
Nel racconto inserito nella raccolta, che Ruben ha intitolato ‘The best time of my life’, l’autore parla di un incontro realmente avvenuto tra lui e una ragazza ucraina in un parco di Milano. La scena, quasi surreale per le modalità e il dialogo intavolato tra i due, è pregna di significato e si presta a diversi livelli di lettura che insieme restituiscono la complessità della storia raccontata a Ruben dalla giovane.
Ruben racconta quindi di non aver mai spiccato a scuola, restando nella media e preferendo agli interminabili pomeriggi di studio sui libri, le uscite con gli amici o le passeggiate per Trieste; "è più utile sbagliare, ubriacarsi, imboccare vicoli ciechi" piuttosto che rinchiudersi a casa per immolare la propria anima a raggiungere voti altissimi, rivendica il giovane autore nell'intervista di seguito, e quindi afferma, suggerendo ai lettori di Skuola.net di fare altrettanto, con convinzione: "ho raccolto molto di più dall’attivismo studentesco, dallo sport, da un carnevale pieno di pioggia e gente improbabile che da una lezione d’italiano fatta senza amore."
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Da dove nasce il tuo interesse per la scrittura?
"Ho sempre amato leggere e fantasticare: ogni lettore almeno una volta nella vita si chiede se sia in grado di scrivere pure lui. I più stupidi provano a farlo sul serio. Sono tra questi? Ci provo. In verità non è così facile scrivere, io faccio piuttosto fatica, è un’attività noiosa e sedentaria, però ci finisco spesso, anzi quasi sempre. Forse è una necessità. “Non amo scrivere, amo aver finito di scrivere” è una bella frase che mi porto sempre dietro, anche se non ricordo chi l’abbia detta. È vero: il risultato è sempre più soddisfacente del processo."
Durante gli anni di scuola come andavi in italiano? Hai mai avuto particolari riconoscimenti dai tuoi professori o ti hanno aiutato in qualche modo a coltivare questa tua passione?
"Al liceo in italiano andavo abbastanza bene, ma c’era chi andava meglio di me. Nelle altre materie ero abbastanza medio, su alcune anche mediocre (greco, latino, soprattutto fisica). Preferivo dedicare il tempo rimasto alle attività “extracurricolari” o a uscire con gli amici, fare sport o lunghe passeggiate per Trieste – che è una bella città, e se le merita. Vivere fino all’osso quegli anni, credo, essere curiosi di ogni cosa, è più utile che immolarsi anima e corpo solo e soltanto allo studio. Anche sbagliare, ubriacarsi, imboccare vicoli ciechi: ci sarà altro tempo per accumulare informazioni, poi, ma la vita succhiata a sedici anni è speciale (pure se imperfetta); soprattutto per chi vuole raccontare - s’impara l’arte dell’osservazione: ho raccolto molto di più, penso, dall’attivismo studentesco, dallo sport, da un carnevale pieno di pioggia e gente improbabile che da una lezione d’italiano fatta senza amore."
E’ il primo racconto che scrivi? Prima di approdare ad Accento Edizioni hai scritto altro o pubblicato qualche contenuto online?
"Non è il primo racconto che scrivo ma è il primo pubblicato. Prima avevo dalla mia solo una sceneggiatura per un cortometraggio (non so se vale), qualche breve e illeggibile testo teatrale (tenuto per me, e spero perso). Durante la pandemia, però, con un paio di amici avevamo un gruppo Whatsapp, nel quale per noia (ma pure per tirarcela un po’, dai) ogni settimana ci si obbligava a mandarci un racconto che avevamo scritto. Un esercizio utilissimo, devo dire. Più si produce, anche se talvolta solo in termini quantitativi, più si migliora. "
Il tuo scritto è autobiografico e chiunque lo legga ha ben chiaro come mai tu abbia deciso di mettere nero su bianco proprio quell’incontro particolare, ma è stato difficile scrivere e riportare, rendere al meglio, gli istanti che hai vissuto con quella ragazza? Come ti sei sentito mentre scrivevi ciò che la ragazza ucraina ti ha trasmesso, non solo con le parole?
"L’incontro con la ragazza è reale, e mi ha turbato moltissimo. È proprio da questo nucleo di turbamento che ho iniziato a scrivere, per sbrogliare la matassa, per dare un senso al mio disagio. Più tardi, anche per dargli forma e struttura. Qualcosa, come è inevitabile, ho inventato: ma quel centro di inquietudine, soprattutto emotiva, ho fatto il possibile perché restasse a fondamento del racconto. Era il motivo per cui quella storia andava raccontata. Possono capitare momenti in cui la verità spietata del mondo ti si schianta addosso: ecco, mi sono sentito così, innocente e stupido nel mio privilegio, nella mia sicurezza. Da qui ho iniziato a tracciare una strada verso la narrazione. Una strada che a un certo punto però si perde – proprio come fa il protagonista alla fine del racconto."
Quali consigli daresti ai tuoi coetanei che vogliono iniziare a scrivere o semplicemente che sono intimoriti di esporsi?
"Consiglio soprattutto di osservare con attenzione le cose, vedere dietro ogni muro. E con un’angolazione il più possibile sbilenca, strana: personale. E poi, una volta osservato, guardare ciò che si è visto ancora una volta di più, e cambiare di nuovo idea. Non so se è davvero un consiglio valido per tutti, ma con me funziona (o perlomeno fa sentire più significativi i momenti di ozio). Sentirsi insicuri nello scrivere, invece, penso sia tutto sommato una buona cosa, un buon segno; e ancora di più avere esitazioni nel condividere quello che si è scritto: vuol dire che proviene da una ferita, da un’incertezza. Le migliori storie vengono da ferite scoperte. Diffiderei di più da chi è sempre certo di ciò che ha scritto. E non vale solo per la scrittura, ma per qualsiasi forma d’espressione."
Com’è stato entrare a far parte di un progetto del genere, interfacciarsi con correttori di bozze ed editori a neanche 25 anni?
"Devo dire all’inizio ero un po’ intimorito. Più che altro mi chiedevo: “e adesso come ci si muove? Che dovrò fare, cosa mi toccherà cambiare?” Mi sono trovato in un mondo piuttosto nuovo per me. Ma Eleonora Daniel (la nostra editor) ci ha subito messo tutti a nostro agio, ho lavorato benissimo con lei e con Matteo B. Bianchi (direttore editoriale di Accento). Eravamo praticamente d’accordo su tutto e i cambiamenti non sono stati così drastici. Tra l’altro, è proprio Eleonora che ha trovato il titolo per il racconto, e le sarò sempre grato per questo - mi piace molto, e io sono pessimo a titolare le cose, volevo chiamarlo solo Incontro, un titolo stupido. The best time of life è un bel contrasto, che resta pure un poco insoluto verso la fine, un mistero che turba, insomma. Il senso del racconto."
Come ti vedi tra cinque anni? Vorresti continuare a scrivere?
"Tra cinque anni è tosta da dire. Mi vedo ancora a scrivere, spero, cioè a faticare. Confido a lavorare su forme ibride, che sono quelle che amo di più, incontri tra letteratura e altri linguaggi. Magari (di nuovo spero) a scrivere sceneggiature e nei fine settimana limare qualche romanzo che mi trascino dietro da anni. Qualche goccia di spritz che cade sulle pagine di uno script, una piazzetta romana o milanese, una jam session la sera in un circolo che fa birre artigianali. Forse un cane, o magari un gatto, che è più da scrittori. O un furetto: in fondo non sarebbe male. Ma già anche solo riuscire a campare di scrittura sarebbe una grandissima vittoria, la considererei la cosa più bella che mi possa succedere."
Lucilla Tomassi