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LA FAMIGLIA DEL PAZIENTE ONCOLOGICO

30

3.1 Il significato della malattia

3.1.1 Gli effetti sui genitori del paziente ospedalizzato

I genitori sono sotto choc, spesso incapaci di ascoltare, capire, ricordare (Eden,

1994), si sentono in qualche modo colpevoli della malattia del figlio e allo stesso

tempo la vivono come un’ingiustizia. La coppia genitoriale è completamente

concentrata sull’accudimento del piccolo paziente, sia per le concrete emergenze

legate all’andamento della patologia e della terapia, sia per l’emergere di nuovi

vissuti intorno alla possibilità di perdere il proprio figlio. In certi casi i vissuti

depressivi, collegati a senso di colpa, rabbia, frustrazione, impotenza e perdita,

sono così forti da rendere difficile per i genitori sostenere emotivamente i

bambini. La vita quotidiana assume tempi e spazi alterati e lascia il posto a quelli

della malattia e della cura (Scarponi, 2003). Uno dei genitori, solitamente la

madre, che è una figura fondamentale nella vita di un figlio e quasi sempre il

punto di riferimento più importante nell'infanzia degli esseri umani, abbandona

tutto per assistere a tempo pieno il figlio in ospedale, mentre l’altro genitore

rimane a casa occupandosi dei fratelli se ne ha la possibilità e continuando a

lavorare (Conti, 2005/2006). La coppia marito-moglie non ha più senso, l’unica

cosa che conta è essere il buon genitore di un bambino che soffre (Soccorsi, 1997)

e anche la vita sociale viene drasticamente ridotta o addirittura eliminata. Le

modalità di reazione materna possono variare notevolmente: si passa da una

considerazione massima per i problemi che la malattia pone, al disprezzo e al

rifiuto delle indicazioni fornite da medici, infermieri, psicologi... Le conseguenze

delle malattie croniche infantili e potenzialmente mortali sui padri sono state

oggetto di minore attenzione (Bonner et al., 2007), anche perché la maggior parte

di loro trascorre parecchie ore lontano da casa e ha quindi rapporti sporadici col

bambino ospedalizzato e col personale sanitario. Essi forse possono sembrare

meno coinvolti emotivamente rispetto alle madri; in realtà ciò può essere dovuto

più che a un coping centrato sull’evitamento del problema, al tipo di educazione

impartita agli uomini, che non prevede e non incoraggia la verbalizzazione del

dolore e la manifestazione della vulnerabilità personale. Sarebbe auspicabile,

pertanto, aiutare i padri a esprimere la loro sofferenza per riuscire a dare un aiuto

migliore all’intera famiglia. 31

Campione (1988) afferma che in sostanza vi sono tre tipologie genitoriali:

1. genitori che fanno da barriera tra il figlio e la malattia, favorendo un

atteggiamento regressivo:

Il figlio viene tenuto all’oscuro di tutto, anche quando la situazione è ormai

drammatica; la tendenza è di enfatizzare gli aspetti positivi e sdrammatizzare.

Nella fase terminale questi genitori immaginano che il bambino passi a miglior

vita.

2. genitori che entrano in conflitto con il proprio ruolo:

esasperano di attenzioni il figlio o si disinteressano completamente con la

giustificazione di non riuscire a vederlo soffrire. Il senso di colpa deve trovare una

via di espiazione nel momento in cui si percepisce che non c’è più niente da fare.

3. genitori che razionalizzano e che fanno tutto il possibile:

non accettano la malattia e l’eventuale perdita, ricercano le cure più avanzate e

interpretazioni positive della diagnosi. In caso di morte, essa viene razionalizzata

nel senso che a morire non è una parte di sé.

Kazak (1994) ha individuato, tra i fattori stressanti che incidono sul vissuto della

coppia genitoriale, l’ospedalizzazione, la minaccia alla vita, i trattamenti invasivi,

gli effetti collaterali, mentre Greco e Perry (2000) hanno proposto un modello per

periodi che aiuta a descrivere il lungo e complicato processo di elaborazione della

malattia da parte dei genitori:

• periodo di shock: coincide con la fase diagnostica ed è contraddistinto da

un forte sentimento di angoscia che paralizza;

• periodo di negazione: segue la diagnosi e prevede una sua negazione da

parte dei genitori. L’incredulità permette ai genitori di non pensare

continuamente al tumore. A lungo andare la negazione può rivelarsi però

un meccanismo di difesa disadattivo che non aiuta più ad affrontare la

realtà;

• periodo di depressione: paura, tristezza, impotenza, disperazione,

prendono il sopravvento, soprattutto se la situazione non lascia spazio a

miglioramenti;

• periodo rielaborativo: l’esperienza viene rielaborata e sublimata,

intendendola come qualcosa che può servire da insegnamento di vita. I

genitori possono pure dimostrare un atteggiamento iperprotettivo o al

32

contrario disinteresse e distacco;

• periodo di accettazione :si impara finalmente a convivere con la realtà

che resta pur sempre intollerabile;

• periodo di remissione: il genitore non è tranquillo, nonostante i

miglioramenti del figlio; si aspetta che da un momento all’altro ci sia una

ricaduta;

• periodo terminale: si teme un crollo psicofisico a causa delle attenzioni

estenuanti e della tensione dovuta alla possibilità concreta di perdere il

figlio;

• periodo di lutto: coincide con la perdita del piccolo paziente che costringe

a una riorganizzazione individuale, nella coppia, nel sistema familiare e

1

sociale;

3.1.2 Gli effetti sui fratelli del paziente ospedalizzato

Il dolore dei fratelli del paziente oncologico pediatrico è triplice: per sé, per il

fratello che sta male e per i genitori che sono visibilmente in difficoltà. Spesso i

fratelli sono trascurati dai genitori che rivolgono tutte le loro attenzioni al figlio

colpito dal cancro e che delegano il loro accudimento a nonni, parenti e amici.

Tutto ciò suscita paura che la malattia sia contagiosa, sentimenti d’invidia,

solitudine, abbandono e senso di colpa per le fantasie aggressive che rivolgono al

fratello malato, o per la rivalità che c’è stata fino al momento della diagnosi. Il

legame fraterno, come quello materno, è qualitativamente cruciale ai fini della

socializzazione con i pari e di una buona capacità relazionale in età adulta.

È necessario accogliere dunque il loro bisogno di essere considerati, compresi e

ascoltati, così com’è importante dare informazioni chiare su quello che sta

accadendo. I fratelli possono costituire inoltre un prezioso aiuto per il paziente, in

quanto possibili donatori di midollo osseo: in questo caso, la situazione può essere

ben diversa, perché si diventa insieme protagonisti e ci si sente investititi

d’importanza, gratitudine e riconoscenza da parte di tutta la famiglia (Scarponi,

2003).

1 “La famiglia di fronte alla malattia”, Divisione di Psicologia, Istituto Nazionale Tumori, Milano.

33

3.1.3 Le conseguenze sul sistema familiare

La diagnosi di cancro, il successivo percorso costituito da interventi medici e

chirurgici altamente invasivi, l’eventualità della morte e di una recidiva,

coinvolgono il paziente e l’intera famiglia con ripercussioni notevoli sulle

relazioni tra i suoi membri e sull’equilibrio famigliare. La famiglia si configura,

infatti, come un organismo con un funzionamento peculiare e non è la semplice

somma degli individui che la compongono. Le parti risentono di tutto ciò che

succede alle altre (Greco, Perry, 2000), si influenzano e si condizionano

reciprocamente, sono, insomma, in un rapporto di interdipendenza. Ogni famiglia,

inoltre, è dotata di una propria omeostasi, ovvero tende a mantenere un personale

equilibrio e a conservare le proprie caratteristiche di fronte a squilibri che possono

essere determinati sia da variazioni interne che esterne. È chiaro, quindi, che la

diagnosi di neoplasia, cadendo all’interno di tale contesto, suggerisce di pensare al

cancro non solo come malattia biologica e patologica dell’individuo, ma anche

come evento stressante e come malattia familiare (Biondi, 1994). In letteratura si

evidenziano due linee di ricerca sull’ambiente familiare dei pazienti oncologici: la

prima riguarda i cambiamenti negli affetti e nei rapporti nel contesto di cura;

l’altra si focalizza, invece, sulle conseguenze psicologiche e/o psicopatologiche

della malattia nei caregiver, in quanto possono verificarsi sindromi di

disadattamento, nonché quadri sintomatologici che richiamano il disturbo da

stress post traumatico. L’architettura delle relazioni familiari risente di conflitti di

ruolo, difficoltà di comunicazione, isolamento sociale, disorganizzazione o,

all’opposto, di un esasperato invischiamento. Carroll, Robinson e Watson (2005)

sostengono che la diagnosi di cancro porta l’intera famiglia a funzionare lungo un

continuum che va dalla perdita di senso alla ricerca di significati, da sentimenti

luttuosi alla necessità di sublimazione e trasformazione, dalla rinuncia alla voglia

di godere il più possibile quel che di buono capita. Kissane e Bloch (2002)

aggiungono che è lo stile di funzionamento familiare a fare la differenza

relativamente al mantenimento del benessere emotivo del paziente e dei suoi

congiunti.

3.2 La relazione dell’equipe curante con i famigliari

Sono frequenti le difficoltà di relazione con i curanti, anche a distanza di tempo

dalla diagnosi (Gritti et al., 2011). La comunicazione della diagnosi è per

l’appunto un momento delicato, in cui ci si gioca l’alleanza terapeutica e la

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compliance. Spesso i medici omettono informazioni o non illustrano la diagnosi

del bambino dinanzi a lui per non rendere le cose ancora più difficili e tristi. La

comunicazione viene fatta pertanto dal medico ai genitori che sceglieranno poi

come e quando dirlo al figlio. È sempre bene rispondere a tutte le loro domande,

rassicurarli circa il fatto che non hanno nessuna colpa o responsabilità per la

malattia e utilizzare un linguaggio chiaro e comprensibile, calibrandolo sul livello

socio-culturale degli interlocutori e anche sull’età, se si tratta appunto di pazienti

pediatrici.

Può capitare che i genitori non siano in grado di parlarne in maniera adeguata con

il bambino e che richiedano l’assistenza e il supporto di un medico o di uno

psicologo.

La tendenza poi di alcuni medici ad informare per primo il padre riguardo alla

diagnosi, lasciando a lui il compito di come dirlo alla moglie, è basata sull’errata

convinzione che l’uomo dal punto di vista emotivo sia più forte; è invece noto che

le madri si mostrano decisamente più adeguate ed efficienti di fronte a si

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Publisher
A.A. 2011-2012
90 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/01 Psicologia generale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Danilo p di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia della salute e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bologna o del prof Ricci Bitti Pio Enrico.