alisound94
Ominide
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Tucidide nacque nella seconda metà del V secolo a.C., nella generazione dopo Erodoto. Tra i due autori vi è una grande differenza, soprattutto a causa dell’influenza che sofistica e medicina hanno avuto sul giovane Tucidide.

Erodoto e Tucidide

Se Erodoto narra, Tucidide pensa.

Erodoto ha un particolare gusto narrativo, epico, della narrazione, ricavato dal mondo ionico. Egli si trova in una civiltà aurale.
Tucidide è un ateniese influenzato soprattutto dal pensiero ateniese.

Inoltre è il primo a scrivere perché il pubblico legga: siamo ormai in una civiltà della scrittura.
Egli investiga le categorie secondo cui va inteso il fatto storico come manifestazione dell’agire umano. Di conseguenza si occupa di due tipi di storia:
1. Storia politica
2. Storia di guerra

Erodoto diceva che lo scopo della sua ricerca era di trasmettere le imprese grandi e meravigliose; ma il “meraviglioso” cade al di fuori degli interessi storiografici di Tucidide, che seleziona con decisione ciò che a suo giudizio appartiene alla storia da ciò che non può essere oggetto di un’indagine scientifica. Per lui la storia è un’analisi dei meccanismi del divenire alla ricerca delle cause, occasionali e profonde, degli eventi, un’anamnesi del passato in vista della diagnosi, con le sue implicazioni rivolte al futuro. Egli scrive perché le sue opere siano un possesso per sempre: κτημα εις αει, come dichiara all’inizio dell’opera. L’opera è destinata alla lettura, costituisce un libro scritto per un pubblico specializzato di persone colte e illuminate.
Lo strumento che l’uomo ha per investigare tutto questo è la ragione: si indagano i fatti storici in maniera scientifica, che permette di individuare il processo causa-effetto. Lo scopo è arrivare alla verità storica.

Erodoto racconta la realtà molteplice con tutte le diverse interpretazioni dei fatti, analizzati da vari punti di vista. Non si preoccupa di arrivare alla verità assoluta e oggettiva.
Tucidide, positivista, vuole arrivare, invece, alla verità assoluta, e per farlo c’è bisogno di molta obiettività.

Questione tucididea

Non si sa quando Tucidide sia nato (forse nel 460 a.C.), ma si sa che tra gli antenati del padre Oloro vi era un re trace, la cui figlia era andata in sposa a Milziade, perciò Tucidide poté avere miniere in Tracia e rapporti con la classe dirigente aristocratica, anche se in vita parteggiò per i democratici (parlando di Pericle, lo esalta) e non per i conservatori.
Nel 424 a.C. venne mandato come stratega (capo di una spedizione di soccorso) in Tracia, nell’Egeo settentrionale, dove Brasida (re spartano che vinse, ma morì) stava assediando Anfipoli contro Cleone: alla fine morirono entrambi e in seguito si potè firmare la pace di Nicia.
Tucidide arrivò tardi e non riuscì ad impedire la vittoria degli spartani.
Nel capitolo 26 del V libro dice che, per questo, è stato costretto a ritirarsi in un esilio ventennale nel Peloponneso. Altri sostengono che, invece, fosse andato in esilio ancora una volta nelle sue terre della Tracia.
Aristotele disse che Tucidide si trovava ad Atene durante il regime dei 400, instaurato nel 411 a.C.. Il regime dei 400 era un governo aristocratico conservatore, subito sostituito da quello dei 5000, aristocratico moderato. Dai dettagli del racconto di Tucidide sul regime dei 400, sembra che fosse proprio presente ad Atene in quegli anni.

Secondo alcuni la sua morte (forse del 403 a.C.) avvenne ad Atene, secondo altri in Tracia, ma, in ogni caso, si trattò di una morte violenta.

Il titolo “Storie” non è originale, come non lo è la suddivisione dell’opera in 8 libri.
Il libro VIII si ferma bruscamente al regime dei 400. Pare che esso sia solo abbozzato, senza i tipici discorsi diretti. Nel secondo premio (“Storie” V, 26), seguito dal tema della pace di Nicia, si dice che la guerra durò altri 27 anni e ci si propone di narrare la sconfitta ateniese. All’inizio, nel primo prologo, dice che narrerà la guerra sin dall’inizio per sottolineare l’importanza della guerra stessa nella storia, ma in realtà si ferma al 411 a.C., quindi sorge il problema di giustificare la mancanza dell’ultima sezione nel testo tucidideo a noi pervenuto.

Nell’800 si svilupparono due scuole:
- Analitica: diceva che l’opera è stata composta in due fasi. Nella prima fase Tucidide scrive fino alla pace di Nicia, nella seconda narra la guerra fino alla fine (in realtà si ferma al regime dei 400 del 411 a.C.). Nei primi libri è molto rigoroso, poi fa un’interpretazione filosofica della storia.
- Unitaria: sin dall’inizio compaiono accenni alla fine della guerra, e proprio per questo, sostiene questa corrente, Tucidide ha sicuramente rielaborato il testo dopo gli eventi successivi.

Nel libro V, 26, Tucidide dice di aver narrato tutta la guerra. Perché allora scrive la storia solo fino al 411 a.C.?
Diogene Laerzio sostiene che Senofonte abbia introdotto alla notorietà le “Storie” di Tucidide.
La descrizione degli ultimi anni di guerra (411-404 a.C.), cioè la parte dal secondo prologo in poi (V, 26) e l’esilio, si trovano nelle “Elleniche” di Senofonte. E il richiamo di Anfipoli sarebbe entrato lì per caso, sarebbe una glossa.
Le “Elleniche” di Senofonte continuano, infatti, dal 411 a.C.. Perciò è possibile che la parte finale dell’opera di Tucidide sia finita per sbaglio nelle “Elleniche” (fino al libro II, 3, 10). Questa tesi è stata elaborata da Luciano Canfora nel libro “Il mondo di Atene”: Senofonte può essere venuto in possesso degli appunti tucididei e averli continuati; poi i testi sono stati confusi anche perché pare che le parole del “secondo proemio” siano state scritte da Senofonte in qualità di curatore del testo di Tucidide.
Cade, così, la notizia dell’esilio di Tucidide citata nel “secondo proemio”, che si riferirebbe, in realtà, a quello di Senofonte. L’autore quindi rimase ad Atene e poté assistere agli ultimi anni di guerra, e la sua morte si potrebbe così collocare all’epoca dei 30 tiranni.

Secondo Tucidide la guerra è un momento dissennato in cui si esce da ogni logica, perché l’uomo è in balia delle passioni: la brama di potere e l’uso della forza per ottenere qualsiasi cosa. Essa ha sovvertito ogni costume, soprattutto per la democrazia ateniese; sempre pronta a nuovi grandi disegni capaci di spezzare gli equilibri tradizionali, e quasi per sua natura protesa a un incremento senza limiti di potere e di ricchezza per soddisfare le esigenze crescenti della massa, inevitabilmente Atene si pone in collisione con le altre città greche.
La storia è dominata da dinamiche che traggono la loro origine solo nella natura dell’uomo, e in primo luogo nella legge del più forte. Questa regola innata nella natura umana giustifica i più profondi impulsi dell’azione.
Quella tucididea è, quindi, una visione antropocentrica della storia.

Problema della morte violenta

Nel 404 c’era il regime dei 30 tiranni, dei quali certo Tucidide non poteva far parte; nella sua opera non ne parla, non c’è alcun riferimento. Essi si erano scagliati anche contro gli aristocratici stessi. Senofonte, invece, ne fece parte, e si pensa, quindi, che si sia impossessato dell’opera di Tucidide, ucciso da questo nuovo governo.

Struttura

Tucidide scrive perché l’argomento “guerra” è importantissimo.
Se lo storico deve raccontare la verità, non può parlare del passato, perché solo la contemporaneità si può ricostruire obiettivamente, grazie all’esperienza diretta e ai testimoni. Del passato hanno già parlato i poeti.
Lo schema del racconto è ancora omerico: simili sono fatti e i discorsi dell’assemblea in cui si commentano.
Nelle costruzioni dei discorsi ci sono degli influssi: retorica, sofistica e tragedia.
Sa di non poter riportare i discorsi esatti, ma sostiene che i suoi discorsi corrispondano all’incirca a quelli realmente tenuti dai personaggi, solo modificati sulla base del “verosimile”, cioè, anche se la forma è diversa, ciò che rimane uguale è il contenuto. Egli ricostruisce retoricamente la forma dei discorsi, sulla base di un certo contenuto.
Il discorso di Pericle non è una fonte primaria, ma secondaria.
Per farlo, ha vagliato parecchi testimoni e ha scartato quelli partigiani.
Anche Tucidide è consapevole che al tempo ciclico del mito si è sostituito quello rettilineo.
I libri dell’opera tucididea sono scanditi per stagioni (non per anni come gli “annales”), confrontando i calendari delle diverse città. Il tempo è rettilineo e progressivo.

Libro I: αρχαιολογια (archeologia) = storia del mondo greco dalle origini mitiche alle guerre persiane. Nei capitoli 20-23, Tucidide analizza il metodo storico, il quale distingue tra causa apparente (αιτια) - ossia l’assedio di Potidea, la vicenda di Corcira (Corfù) contro Corinto, l’embargo imposto da Atene a Megara - e causa profonda (προφασις) - ossia il conflitto inevitabile tra due grandi potenze.
La causa profonda matura a partire dalla fine delle guerre persiane per 50 anni.
Nell’archeologia si racconta la preistoria greca.
Come fa a raccontare la storia che non ha vissuto, se non può essere oggettivo? La storia dev’essere un’indagine anamnestica ed eziologica al fine di ottenere la prognosi (termine medico), che va fondata. La conoscenza del passato dev’essere scientifica ed è utile per lo storico, ma soprattutto per il politico. Per questo l’autore analizza in profondità un campo molto ristretto. Ogni punto di arrivo è un punto di partenza. Allora, come si fa? Ha pochissime prove (τεκμηρια), quindi applica un metodo critico su Omero, da cui ricava una serie di indizi.
Per esempio narra la guerra di Troia senza parlare di Elena. Il vero motivo della guerra è che la spedizione fu guidata da un uomo militarmente più forte di Menelao, quindi è un problema di supremazia.
Erodoto fa luce sulle contraddizioni delle varie tradizioni sulla figura di Elena, mentre Tucidide cerca il vero motivo della guerra.

Libro II: sono narrate le vicende del 431-429 a.C., ossia i primi tre anni di guerra. Importante è l’epitaffio di Pericle, un discorso epidittico usato come pretesto per elogiare Atene, scuola dell’Ellade i suoi principi e le sue strategie politiche. Alla fine si parla della peste di Atene che ha causato la morte di Pericle, sulla base delle idee ippocratiche.

Libri III-IV: parlano dei periodi 428-426 a.C. – 425-422 a.C., fino ad arrivare alle vicende della Tracia. Nel III libro vi è una riflessione sui guasti morali causati dalla guerra (es. A Corcira è sorta un’ulteriore guerra, questa volta civile tra democratici e oligarchici: una guerra di tutti contro tutti). Nel IV libro si parla dello spartano Brasida che, in Calcidea, avanza in territorio nemico e riesce a cogliere di sorpresa le postazioni ateniesi.

Libro V: si parla della morte di Brasida e dell’ateniese Cleone, invitato a contrastare l’azione del nemico, e della successiva pace di Nicia (421 a.C.). Importante è il lungo dialogo fittizio tra ambasciatori ateniesi e Meli, i quali chiedono l’indipendenza (perché la terra madre è Sparta), ma Atene rifiuta e fa prevalere la legge del più forte, mentre i Meli parlano di libertà e giustizia. Con questo dialogo si fa una riflessione profonda sull’imperialismo di Atene.

Libri VI-VII: costituiscono un blocco unico che narra della spedizione in Sicilia degli anni 416-413 a.C., quindi anche della vicenda di Alcibiade, che viene accusato della mutilazione delle Erme e quindi richiamato ad Atene per essere processato, ma che preferisce fuggire a Sparta. Si parla della fine della guerra e dell’annientamento dell’esercito ateniese nel 413 a.C.

Libro VIII: si parla del colpo di stato oligarchico del 411 a.C. (consiglio dei 400) e della reazione democratica guidata da Teramene (più moderata assemblea dei 5000). Il resoconto tucidideo si interrompe bruscamente dopo il ritorno di Alcibiade in Atene e la vittoria della flotta ateniese a Cinossema, nello stretto fra Sesto e Abido (412-411 a.C.).

Metodo storiografico

Già i lirici avevano posto l’uomo al centro del loro interesse, inteso come eroe.
La civiltà classica del V secolo individua delle costanti problematiche nel carattere degli individui.
- La tragedia euripidea indaga i sentimenti dal punto di vista psicologico.
- La tragedia filosofica indaga il pensiero e la natura della morale.
- La tragedia tucididea indaga la politica e la storia.

το ανθρωπινον: ciò che è proprio dell’uomo.
Le cause dei fatti possono essere decifrate perché immanenti.
La storia aiuta ad indagare la natura dell’uomo e viceversa. Ma non è la “Historia magistra vitae” di Cicerone, e, nello stesso tempo, Tucidide certo non pensa di poter prevedere il futuro.
Dato che l’uomo ha il λογος, deve usarlo per conoscere i nessi della realtà: positivista ante litteram.
Tucidide la chiama “verità assoluta”, pragmatica e concettuale: per questo la causa profonda viene distinta da quella apparente.

Il criterio causa-effetto spesso fa riferimento anche a cause sociali ed economiche, per la prima e forse unica volta. Se ne parla in maniera empirica, non teorica. Tucidide ricava tali cause da Omero, usando il criterio dell’εικος, della verosimiglianza.
Il verbo εικαζω veniva usato dai sofisti in senso soggettivo, mentre qui il significato viene spostato nell’ambito dell’obiettività.

L’influsso della sofistica si trova soprattutto nella fiducia nella capacità di persuadere con la parola, fiducia che si esprime nel tipico schema tucidideo del “discorso”, in particolare quello dei Meli: un dialogo di tipo teatrale tra Meli e Ateniesi, senza commenti, su ispirazione del modello sofistico dei discorsi costituiti da coppie antitetiche. Non sono solo antilogie, ma servono a sottolineare come i vari interlocutori sostengono le loro idee -> gli avvenimenti storici sono basati sulla dialettica, legge che governa la storia, e, quindi, sui confronti tra le forze in campo.

L’uomo però non può ottenere sempre quello che vuole (come si sosteneva nella tragedia). Il rischio dell’impossibilità di ottenere quello che si vuole è dato dalla fallibilità dell’uomo, che rischia di sbagliare.
La ragione capisce a posteriori gli errori che l’uomo ha commesso perché è poco intelligente e dominato dalle passioni, ma principalmente perché chiunque è in balia della τυχη, cioè l’imprevedibile, l’imponderabile (non c’è alcuna idea metafisica, ma poi essa diventerà una divinità). Qui la τυχη è una formula che esprime la contraddittorietà insita nella natura e nella storia. Influenzano l’agire umano anche quelle energie elementari come la bramosia di potere e ricchezza, l’odio verso la fazione avversa, l’irrompere di forze irrazionali che condizionano e dirigono le decisioni impedendo agli uomini di individuare la migliore linea di condotta.

Stile
Tucidide ha uno stile che si potrebbe definire “scientifico” e tende a non fare commenti.
La tragedia si era arresa di fronte ai grandi problemi di politica e morale, ma Tucidide non è agnostico, di fronte a questi interrogativi reagisce con la luce della ragione per capire e responsabilizzare la comunità (solo da un punto di vista politico).

L’episodio di Melo è marginale, ma lo cita perché vuole sottolineare i rischi insiti nella legge della forza, nell’imperialismo ateniese, con cui non è certo d’accordo. Non si può dire, come fanno alcuni critici, che non si renda conto che ciò porta qualcosa di funesto.
È una questione aspra, perché Tucidide esalta Pericle, ma ciò che egli dice non è detto che corrisponda a ciò che pensa l’autore. Tucidide sembra comunque convinto della superiorità ateniese su Sparta. Forse Pericle rappresenta un modello di uomo di Stato in quanto è intelligente, equilibrato e disinteressato (i demagoghi non saranno così). In ogni caso il potere che ha nelle sue mani formalmente è democratico, ma nella realtà è nelle mani di un uomo solo. Questo deriva dalla certezza che il buon governo è determinato dall’uomo politico, non dal tipo di governo. Quando parla di Sparta dice che è positiva perché ha un governo che funziona, regge e dura, e in questo è molto obiettivo.
I valori esaltati da Pericle sono i valori della civiltà di Atene.
Non accetta, invece, la politica dei demagoghi: l’assemblea è irrazionale e si lascia comandare da loro. Le sue idee partono da fatti concreti.

In qualche modo c’è un relativismo nel preferire un certo tipo di costituzione. Ma questo c’è anche nella morale? Per esempio l’orrore della guerra emerge quando parla della distruzione della scuola e della conseguente morte dei bambini. In questo è implicita la condanna dell’imperialismo ateniese. La guerra parte da Atene: l’intento imperialista ha in sé il seme della sconfitta (la colpa viene punita!). Di conseguenza la necessità storica e la legge di giustizia coincidono. La dismisura porta alla sconfitta. Siamo ancora nella dimensione di una tragedia, ma senza dei (Erodoto: το θειον). C’è un senso tragico della dismisura, del crollo finale, dell’orgoglio dell’intelligenza umana (destinata a crollare se c’è un eccesso, come si notava anche nel primo stasimo dell’“Antigone”). L’orgoglio si scontra con la realtà, dove agisce la τυχη.
Un altro elemento importante è la descrizione della patologia, anche a livello psicologico: paura e orrore sono patologie che portano al crollo. Quello che è tragico è il grido di dolore.

Tucidide dà un impianto cronologico, che non è solo cronaca, ma si propone anche di creare un aspetto di profondità prospettica. (Capitoli 20-23: mostra una grande impassibilità scientifica, ma anche pietà e capacità di osservare la degenerazione morale provocata dalla peste, tema che verrà ripreso anche da Lucrezio e da Manzoni).
La spedizione in Sicilia (libri VI-VII) viene descritta come la più ardita delle imprese, dove è in luce il concetto di dismisura.

È un vero e proprio maestro di stile, che però era difficile e oscuro già per gli antichi. L’oscurità deriva dal fatto che apre parecchie parentesi per analizzare le diverse sfaccettature della realtà, e a questo scopo usa molte antitesi.
La sintassi è irregolare.
Come farà Platone, anche Tucidide si rende conto dell’impossibilità di mettere per iscritto il pensiero, e per questo sono importanti i discorsi adeguati al parlato (non sono discorsi irrazionali). Tucidide è anche capace di rendere la dimensione psicologica dei personaggi; per esempio quando Alcibiade e Nicia parlano della spedizione in Sicilia, per il primo usa spesso la prima persona e molti imperativi, per delinearne il carattere forte, mentre per il secondo usa proposizioni ipotetiche, antitesi senza risoluzione e sentenze di carattere generale per sottolineare la sua indole indecisa e pacifista.

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