa su le
sponde del pergamo, e altre cose assai; e tanto se n’avvedea dell’altrui beffe
quanto farebbe una bestia.
E questi tali ci ammaestrano spesse volte, e noi così appariamo che
manco fede abbiamo l’un dì che l’altro.
Questo frate tenea oppinione che quando il nostro Signore andò in
cielo che n’andasse così veloce e ratto come avete udito. Uno mio amico
veggendo il dì dell’Ascensione all’ordine de’ frati del Carmine di Firenze,
che ne faceano festa, il nostro Signore su per una corda andare in su verso il
tetto, e andando molto adagio, dicendo uno:
— E’ va sì adagio che non giugnerà oggi al tetto.
E quel disse:
— Se non andò più ratto, egli è ancor tra via.
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Boninsegna Angiolini, essendo in aringhiera bonissimo dicitore, su quella
ammutola come uomo balordo, e tirato pe’ panni, mostra agli uditori nuova
ragione di quello.
Anticamente nella città di Firenze si ragunava il consiglio in San Pie-
ro Scheraggio, e ivi si ponea o era di continuo la ringhiera; di che, essendo
nel detto luogo ragunato una volta il consiglio ed essendo fatta la proposta,
com’è d’usanza, Boninsegna Angiolini, savio e notabile cittadino, si levò, e
andò su la ringhiera, e cominciando il suo dire bene e pulitamente, com’era
uso, come fu a un passo dove conchiudere dovea quello ch’egli avea detto,
e quel subito, com’uomo aombrato, non dice più; ma sta su la ringhiera
buona pezza, e alcuna cosa non dicea. Maravigliandosi gli uditori, e
spezialmente gli signori Priori che erano di rincontro a lui, mandorono un
loro comandatore a Boninsegna a dirli che seguisse il suo dire; e ’l
comandatore subito va appiè della ringhiera, e tirando Boninsegna pel
gherone, dice per parte de’ Signori, che segua il suo dire. E Boninsegna, un
poco destatosi, dice:
— Signori miei, e savi consiglieri, io venni in questo luogo per dire il
mio parere su le vostre proposte, e così avea fatto insino che io giunsi al
passo dov’io ammutolai. E dicovi, Signori, che non che io mi ricordi di cosa
che io dovessi dire, ma io sono quasi uscito di me medesimo, veggendo i
goccioloni che in quello muro che m’è dirimpetto sono dipinti; ché per
certo e’ sono i maggiori goccioloni che io vedessi mai. E ancora c’è peggio,
che morto sia a ghiado il dipintore che gli dipinse, che dovett’esser forse
Calandrino che fece loro le calze vergate e scaccate; sappiate, Signori, chi
mai portò calze così fatte? di che io vi dico, Signori, che mi si sono sì
traversati nel capo, che se non escono, né ora né mai non potrò dire cosa
che io voglia.
E scese della ringhiera.
A’ Signori e a quelli del consiglio parve questa nuova cosa, e ciascuno
ridendo guatava quelli goccioloni. Chi dice:
— O bene! non è egli una nuova cosa a vederli?
L’altro dicea:
— Io non vi posi mai più mente; chi sono elli?
L’altro dicea:
— E’ si potrebbe dire di quelle, che disse una volta uno Sanese sul
campo di Siena. Passando uno, che era vestito mezzo bianco e mezzo nero,
tutto da capo infino a piede, eziandio coreggia e scarpette; e l’uno disse:
“Chi è quello?”, e ’l Sanese rispose: “E’ tel dice”; io non so chi costoro
siano, ma e’ tel dicono.
L’altro dicea:
— E’ sono profeti.
E l’altro dicea:
— E’ sono patriarchi
Come che si sia, e’ sono lunghissimi, come ancora oggi si vede, dallo
spazzo insino al tetto; e considerandogli ciascuno, come gli considerò
Boninsegna, forse che quello che intervenne a lui interverrebbe a molt’al-
tri, e spezialmente veggendogli con le calze vergate e scaccate.
E però veramente al dicitore, che ha a dire bene alcuna cosa, non gli
conviene avere l’animo né il pensiero se non solo a quello che dé’ dire, però
che ogni piccola cosa, che viene alla mente fuori della sua diceria, lo impe-
disce per forma che spesse volte rimane in su le secche, ed è incontrato già
a perfetti dicitori.
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Dante Allighieri fa conoscente uno fabbro e uno asinaio del loro errore, perché
con nuovi volgari cantavano il libro suo.
Lo eccellentissimo poeta volgare, la cui fama in perpetuo non verrà
meno, Dante Allighieri fiorentino era vicino in Firenze alla famiglia degli
Adimari; ed essendo apparito caso che un giovane cavaliere di quella fami-
glia, per non so che delitto, era impacciato, e per esser condennato per
ordine di justizia da uno esecutore, il quale parea avere amistà col detto
Dante, fu dal detto cavaliere pregato che pregasse l’esecutore che gli fosse
raccomandato. Dante disse che ’l farebbe volentieri. Quando ebbe desina-
to, esce di casa, e avviasi per andare a fare la faccenda, e passando per porta
San Piero, battendo ferro uno fabbro su la ’ncudine, cantava il Dante come
si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando,
che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altro, se
non che s’accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri con che
facea l’arte; piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tanaglie e
getta per la via, piglia le bilance e getta per la via, e così gittò molti ferramenti.
Il fabbro, voltosi con uno atto bestiale, dice:
— Che diavol fate voi? sete voi impazzato?
Dice Dante:
— O tu che fai?
— Fo l’arte mia, — dice il fabbro, — e voi guastate le mie masserizie,
gittandole per la via.
Dice Dante:
— Se tu non vuogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie.
Disse il fabbro:
— O che vi guast’io?
Disse Dante:
— Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu
me la guasti.
Il fabbro gonfiato, non sapendo rispondere, raccoglie le cose e torna
al suo lavoro, e, se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò
stare il Dante; e Dante n’andò all’esecutore, com’era inviato. E giugnendo
all’esecutore, e considerando che ’l cavaliere degli Adimari che l’avea prega-
to, era un giovane altiero e poco grazioso quando andava per la città, e
spezialmente a cavallo, che andava sì con le gambe aperte che tenea la via,
se non era molto larga, che chi passava convenìa gli forbisse le punte delle
scarpette; e a Dante che tutto vedea, sempre gli erano dispiaciuti così fatti
portamenti; dice Dante allo esecutore.
— Voi avete dinanzi alla vostra Corte il tale cavaliere per lo tale delitto; io
ve lo raccomando, come che egli tiene modi sì fatti che meriterebbe maggior
pena; e io mi credo che usurpar quello del Comune è grandissimo delitto.
Dante non lo disse a sordo; però che l’esecutore domandò che cosa era
quella del Comune che usurpava. Dante rispose:
— Quando cavalca per la città, e’ va sì con le gambe aperte a cavallo, che
chi lo scontra conviene che si torni adrieto, e non puote andare a suo viaggio.
Disse l’esecutore:
— E parciti questo una beffa? egli è maggior delitto che l’altro.
Disse Dante:
— Or ecco, io sono suo vicino, io ve lo raccomando.
E tornasi a casa, là dove dal cavaliere fu domandato come il fatto stava.
Dante disse:
— E’ m’ha risposto bene.
Stando alcun dì, il cavaliere è richiesto che si vada a scusare dell’inquisi-
zioni. Egli comparisce, ed essendogli letta la prima, e ’l giudice gli fa leggere la
seconda del suo cavalcare così largamente. Il cavaliere, sentendosi raddoppiare
le pene, dice fra sé stesso: “Ben ho guadagnato, che dove per la venuta di Dante
credea esser prosciolto, e io sarò condennato doppiamente”.
Scusato, accusato, che si fu, tornasi a casa, e trovando Dante, dice:
— In buona fé, tu m’hai ben servito, che l’esecutore mi volea
condennare d’una cosa, innanzi che tu v’andassi; dappoi che tu v’andasti,
mi vuole condennare di due —; e molto adirato verso Dante disse: — Se
mi condannerà, io sono sofficiente a pagare, e quando che sia ne meriterò
chi me n’è cagione.
Disse Dante:
— Io vi ho raccomandato tanto, che se fuste mio figliuolo più non si
potrebbe fare; se lo esecutore facesse altro, io non ne sono cagione.
Il cavaliere, crollando la testa, s’andò a casa. Da ivi a pochi dì fu
condennato in lire mille per lo primo delitto, e in altre mille per lo cavalcare
largo; onde mai non lo poté sgozzare né egli, né tutta la casa degli Adimari.
E per questo, essendo la principal cagione, da ivi a poco tempo fu per
Bianco cacciato di Firenze, e poi morì in esilio, non sanza vergogna del suo
Comune, nella città di Ravenna.
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Dante Allighieri, sentendo uno asinaio cantare il libro suo, e dire: arri; il per-
cosse dicendo: cotesto non vi miss’io; e lo rimanente come dice la novella.
Ancora questa novella passata mi pigne a doverne dire un’altra del
detto poeta, la quale è breve, ed è bella. Andandosi un dì il detto Dante per
suo diporto in alcuna parte per la città di Firenze, e portando la gorgiera e
la bracciaiuola, come allora si facea per usanza, scontrò uno asinaio, il quale
avea certe some di spazzatura innanzi; il quale asinaio andava drieto agli
asini, cantando il libro di Dante, e quando avea cantato un pezzo, toccava
l’asino, e diceva:
— Arri.
Scontrandosi Dante in costui, con la bracciaiuola li diede una grande
batacchiata su le spalle, dicendo:
— Cotesto arri non vi miss’io.
Colui non sapea né chi si fosse Dante, né per quello che gli desse; se
non che tocca gli asini forte, e pur:
— Arri, arri.
Quando fu un poco dilungato, si volge a Dante, cavandoli la lingua,
e facendoli con la mano la fica, dicendo:
— Togli.
Dante veduto costui, dice:
— Io non ti darei una dell