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APPENDICE A

1

L’ulivicoltura e l’oleificio nel territorio di Sanremo

La coltura più importante per estensione nel territorio di Sanremo è quella dell’olivo. Il

Comune di Sanremo possiede 2200 ettari di uliveti, con una media di 700 piante per ettaro. La

produzione media totale sarebbe secondo il Panizzi, che scriveva nel 1869, oltre i 12,000

quintali d’olivi. Non so capire come il Monterumici possa nel 1881 avere scritto che Sanremo

produceva 30,000 quintali d’olio.

L’ufficio comunale fornisce solo la produzione di questi ultimi otto anni, in cui si sono avute

cinque, per lo meno, cattive annate, per la qual cosa la media di questi ultimi otto anni è di

quintali 1,70 per ettaro. Indipendentemente dalle accidentalità meteoriche, pur queste originate

da cause accessibili, la scarsa produzione degli uliveti a Sanremo dipende in primo luogo dalla

fittezza portata agli estremi, dalle trascurate cure colturali, dall’esaurimento dei terreni, da

conseguenti malattie d’infezione e, per dirlo in poche parole, dall’ignoranza crassa del

personale dirigente e quindi dei lavoratori della campagna. I nostri avi erano sotto questo

riguardo migliori agricoltori di noi. Disponevano gli ulivi a filato distanti fra loro parecchie

diecine di metri, e tra filata e filata coltivavano piante erbacee oppure viti, fichi, mandorle,

limoni, palme e così via.

Propagavano l’ulivo per innesto sull’oleastro o sull’olivastro, e tutt’ora si possono osservare le

secolari piante rimaste, le quali sono assai più rigogliose e sane di quelle propagate in seguito

con puppole e con polloni pedali.

«Quando all’epoca del primo impero la Liguria fu aggregata alla Francia, i prezzi degli olî

toccarono il favoloso; c’è ancora in alcuni paesi memoria di terre, che comprate con mora

furono pagate col solo prodotto di un anno. Con guadagni di tal fatta, la coltura dei generi

secondari fu trovata improduttiva e così in fretta e in furia la nostra zona littoranea fu ulivata a

bosco».

«Nella zona dell’ulivo non rimase nemmeno un terrazzo di seminativo; nei vigneti, nei

limoneti ovunque si piantarono olivi. È da questo momento che tal origine presso di noi la

pratica della moltiplicazione per puppola e per polloni pedali. Non si volle perder tempo a far

semenzai ed a sistemare piantonai; la vita dell’uomo difatti è breve e l’ulivo cresce

lentamente». (Cfr. Domenico Capponi. Cose vecchie migliori delle nuove. 1870).

Ora però si ritornerebbe indietro volentieri a rifar le piantagioni con la pratica buona, ed invero

gli ulivi secolari innestati sullo oleastro o sull’olivastro si mantennero sempre rigogliosi,

produttivi e resistenti alla maggior parte delle cause nemiche; mentre gli ulivi di franco-piede,

venuti su dal pollone pedale o dalla puppola, sono affetti più spesso dalla lupa, dal marciume e

dalla rogna; non resistono alla siccità e cedono sotto i forti venti.

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Il taglio poi della puppola costituisce un danno non trascurabile, che si fa alla pianta madre,

ferendola nella parte più sana del ciocco.

È vero che se il male si limitasse solo a questo, con un mastice qualunque o semplicemente

con black, si potrebbe rimediarvi impedendo l’infezione che ne deriverebbe. Il lasciar crescere

poi i polloni pedali è un voler isterilire la pianta madre, perché questi fungono da veri

parassiti.

La varietà di ulivo da noi coltivata è la Taggiasca. È fra le frantoiane una delle più produttive

ed ha molta affinità col Razzo dei Monti Pisani.

Le cure colturali e la raccolta non si possono spesso effettuare bene per la deficienza di mano

d’opera e per il prezzo elevato di questa. Gli operai laboriosi si pagano L. 2,50 al giorno, i

mediocri L. 2,25, gli altri L. 2. Le donne da L. 1,40 a L. 1. I lavoratori indigeni sono pochi e

sono tutti piccoli proprietari, di modo che quando urgono le faccende campestri devono

accudire spesso alle proprie, anziché prestar l’opera loro agli altri proprietari. Si utilizzano

quindi le braccia dei montagnari del circondario o di altri operai che emigrano tra noi dalle

varie parti d’Italia. Questa gente di montagna, accorta e capace nel suo territorio, ha bisogno di

un lungo tirocinio per rendersi padrona delle nostre pratiche agricole. Sono alle volte

giovanotti pieni di forza e di buona volontà; ma spesso poco svegli di mente. Lavorano anche

troppo; ma non conseguono quell’utilità economica per il padrone, che altri più intelligente

raggiunge con meno sforzo.

Spesso persone che non videro altro che castagneti e boschi, sono per necessità adoperati per

abbacchiare gli ulivi. Povere piante!

L’abbacchiatura degli ulivi è una delle piaghe della nostra ulivicoltura, specie avvenendo

spesso che, per mancanza di mano d’opera, si protrae fino all’aprile inoltrato ed anche fino a

maggio.

Chi parlasse di brucar le olive sugli alberi ai nostri agricoltori, farebbe quasi ridere; poiché,

non conoscendo questi potatura di allevamento delle piante, lasciano liberi gli olivi di crescere

nelle maniere più irregolari a contendersi la luce.

«Noi lasciamo ai puri teorici ed ottimisti il metodo assoluto della côlta a mano, impossibile

non solo in Liguria, dove gli alberi raggiungono altezza considerevole, dai 13 ai 20 metri,

senza tener calcolo della maggiore che acquistano a causa degli alti e stretti gradoni (rasole o

fascie); ma in altre regioni in cui l’ulivo raggiunge pure grande altezza». (Cfr. G. B. Tirocco.

Raccolta dell’olive ed estrazione dell’olio).

Io sono d’opinione che, provocando l’impalcatura dei rami in basso ed allevando l’ulivo a

tronco di cono rovescio, si possa effettuare la brucatura come in altre regioni. Ad ogni modo,

lasciando pure le cose come stanno, si allieveranno gli inconvenienti dell’abbacchiatura

eseguendola nel mese di marzo, e con operai capaci.

La rimonda, la potatura periodica, ormai s’è fatta strada tra i nostri arboricoltori.

Da qualche anno io pratico una potatura di ricostituzione, e col solo taglio delle cime ottenni

chioma più abbondante, maggior copia di frutto che resiste bene ai venti.

La potatura, siccome non sono da temersi forti freddi, si eseguisce da novembre a marzo ed

ogni 3 anni. 93

Non si lavora il terreno ogni anno, ma ogni 3 anni; quando si concima, si sbarbetta e si

ripulisce il ciocco.

I lavori del terreno si fanno col bidente a braccia d’uomo e costano assai; cosicché è

impossibile effettuare annualmente un lavoro profondo sul finir dell’inverno e un lavoro

superficiale nell’estate, come consigliano gli agronomi.

Si potrebbero però questi lavori circoscrivere solo intorno al ceppo delle piante, sulla buca, se

la concimazione fu fatta a buca, come da qualche anno io pratico.

Più sotto, parlando della siccità che spesso fa avvizzire le migne, noterò la necessità assoluta

di questi lavori del terreno da farsi annualmente.

Oltre che a buca, la concimazione si fa andantemente nei tagli successivi della zappatura

generale. Il concime più usato è il letame, che spesso si mescola con raspatura di corna e

d’unghie, stracci di lana, cuoiattoli, pozzonero.

È lamentata da tutti gli scrittori di cose agricole della nostra regione, la trascuranza od

indifferenza degli agricoltori per i materiali e le acque di rifiuto dei frantoi.

La raspatura di corna e d’unghie, gli stracci di lana sono spesso adulterati, e raramente si

trovano genuini sui nostri mercati. Per evitare quindi queste frodi e per altre mille buone

ragioni, s’impone la necessità della formazione di un Consorzio per l’acquisto delle materie

fertilizzanti. In tal modo si potranno comprare, con garanzia d’analisi, i materiali fertilizzanti

in gran copia, ottenendo agevolazioni dalle Case Commerciali e vantaggi nei trasporti

ferroviari. Con tale mezzo si introdurrà e si generalizzerà presso di noi l’uso dei concimi

artificiali, i quali non meno che altrove sono di somma necessità per i nostri terreni esauriti da

secolari depauperanti colture. La convenienza di questi concimi, concentrati in poco volume e

peso, si può anche dimostrare dal punto di vista dell’economia dei trasporti; poiché le strade

delle nostre campagne sono più spesso mulattiere e non sempre si fa il letame sul posto,

giacchè i fondi hanno forme e disposizioni le più irregolari ed irrazionali; sono divisi in più

corpi spesso assai lontani tra loro.

Sovente negli uliveti si coltivano baccelline sul rinnovo (fave-mochi) ed altre piante erbacee.

Io sto sperimentando le foraggiere: introdussi la sulla (Hedisarum Coronarium) che resiste

bene all’asciuttore e ne ebbi ottimi resultati.

Appago così un voto dei Comizi agrari della zona ligure, fatto dietro proposta del professor

Emidio Martemucci.

Una consociazione irrazionale è quella, che si osserva troppo spesso nelle nostre campagne,

dell’olivo col limone. Dissi consociazione; ma tale espressione non è adatta al caso; perché la

consociazione presuppone un ordine che permetta l’esplicazione completa della vitalità nelle

piante associate. Qui invece si verifica un limoneto in un oliveto e viceversa, quando non si

abbia limoneto, oliveto, frutteto, vigneto, ed orto sullo stesso terreno. Dicono i nostri

agricoltori che, coltivando i limoni sotto gli ulivi, si vengono a proteggere dalla brina, dalla

neve, dal freddo e quindi dal gelo. Una coltura sotto ad una chiudenda d’ulivi, può

considerarsi invero come sotto ad un bosco. Dalle esperienze di Ebermayer in Baviera e di

Mathieu a Bellefontaine risulta difatti che i grandi freddi ed i grandi caldi sono meno rigorosi

sotto il bosco; come pure risulta che la temperatura dell’aria sotto le piante è generalmente

94

minore del 10% circa di quella fuori del bosco e che la temperatura media del terreno è anche

minore del 21% comparativamente al terreno nudo. Questi dati non si possono riferire

integralmente a piantagioni sottoposte a regolare coltura, ed anche poco importerebbe che la

vegetazione fosse ritardata, purchè si riescisse a proteggerla dai freddi che nel limite superiore

della nostra zona del limone ogni diecina d’anni fanno danni rilevanti, non risparmiando

nemmeno i limoni protetti dall’ulivo, il cui unico ufficio quindi si limita a proteggerli dalla

neve. Ma questa assai raramente cade nelle nostre campagne, ed il voler sostenere quindi, che

questo stato di cose sia una necessità è un volerci ficcare in campo cosa non sufficientemente

provata. L’ulivo sottrae nutrimento ed umidità al limone; gli toglie luce, ostacola bensì un po’

l’evaporazione dell’acqua, ma ne assorbe

Dettagli
Publisher
A.A. 2013-2014
329 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/11 Letteratura italiana contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Gerson Maceri di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana moderna e contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Genova o del prof Contorbia Franco.