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Questa prevenzione, è orientata verso gli adulti, affinché interrompano determinati
comportamenti pericolosi, verso i bambini, per aiutarli a difendersi, verso le figure
potenzialmente protettive, perché attivino la loro azione protettiva al più presto.
Nonostante questo tipo di intervento risulti molto frustrante e costoso per la società,
resta ineludibile e il suo valore va ricercato nella possibilità di evitare la reiterazione del
danno. Nell’approccio alla prevenzione terziaria si sono fatti molti passi avanti nel
considerare come basilare il cambiamento degli stili relazionali della famiglia violenta,
coinvolta essa stessa nella sofferenza che il maltrattamento produce. Si determinano
così situazioni in cui, tutti hanno bisogno di aiuto. È ormai radicata l’idea che la
violenza, nella maggior parte dei casi, non sia dovuta a difficoltà momentanee dei
genitori o ad errori di tipo educativo, ma a vere e proprie modalità relazionali
patologiche deformate, in cui regna la confusione dei ruoli, l’assenza di norme (Bruner,
1995). Mantenendo la priorità sulla salvaguardia dei bambini (normativa sulla tutela del
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minore), va verificata la vera disponibilità della famiglia a capire le regioni che hanno
determinato il maltrattamento e valutare quanto essa sarà capace di adottare strategie di
coping (Lazarus, Folkman 1988) che la preservino dal reiterare la violenza. (Patterson,
1988).
5.4 Progetti Preventivi
Gli operatori, come medici pediatri, insegnati, che sono regolarmente a contatto con i
bambini e le famiglie, di fronte ad un caso di abuso, devono essere in grado di
riconoscerne i sintomi dai segni fisici, dai comportamenti anomali, ma soprattutto
dovrebbero considerare che il maltrattamento, è sempre principalmente di carattere
psicologico dei sentimenti del minore. Per questo a tutti gli operatori è richiesta una
certa dimestichezza con la vita emotiva del bambino, saper tollerare la sofferenza
mentale dei minori e in parte farsene carico per poterli aiutare in modo più efficace. A
volte i professionisti provano ansia rispetto a ciò che potrebbe accadere a loro stessi, ai
minori e alle famiglie coinvolte nel maltrattamento, qualora fosse denunciato, e
ricorrono a precisi meccanismi difensivi per non incontrare le emozioni che il
maltrattamento produce (dolore, angoscia, rabbia) I meccanismi difensivi a cui anche
involontariamente si ricorre sono:
-Il Distacco emotivo, per cui la sofferenza del bambino non viene percepita;
-L’Idealizzazione, dei genitori o dell’adulto di riferimento sopravvalutandone le capacità
e non vedendone limiti;
-La Rimozione, dettata dall’esigenza di dimenticare per allontanare il dolore;
-La Razionalizzazione, che induce a trovare delle giustificazione scientifiche per dare un
senso logico all’accaduto; 63
-La Scissione, in cui ci si schiera dalla parte delle vittime maltrattate, non favorendo
alcuna forma di recupero del maltrattante.
Per evitare questo tipo di comportamenti, è necessaria una specifica formazione dei
professionisti, perché sappiano gestire le loro ansie e paure e possano lavorare con
serenità. Nei casi estremi, nella prevenzione terziaria, si deve ricorrere
all’allontanamento del bambino dal contesto maltrattante.
L’allontanamento è una misura di prevenzione estrema a cui pensare quando la
convivenza del bambino disabile con la sua famiglia diventa pericolosa per la sua
incolumità. Tale misura preventiva non può mai essere considerata un atto conclusivo,
ma un punto per ripartire, offrendo ai genitori la possibilità di riconquistare la loro
capacità genitoriale con una attenta azione di controllo e sostegno.
Qualunque prevenzione si stia attuando, primaria secondaria terziaria ,la possibilità di
efficacia passa principalmente attraverso la formazione e l’intervento sulla mente e
sulla soggettività. La mente è il contesto privilegiato della prevenzione, è innanzitutto
nella mente dell’adulto che un bambino può essere ben-trattato o mal-trattato, a seconda
di come i suoi bisogni vengono definiti in modo corretto o scorretto. (Foti, 1998) Il
maltrattamento del bambino e nel caso specifico del bambino disabile, prima che venga
attuato, viene preparato nella mente dell’adulto, che ha comunque qualche deficit di
consapevolezza e capacità di elaborare la realtà. (De Natale, 2001) Per prevenire la
violenza, occorre cambiare stili di pensiero, costruire nuovi schemi mentali, sia nei
genitori che negli operatori, formarli prima di tutto come persone e poi come genitori e
professionisti, sviluppando in loro competenze emotive e relazionali. (Bernardi, 1993)
Per prevenire in modo efficacie l’abuso occorre fare una vera e propria lotta
all’analfabetismo emotivo (Goleman, 1995), è proprio l’insensibilità emotiva che
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predomina nella violenza all’infanzia, per cui nella formazione alla prevenzione
occorrono delle metodologie protese a sviluppare negli adulti l’apprendimento del
linguaggio dei sentimenti, per instaurare tra il bambino e l’adulto un nuovo codice di
comunicazione (Marchetti, 2005).Nell’attivare l’intelligenza emotiva si impara a dare
un nome ai sentimenti, a riconoscerli, a rispettarli, ad avere un controllo di ogni
emozione prendendone consapevolezza e ciò impedisce alla impulsività di avere il
sopravvento e dominare le nostre azione (Bertetto, 2008).
Il maltrattamento nei bambini disabili si può prevenire, si può sconfiggere, il silenzio,
dettato dalla “patologia del segreto”, dell’indicibile dell’impensabile, deve essere
accolto dalla società intera non dal singolo individuo. Una nuova speranza viene, anche
dalla Chiesa che ha a rotto il muro del silenzio che ha avvolto per anni il tema della
violenza sui minori. Papa Francesco ha deciso di dare vita ad una commissione per la
protezione dei minori vittime degli abusi. L’annuncio è stato dato il 05 Dicembre 2013
dal Cardinale O’Malley. Tale commissione avrà il compito di riferire sullo stato attuale
delle vittime degli abusi, suggerire in accordo con le conferenze episcopali sui
provvedimenti da adottare, proporre nomi di persone adatte per la attuazione di nuove
iniziative. La commissione si occuperà di organizzare programmi di formazione per
bambini, genitori e di tutti coloro che lavorano con i minori, compresi i catechisti e i
sacerdoti. La fragilità della nostra società, della famiglia, dell’genitore, dell’uomo, in
generale non è un difetto, ma l’espressione della condizione umana e non è mai
all’origine della violenza, anzi la percezione del limite porta a considerare e a capire i
limiti degli altri. (Andreoli, 2008.) La violenza è data dalla constatazione di non essere
forti come si vorrebbe, è data dalla delusione di non essere arrivati dove si pensava di
avere diritto di essere. L’uomo fragile non è mai violento. 65
Conclusioni
Il maltrattamento all’infanzia è un fenomeno diffuso in tutto il mondo ed interessa ogni
segmento della popolazione ,oggi più che mai è riconosciuto come un problema sociale
significativo, che merita attenzione. Tuttavia, come ho più volte sottolineato in questo
mio lavoro, sono scarse le conoscenze rispetto al fenomeno della violenza sui bambini
con disabilità. Il maltrattamento di questi bambini può considerarsi un tabù nel tabù,
forse perché associare disabilità e violenza è ancora più difficile da sostenere
emotivamente. I pochi e disomogenei dati epidemiologici a disposizione, non ci
consentono di definire con precisione l’incidenza della violenza contro questi bambini.
Oggi però, sappiamo che, l’unico modo per evitare questo fenomeno è la prevenzione,
di cui l’intera società si deve far carico, sostenendo le famiglie la comunità, la scuola, i
centri di recupero, gli ospedali, le parrocchie, coltivando insieme una idea di
cambiamento. Se il principio dell’inclusione vale per tutti i bambini, è particolarmente
vero per i bambini disabili, che sono generalmente più vulnerabili. Gli psicologi clinici,
gli operatori delle associazioni, delle cooperative i medici sanitari, gli insegnanti che
operano nel campo della disabilità, hanno un ruolo importante nella comprensione,
nell’analisi e poi nella prevenzione del maltrattamento, a partire dal rapporto quotidiano
e diretto che hanno con le famiglie e con gli stessi bambini. È infatti attraverso
l’osservazione diretta del contesto familiare e sociale, che si può cogliere lo sfondo
emotivo e psicologico in cui il bambino vive e la qualità delle cure che riceve. Vorrei
soffermarmi infine sul ruolo dello psicologo clinico. Il suo intervento nell’ambito della
disabilità, deve considerare la necessità di fornire risposte multidisciplinari, biologiche,
sociali, psichiche; la sua abilità di ascoltare, di identificare situazioni a rischio e quindi
di prevenire casi di maltrattamento, deve accrescersi e diffondersi, nella consapevolezza
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che un attento e tempestivo intervento, può ridurre il pericolo di un maltrattamento e
scongiurare l’abisso di silenzio e isolamento che ne consegue. Pertanto il cambiamento
non più visto solo come “cura”, ma come sviluppo del bambino disabile verso modalità
che siano più funzionali alla sua condizione di salute e al suo contesto di vita. Nel
contempo, ogni intervento dovrebbe mirare a diminuire il disagio della famiglia
trovando insieme risorse nuove che possano facilitare la costruzione di percorsi
resilienti. 67
Bibliografia
-Abelson A.G. Respite Care needs of parents of children with developmental
disabilities,”Focus on Autism and other Developmental Disabilities” Vol. 14 pp 96-101,
1999.
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-Andreoli V. L’ uomo di Vetro Milano, Rizzoli, 2008.
-Andreoli V., Cassano G.B., Rossi R Manuale statistico e diagnostico dei disturbi
mentali DSM.-VI Milano, Masson, 1995
-Anolli L, Ciceri R. La voce delle emozioni, Milano, Franco Angeli, 1992.
-Atkinson R. Hildgard’s Psicologia,Padova, Piccin, 1999.
-Avon A. L’integrazione degli alunni disabili nella Riforma, in Dirigere la scuola anno
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-Barzaghi C. L’integrazione scolastica una questione di relazioni in Psicologia della
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-Berlanda P,. Santin R., Venturelli S. L’esperienza dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto alla
“Cooperativa La Rete ”d