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2.4 UN DUELLO “ALLA MACCHIA”
Svolta la presentazione dei personaggi di Tancredi e Argante, è ora possibile passare
all’analisi del duello che li vede protagonisti in apertura del canto XIX.
Già la morte o il consiglio o la paura
da le difese ogni pagano ha tolto,
e sol non s’è da l’espugnate mura
il pertinace Argante anco rivolto.
Mostra ei la faccia intrepida e secura
e pugna pur fra gli inimici avolto,
più che morir temendo esser respinto;
e vuol morendo anco parer non vinto.
Ma sovra ogn’altro feritore infesto
sovragiunge Tancredi e lui percote.
Ben è il circasso a riconoscer presto
al portamento, a gli atti, a l’arme note,
lui che pugnò già seco, e ’l giorno sesto
tornar promise, e le promesse ìr vòte…
(XIX, 1-2).
L’apertura cupa del canto, che sottolinea come ormai non vi siano più pagani pronti a
difendere le mura della città, ben si riallaccia alla conclusione drammatica che chiudeva
il canto XVIII, riportando così l’attenzione del lettore su uno scenario di guerra ormai
totale. Su questo panorama di desolazione spicca l’immagine solitaria di Argante sicuro
di sé e pronto a morire sul campo. La tensione della battaglia non gli impedisce però di
riconoscere prontamente l’antico avversario, con cui già si era scontrato e al quale
rinfaccia subito il mancato rispetto delle regole cavalleresche.
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…Onde gridò: «Così la fé, Tancredi,
mi servi tu? così a la pugna or riedi?
Tardi riedi, e non solo; io non rifiuto
però combatter teco e riprovarmi,
benché non qual guerrier, ma qui venuto
quasi inventor di machine tu parmi.
Fatti scudo de’ tuoi, trova in aiuto
novi ordigni di guerra e insolite armi,
ché non potrai da le mie mani, o forte
de le donne uccisor, fuggir la morte.»
(XIX, 2-3).
Lo scontro fra Argante e Tancredi, interrotto nel canto VI, avrebbe dovuto riprendere
dopo una tregua di sei giorni stabilita dagli araldi: infatti, in quell’occasione, il circasso
si presentò allo steccato con Ottone, suo prigioniero, e con meraviglia constatò l’assenza
dell’antagonista, che accusò subito di viltà, quantunque l’altro cavaliere fosse ben noto
per coraggio e lealtà. Anche in quell’occasione Argante pronunciò parole sprezzanti nei
confronti dei cristiani, che ben rivelano il suo titanismo:
Di loro indugio intanto è quell’altero
impaziente, e li minaccia e grida:
«O gente invitta, o popolo guerriero
d’Europa, un uomo solo è che vi sfida.
Venga Tancredi omai che par sì fero,
se ne la sua virtù tanto si fida;
o vuol, giacendo in piume, aspettar forse
la notte ch’altre volte a lui soccorse?
(VII, 73).
Agli occhi di Argante Tancredi era e rimane un pavido, pronto a farsi scudo della notte
o, come nel caso del duello finale, delle macchine da guerra progettate: «Fatti scudo de’
tuoi, trova in aiuto / novi ordigni di guerra e insolite armi». Oltre a tutto ciò non si
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risparmia di lanciargli la pungente accusa (di cui, si ricordi, lo stesso Tancredi ne sente
ancora il rimorso) di essere uccisore delle donne: «o forte / de le donne uccisor…»,
facendo naturalmente riferimento al duello tra Tancredi e Clorinda, in cui questa trovò
la morte per mano di lui (XII, 51-70).
Vienne in disparte pur tu ch’omicida
sei de’ giganti solo e de gli eroi:
l’uccisor de le femine ti sfida.»
Così gli dice; indi si volge a i suoi
e fa ritrarli da l’offesa, e grida:
«Cessate pur di molestarlo or voi,
ch’è proprio mio più che comun nemico
questi, ed a lui mi stringe obligo antico.»
«Or discendine giù, solo o seguito
come più vuoi; » ripiglia il fer circasso
«va’ in frequentato loco od in romito,
ché per dubbio o svantaggio io non ti lasso.»
Sì fatto ed accettato il fero invito,
movon concordi a la gran lite il passo:
l’odio in un gli accompagna, e fa il rancore
l’un nemico de l’altro or difensore.
(XIX, 5-6).
Tancredi non poteva certo tacere di fronte alle accuse di viltà che gli vengono mosse da
Argante; anche lui, secondo la topica della tenzone che precede lo scontro fisico, non è
parco nel provocare l’avversario con parole ingiuriose. Tanta acredine non inficia però
la loro correttezza: Tancredi protegge l’altro dai suoi compagni nell’infuriare della
battaglia, per serbare a sé l’onore e il vanto di sconfiggerlo: «ch’è proprio mio più che
comun nemico / questi, ed a lui mi stringe obligo antico».
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Escon de la cittade e dan le spalle
a i padiglion de le accampate genti,
e se ne van dove un girevol calle
li porta per secreti avolgimenti;
e ritrovano ombrosa angusta valle
tra più colli giacer, non altrimenti
che se fosse un teatro o fosse ad uso
di battaglie e di caccie intorno chiuso.
(XIX, 8).
Il luogo deputato al duello sarà, non a caso, un luogo isolato, a parte rispetto alla
mischia della battaglia, tale da ospitare così quello che si potrebbe definire come un
“duello alla macchia”. Nonostante i duelli in luoghi solitari, senza cioè la presenza di
testimoni, fossero banditi dalle regole cavalleresche, Tasso non esita a collocare “alla
macchia” due dei principali duelli dell’opera: quello fra Tancredi e Clorinda e
quest’ultimo fra Tancredi e Agante. Protagonista di entrambi è il medesimo paladino
cristiano e, non a caso, subito dopo entrambi i combattimenti, egli perderà i sensi,
mostrando così tutta la sua fragilità. Il fatto che questo non potesse essere visto da altri,
fuorché da noi lettori dell’opera, permette al personaggio di conservare nella favola
quella reputazione di eroe che, altrimenti, verrebbe compromessa. Oltre a ciò si
potrebbe dire che il poeta, nel collocare in un luogo a parte questi scontri, volesse
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sottolinearne maggiormente la sostanza tragica. I pagani coinvolti in questi duelli non
sono semplici comparse, ma eroi per eccellenza che, come tali, non avrebbero potuto
perdere la vita nel turbine di una qualunque battaglia. A loro viene concesso il privilegio
di morire realmente da eroi, mostrando fino alla fine il loro valore, oltre che la loro
intensa e complessa umanità. Nonostante il duello avvenga “alla macchia”, ciò non
implica per forza un venir meno della componente teatrale assolutamente necessaria in
47 E. Sala Di Felice, op. cit., pp. 61-62. 70
occasioni di questo tipo. Se l’ombrosa angusta valle che ospiterà il duello potrebbe
essere benissimo, a detta dell’autore stesso, paragonata a un teatro, è perché, nonostante
l’assenza dei testimoni, siamo noi lettori ad essere invitati a prendere parte al
combattimento e ad assistervi come dagli spalti di un teatro; è a noi lettori che spetta di
vagliare e giudicare la correttezza del combattimento che si sta per volgere. Lo stesso
termine «teatro» non a caso ricorre anche nell’episodio del duello fra Tancredi e
Clorinda, reso oscuro a testimoni a causa della notte.
Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian sì memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto sì grande,
piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.
(XII, 54).
In questo caso, Tasso stesso interviene sulla scena ribaltando il topos classico, secondo
cui la notte non rendeva possibile il manifestarsi di gesta eroiche, e rivendicando invece
eterna fama per questi eroi, le cui azioni valorose, che sarebbero degne di un sole
luminoso e di essere osservate da un grande pubblico, possono essere rese immortali
grazie alla forza della stessa poesia.
Si giunge così ad uno dei momenti più intensi del canto XIX, che tanto fece riflettere i
numerosi studiosi dell’opera, portandoli a scrivere pagine e pagine nel tentativo di
spiegare un fatto decisamente insolito. Il duello non è ancora iniziato, quando si assiste
ad un momento di forte sospensione, in cui il personaggio di Argante, fino ad ora così
imperturbabile, sembrerebbe aprire il suo animo, rivelando una complessità del tutto
inusuale ad un personaggio del suo calibro.
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Qui si fermano entrambi, e pur sospeso
volgeasi Argante a la cittade afflitta.
Vede Tancredi che ’l pagan difeso
non è di scudo, e ’l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: «Or qual pensier t’ha preso?
pensi ch’è giunta l’ora a te prescritta?
S’antivedendo ciò timido stai,
è ’l tuo timore intempestivo omai.»
«Penso,» risponde, «a la città del regno
di Giudea antichissima regina,
che vinta or cade, e indarno esser sostegno
io procurai de la fatal ruina,
e ch’è poca vendetta al mio disdegno
il capo tuo che ’l Cielo or mi destina.»
Tacque, e incontra si van con gran risguardo,
ché ben conosce l’un l’altro gagliardo.
(XIX, 9-10).
A dispetto delle accuse di viltà che Argante mosse ripetutamente a Tancredi, questi, con
cortese atto cavalleresco, non rifugge dal gettare via il proprio scudo vedendone
l’avversario privo. Tuttavia, di fronte alla vista del circasso immerso profondamente in
sé, non è in grado di coglierne la profondità dei pensieri. Tancredi è convinto che
Argante si soffermi in meditazione colto da un improvviso timore, quasi sentisse che la
morte è per lui vicina. È naturale che Tancredi non riesca immediatamente a cogliere la
profondità dei pensieri di Argante; d’altra parte il circasso non ha mai dato adito a tali
riflessioni nel corso di tutta l’opera. Mai come nessun altro personaggio della Liberata,
Argante aveva dato segni di cedimento o di smarrimento. Di fronte all’immagine
distrutta della grande città, egli sembrerebbe riflettere sull’inesorabile rovina che ha
travolto Gerusalemme. Crollano quelle certezze che hanno reso il personaggio titanico
fino ad ora, sempre convinto di sé e della sua azione bellica. Argante arriva alla
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comprensione che invano si è adoperato per la salvaguardia della città. Un fato
imperscrutabile e nemico si è abbattuto su di essa e l’ha travolta. Per la prima volta, nel
corso di tutto il poema, Argante si rivel