DanieleSa
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La costituzione degli Ateniesi

Caratteri generali:
Considerato il più antico manifesto di prosa Attica, la Costituzione degli Ateniesi (meglio traducibile come “Sul sistema politico degli Ateniesi”, vista la mancanza di costituzioni scritte e rigide come quelle moderne), suscita non pochi interrogativi. Il testo sfugge alla classificazione teorica e a quella storico-antiquaria, e si inserisce nell'ottica dell'azione pragmatica: il colpo di Stato. Ma anche qui il testo si fa problematico, come poi si vedrà. Dubbi persistono riguardo alla cronologia dell'opera, che va però verosimilmente collocata nell'ultimo trentennio del V secolo, specie tra il 430 a. C. e il 424 a. C. La morte di Pericle è certamente il termine post quem l'opuscolo è stato scritto: la visione di un regime corrotto, il prevalere di demagoghi, la sofistica e il relativismo non permettono altrimenti. Riferimenti inerenti alla guerra del Peloponneso (con la costatazione che Atene manca di una sola cosa, essere un'isola, così da evitare attacchi da terra, con chiara relazione alle incursioni spartane ad Atene). Il tono del personaggio, come poi si approfondirà, è quello dell'esule ossessionato dall'azione politica: il clima di guerra pare evidente. D'altra parte la sconfitta fulminea di Atene a Brasida tra il 424/3 sconfessa clamorosamente l'affermazione dell'anonimo sulla cieca fiducia nel potere della flotta e sulla possibilità di difendersi comportando una marcia per terra svariati giorni di viaggio. Il 424 potrebbe dunque essere un termine post quem non per la datazione dell'opuscolo.
Per quanto concerne l'attribuzione la situazione è, se possibile, ancora più controversa. L'unico dato certo è che l'attribuzione a Senofonte, voluto dalla tradizione, è errato: è questo paradossalmente l'unico punto su cui i critici concordano. Motivazioni di natura linguistica, di tornitura delle frasi, di intensità di stile e pensiero giocano a sfavore dell'attribuzione senofontea. Tra i nomi di spicco con cui si è tentato di risolvere l'annosa questione spuntano quelli di Tucidide, Frinico, Trasimaco e altri, ma l'unico supportato da argomenti concreti, anche se non risolutivi, è l'attribuzione all'oligarca Crizia, zio di Platone, e capo dei Trenta che presero il potere, nonché implicato nel colpo di stato del 411 a.C., contro cui si scagliarono molti scrittori che lo dipinsero con tratti foschi. Sul personaggio, così terribile, cadde la damnatio memoriae che portò alla distruzione dei suoi scritti, tutt'altro che sparuti, tra cui costituzioni in distici doppioni di altri in prosa (congettura che spiegherebbe difficoltà metriche nell'attribuzione degli scritti). Molte delle sue opere furono messe in salvo grazie alla loro attribuzione ad altri scrittori, come Euripide e forse Senofonte. Questa la tesi supportata da Canfora. Tra le prove a sostegno della tesi una parte del testo in cui l'autore propone di aprire le porte per ristabilire l'oligarchia così come Crizia fece nel 411 a.C.. Il bersaglio del testo (vedi sotto) potrebbe essere Alcibiade, di cui Crizia propose l'eliminazione fisica. Altre prove sono la critica contro l'appoggio che Cimone, politico ateniese, diede agli Spartani contro i Messeni, facendo esplodere correnti politiche opposte, e che, come sappiamo fu criticato da Crizia, nonché la condanna dei costumi, tema tipico, da quanto sappiamo, delle costituzioni criziane. Raffronti con la costituzione degli Spartani palesa l'attenzione dell'autore per la questione degli schiavi, e il ricorrere dell'espressione "gnome" nell'opuscolo e in altri frammenti di Crizia corrobora l'ipotesi. Questioni filosofiche legate alla sofistica, specie nel divario tra natura e legge, ricorrono nel testo e combaciano col fatto che Crizia sia annoverato da sempre tra gli esponenti più insigni della sofistica. Niente però può escludere l'ipotesi che l'autore dell'opera sia un personaggio a noi sconosciuto.

L'Atene in cui l'anonimo scrive è dunque quella post periclea, dominata dalle figure demagogiche di Cleone e Cleofonte, che secondo la testimonianza di Aristotele consumano il passaggio dalla buona democrazia alla cattiva democrazia, quel controllo indiscriminato del popolo che non è più guidato da uomini insigni, ma che anzi si pone come capo stesso della città di Atene. Lo sprezzante giudizio di Aristotele è d'altra parte in linea con l'acuta analisi di Tucidide che vede in questa adesione acritica ai piaceri del popolo, in questo tentativo di ingraziarsi le masse, il simbolo tangibile della corruzione dello stato; tema d'altra parte sviluppato anche dall'irriducibile Aristofane: l'assurdo pare essere affidare la cosa pubblica al popolo. Da qui in poi sarà somma infamia del politico scendere a patti con le aspettative indiscriminate del popolo. Ma la novità più eclatante dell'opuscolo è che la tesi centrale non si concentra (come il resto della critica della retorica democratica) sull'incapacità del demos di governare, ma tenta di dimostrare, con una logica disarmante, che il demo comprende benissimo quello che è di suo proprio interesse e lo persegue con tenacia: un sistema coerente e solido. In altre parole, scardinando l'etica moraleggiante dell'aristocratico Teognide, l'anonimo, insistendo sulla gnome del popolo, dimostra la coerenza di un sistema, quello democratico, da cui prende distanza, ma di cui non può fare a meno di dimostrare l'intrinseca e perversa logica.

Secondo la ricostruzione di Canfora, l'opuscolo ha forma dialogica: in esso si alternano due personaggi, aristocratici, che discutono sulla democrazia ateniese alternando posizioni tra loro diverse. L'aristocratico A, che apre l'opuscolo, è un aristocratico lucido, disincantato, vagamente cinico, mentre l'interlocutore B, legato ai modelli dell'etica arcaica, propone un'analisi cui più volte sfugge la lucidità implacabile dell'altro interlocutore. L'oligarca A è realistico e materialistico, quello B idealista e moralista. Né si può ascrivere il primo interlocutore alla fazione moderata: egli non è classificabile nella tradizionale classe oltranzista, ma relativizzando i valori aristocratici, sfugge alla rigidità e alla chiusura mentale dell'altro uomo. È opinione condivisa che l'autore dell'opuscolo vada identificato con A: un uomo invischiato nella politica ateniese, privo di ottusità retrograda, disincantato nei confronti di un possibile colpo di stato volto a risanare l'oligarchia.

Molti sono i temi trattati dall'opuscolo: eccessiva licenza degli schiavi, vessazione giudiziaria degli alleati, la flotta ateniese, l'ordinamento militare e la posizione geografica, commercio, cosmopolitismo, censura verso il teatro. L'elenco dei vizi della polis si conclude con la sentenza secondo cui peggiori del demos sono soltanto quegli aristocratici che ne accettano la logica. Tratta poi della lenta burocrazia, delle infinite festività, della corruzione e dell'impossibilità di riformare il sistema politico senza snaturarlo. Se infatti è la talassocrazia a fare di Atene una grande potenza, e se è il popolo ad armare e muovere le navi, evidentemente non si può demolirne il potere se non dalle fondamenta stesse. Segue una discussione sui possibili mezzi per rovesciare il regime, tra cui specialmente la possibilità di affidarsi ad altre poleis oligarchiche: progetto dichiaratamente utopico.
In particolar modo l'interlocutore A riconosce che sebbene il sistema politico non sia il migliore in assoluto, esso è talmente efficiente da essere l'unico mezzo per salvaguardare i benefici della democrazia. In altre parole l'amathia (incoscienza) del popolo giova a questo più che la saggezza dei nobili.

Molte sono state le interpretazioni del testo. Non è mancato chi abbia identificato l'opera come un testo giovanile di Tucidide, o come il testamento politico di un vecchio oligarca: ma lo stile aspro e a tratti involuto non è motivo sufficiente per scomodare Tucidide, con cui pure condivide alcuni temi, né si può dire che l'analisi dell'autore sia superata o anacronistica. La vera forza del testo sta nel tentativo da parte dell'autore di identificarsi con le logiche della democrazia pur non condividendole. D'altra parte la visione a lungo invalsa degli oligarchi come garanti della purezza attica è fuorviante e sconfessata dalla politica matrimoniale ateniese che non disdegnava matrimoni con straniere. Gli elementi che hanno fatto probabilmente propendere per l'identificazione dell'autore con un vecchio oligarca vanno ricercata nella critica che egli muove alla politica edilizia di Pericle e il fatto che la ginnastica e la musica siano state eliminate dalla paideia ateniese, elementi tipici della kalokagathia: ciò che egli non può tollerare è l'impiego di denaro pubblico per opere di uso collettivo, ovvero per beneficio del demo. Difende invece la politica di Cimone in grado di finanziare autonomamente la propria linea politica. Ma la tendenza relativizzante dell'autore sconfessa in più punti questi nostalgico abbandono alle glorie del passato: l'analisi è molto più tesa e lucida.

Dal tono dell'opuscolo molti hanno identificato l'autore come un esule, un fuoriuscito, un uomo che pur nella distanza si pone come ossessionato dalle logiche che lo hanno posto alla berlina: un esule disilluso e lucido, in grado di intuire pregi e difetti del sistema democratico. L'idea di un autore che sia stato esiliato ben si accorda con l'ultima parte dell'opera, in cui si discute della possibilità di instaurare con un colpo di mano un regime oligarchico e soprattutto con la tendenza da parte dello scrittore di ricondurre ogni aspetto della vita ad una dimensione politica, dal cibo al commercio. Lo scrittore non si perde nella contemplazione del passato, ma si volge con fermezza all'azione, è proiettato radicalmente verso l'immediata azione politica. L'autore non tollera i compromessi con la politica del demos e sa, senza illudersi, dell'utopia di un buon governo.

Altro elemento degno di nota è il respiro sovranazionale dell'autore: egli sa che il popolo salvaguarda i propri interessi alleandosi con i peggiori delle città assediate, perché sa che i buoni potrebbero ledere i suoi interessi. È proprio per mantenere il controllo e incrementare le entrate che il popolo costringe gli alleati a celebrare i processi ad Atene: ne seguono vantaggi logistici, economici ed egemonici. L'aspetto internazionale sta tutto nel peso sconsiderato della guerra, vista come proseguimento esterno delle faide interne che insanguinavano le poleis, e che si andavano coagulandosi attorno ai due poli del mondo greco, Atene e Sparta.

Alcuni hanno voluto trovare un destinatario ideale dell'opuscolo, rifiutando l'idea di una pura trattazione teoretica, ma vedendo l'opuscolo come un testo volto a sollecitare un'azione violenta contro lo Stato: in realtà lo scontro non è tra fuoriusciti e sostenitori del regime, ma tra coloro che attaccano frontalmente il regime politico e quelli che, invece, ponderando con più accortezza i rapporti di forza, divengono consapevoli che sugli atimoi non è possibile fare affidamento.

Più arduo stabilire se il testo fosse la trasposizione di una discussione nell'eteria, o se si tratti di una discussione fittizia, o magari sia una compenetrazione dei due. D'altra parte l'andamento argomentativo, con punti in cui l'opuscolo pare più volte chiudersi per poi riaprire i conti, fa pensare a un rimaneggiamento del testo. Tre sono le conclusioni cui, in definitiva, l'autore giunge:
1. la democrazia è inaccettabile ma coerente e ben difesa
2. non è riformabile
3. per abbatterla non bastano gli atimoi.

Può forse non essere troppo azzardato ritenere Alcibiade il bersaglio polemico dell'opera, il nobile ateniese non alieno dai divertimenti del popolo, bellissimo, spregiudicato, che pure, nella celebre apologia che Tucidide gli fa pronunciare, recupera la critica alla democrazia riprendendo l'autore dell'opuscolo. Ma egli, al contrario dell'anonimo, è convinto che non può essere distrutta la democrazia fintantoché permanga la guerra. Se la soluzione prospettata dall'anonimo, con un certo scoramento, è quella di aprire le porte, Alcibiade sa che la guerra impedisce qualsiasi ribaltamento. In sintesi Alcibiade distingue tra lo schema tradizionale (demos vs tirannide) e demokratia come strapotere del popolo.
È interessante notare come la parola demokratia fosse un termine relativamente recente, un termine non di buon governo, ma di rottura, netta e precisa, contro le dinamiche della città arcaica. Parola di recente formazione, essa non riconduce tutto alla logica della comprensione, ma a quella della esclusione. L'analisi lucida che poi ne farà Aristotele e l'avvertimento di Erodoto nel celebre logos tripolitikos, tendono a far collassare la democrazia nella dimensione dello strapotere dei poveri, che facendo ricorso alla supremazia numerica, instaurano violentemente un regime intimamente corrotto. Emblematico è il fatto che Pericle, nel suo famoso epitaffio, stabilisca una celebre distinzione tra demokratia e libertà: il prevalere della massa sui ricchi non è legge, ma violenza.

STILE
Molte sono le riprese verbali, le strutture ad anello, riepiloghi e prolessi di dimostrativi e relativi; abbondano i pronomi deittici, gli snodi involuti e talora aspri dal punto di vista sintattico; abbondano le congiunzioni e molti anche i periodi ipotetici, da quelli dell'impossibilità a quelli della realtà. La lingua ha una patina arcaica. Il rigore logico ha il respiro di un teorema, ma anche l'impeto dell'esule che freme per riottenere dignità: quasi un'esortazione disillusa alla ribellione, un discorso rivolto ad un'eteria di cui egli condivide i valori. L'estetica letteraria, non certo eccelsa, cede il passo alla funzionalità del linguaggio. La sintassi martellante dà il ritmo ad una lucidità implacabile.

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