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Sin dal 1959, anno di istituzione della CEDU, sono state adottate circa 10 000
sentenze vincolanti per gli Stati interessati, che spesso hanno spinto i governi ad apportare
modifiche alle rispettive legislazioni nazionali. La normativa posta in essere dalla
Convenzione, rende la Corte un importante strumento per i cittadini, i quali, possono
ricorrervi ogni qualvolta vedano lesa la propria sfera giuridica soggettiva. Spetterà poi alla
Corte considerare ricevibile o irricevibile il singolo ricorso, a seconda che vengano rispettati
o meno i requisiti esposti all’art. 35 (si può adire soltanto dopo aver esaurito le vie di ricorso
interne, il ricorso non può essere anonimo e non deve essere manifestamente infondato).
Analizzando la giurisprudenza della CEDU in materia di “schiavitù, servitù e lavoro
forzato”, si nota che essa ha mantenuto negli anni un giudizio coerente. Molti sono stati i
ricorsi per violazione dell’art.4, ma non sempre però si è giunti a una sentenza favorevole per
i ricorrenti, infatti si sono verificati casi in cui la Corte ha dichiarato che non c’è stata alcuna
37
violazione o addirittura ha considerato irricevibile la domanda di ricorso .
In materia di sfruttamento del lavoro, la sentenza (n. 73316/01) del caso Siliadin c.
38
Francia del 26/07/2005 è quella meno recente e vede coinvolta una cittadina togolese (Siwa-
Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, entrata in vigore nel 1953
36
http://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf
Fact Sheet - Slavery, servitude and forced labour , aggiornato al Marzo 2017
37
http://www.echr.coe.int/Documents/FS_Forced_labour_ENG.pdf
CEDU, Siliadin v. France, 06/07/2005 (sentenza n. 73316/01) http://hudoc.echr.coe.int/eng-
38
press#{"itemid":["003-1412014-1474284"]} 17
Akofa Siliadin). Questa, una volta arrivata in Francia nel 1994 divenne la serva domestica
della famiglia B. e della signora D. che le sequestrò il passaporto e la costrinse a lavorare
senza alcuna remunerazione. Lamentando una mancata tutela da parte dei giudici francesi,
dato che secondo la legislazione nazionale i responsabili non potevano essere incriminati
penalmente per il reato di riduzione in schiavitù, Siliadin portò la questione dinnanzi la Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel suo giudizio, essa ha stabilito che Siliadin non è stata
ridotta in schiavitù, dato che la famiglia B. non ha esercitato su di lei un vero e proprio diritto
di proprietà, ma ha altresì riconosciuto la “riduzione in servitù” della sua persona. La Corte
ha quindi accertato la violazione dell’art.4 e ha condannato le istituzioni francesi, per non
aver introdotto all’interno del proprio ordinamento delle disposizioni penali che dissuadano
dal commettere tali violazioni. 39
La sentenza C.N. c. Regno Unito del 13 novembre 2012 (sentenza n. 4239/08) è molto
più recente e proprio come nel caso di Siliadin, la ricorrente ha adito la Corte in quanto
lamentava di essere stata sottoposta a una condizione di “servitù domestica”. Anche in
questo caso, nel suo giudizio la Corte ha state accertato sia la violazione dell’art.4 e sia
l’inadeguatezza dell’ordinamento penale inglese in materia (era assente una legislazione
nazionale che disciplinasse il reato di “schiavitù domestica”).
Il fenomeno della schiavitù è strettamente legato a quello della tratta, ovvero il
trasporto e il commercio degli esseri umani. Due sentenze in particolare hanno riconosciuto
ai ricorrenti che hanno adito la Corte lo status di vittime della tratta. Il primo caso Rantsev c.
40
Cipro e Russia del 7/01/2010 (sentenza n. 25965/04) . In questa occasione la Corte ha
accertato le violazioni: dell’art.2 da parte di Cipro per mancanza di una indagine effettiva;
dell’art. 4 da parte di Cipro (per non aver protetto la vittima e per non avere un quadro
normativo in materia di Tratta) e Russia (per non aver adottato le misure necessarie a
individuare i trafficanti dei quali la ragazza è stata vittima); dell’art. 5 (diritto alla libertà e alla
sicurezza) da parte di Cipro.
CEDU, C.N v. United Kingdom, 13/11/2012 (sentenza n. 4239/08) http://hudoc.echr.coe.int/fre-
39
press#{"itemid":["003-4153035-4902782"]}
CEDU, Rantsev v. Cipro and Russia, 7/01/2010 (sentenza n. 25965/04) http://hudoc.echr.coe.int/eng-
40
press#{"itemid":["003-2981696-3287868"]} 18 41
L’altro caso è L. E. c. Grecia del 21/01/2016 (sentenza n. 71545/12) . In particolare,
la Corte ha ritenuto che per quanto riguarda l’aspetto normativo internazionale la Grecia
avesse adempiuto ai suoi obblighi, aderendo alle Convenzioni in materia. Detto ciò ha
riscontrato alcune difformità sul suo operato interno, ritenendo il suo comportamento
inadempiente per vari motivi: aveva lasciato trascorrere troppo tempo tra la denuncia e il
riconoscimento dello status di vittima della tratta della ricorrente, il processo davanti al
giudice penale si era rivelato inadeguato e inoltre, le forze di polizia greche e quelle nigeriane
non hanno cooperato tra di loro per condurre le indagini sulla tratta degli esseri umani.
Abbiamo potuto constatare che spesso il ricorso alla CEDU può garantire una forma
di giustizia e di protezione per i singoli individui. Nelle quattro sentenze analizzate, la Corte
ha espresso un giudizio negativo nei confronti dei singoli Stati Nazionali che non hanno
introdotto all’interno del loro ordinamento le misure legislative penali necessarie per
proteggere le vittime e condannare i trafficanti. Questo giudizio di condanna scaturisce
dall’esigenza posta dal trattato della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che non
prevede soltanto che gli Stati aderiscano ad essa, ma che adottino anche misure legislative di
carattere penale, volte a scoraggiare le pratiche che violino i diritti dei cittadini.
Questi dati sottolineano le difficoltà dei sistemi giuridici nazionali ad adeguarsi alla
giurisprudenza posta in essere dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Se infatti le
Costituzioni dei singoli Stati tutelano all’interno delle loro disposizioni i diritti fondamentali
della persona umana, i rispettivi legislatori non hanno posto in essere un quadro normativo
penale volto a difesa di tali diritti. Il ritardo con il quale sono state recepite le normative
internazionali, sommato ai profondi cambiamenti che hanno investito i Paesi occidentali e
quelli in via di sviluppo, pone in evidenza una situazione preoccupante. I trafficanti di esseri
umani e i caporali danno vita a un sistema schiavistico che si alimenta sempre di più di sistemi
sofisticati e ingegnosi per ingannare e ostacolare il controllo e le indagini delle forze
dell’ordine. Perciò, se a queste “innovazioni” gli Stati non oppongono un sistema giuridico
con risvolti penalistici dettagliato e incisivo, il fenomeno della schiavitù non potrà mai essere
contrastato in maniera efficace. In conclusione, la legislazione nazionale e quella
CEDU, L. E. v. Greek, 21/01/2016 (sentenza n. 7145/12) http://hudoc.echr.coe.int/eng-
41
press#{"itemid":["003-5277600-6561216"]} 19
sovranazionale non viaggiano sullo stesso binario, rendendo la vita più semplice ai trafficanti,
caporali e imprenditori, che si servono del lavoro dei braccianti riducendoli in schiavitù.
2.6 L’ILO e il lavoro forzato.
La riduzione in schiavitù o in servitù della persona implica nella quasi totalità dei casi
che le vittime vengono impiegate per svolgere determinati lavori. Proprio perché si tratta di
lavoro, non possiamo non analizzare la posizione dell’ILO (International Labour
Organization) in materia di schiavitù e lavoro forzato.
L’ILO è stata istituita nel 1919 congiuntamente al trattato di pace di Versailles, che
pose fine alla Prima Guerra mondiale, con l’obiettivo di diffondere ovunque condizioni di
42
lavoro umane e dignitose, e di combattere la povertà . Obiettivi ambiziosi e importanti,
scaturiti dall’esigenza di sanare la profonda crisi derivata dal conflitto. L’ILO beneficia del
sostegno e del riconoscimento universale in materia di promozione dei diritti fondamentali
nel lavoro, proprio per questo emana Convenzioni volte a indirizzare il comportamento delle
singole legislazioni nazionali e a fornire elementi chiave per la formazione delle norme.
43
Svolge inoltre un’attività di consultazione e di “dialogo sociale” tra i governi, i
rappresentanti degli imprenditori e le organizzazioni dei lavoratori. Proprio sul sito
dell’Organizzazione, nella sezione del “Lavoro Forzato” troviamo alcuni dati interessanti.
Secondo le stime, oltre 12 milioni di persone nel mondo sono soggetti a pratiche di lavoro
forzato, di cui 10 milioni nel settore privato e 2 milioni per imposizione diretta dei singoli
Stati. Le cifre di questo traffico di schiavi umani fruttano ai criminali un business di oltre 32
miliardi di dollari. Questi numeri sono veramente alti, ed è impensabile che nonostante le
normative internazionali emanate in materia, non si riesca a contrastarne efficacemente la
diffusione di tale fenomeno.
Per analizzare il quadro normativo posto in essere da tale Organizzazione nella
materia titolo di questa tesi, dobbiamo partire dalla Convenzione sul lavoro forzato e
44
obbligatorio del 1930 . Il contenuto di tale atto mira a dissuadere e a imporre agli Stati
Paragrafo “Storia”, http://ilo.org/rome/ilo-cosa-fa/storia/lang--it/index.htm
42 Paragrafo “Struttura tripartita e dialogo sociale”, http://ilo.org/rome/ilo-cosa-fa/struttura-tripartita/lang--
43
it/index.htm
Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio del 1930, entrata in vigore il 1/05/1932
44
http://ilo.org/wcmsp5/groups/public/---europe/---ro-geneva/---ilo-
rome/documents/normativeinstrument/wcms_152328.pdf
20
ratificanti una condotta volta a vietare le pratiche di lavoro forzato. Infatti al primo articolo,
viene specificato che ogni Stato membro che ratifichi la Convenzione debba impegnarsi ad
abolire nel più breve lasso di tempo possibile l’impiego del lavoro forzato o obbligatorio in
tutte le sue forme. È prevista però una leggera contraddizione, nonostante in questi primi
articoli si chiede agli Stati di prendere tutte le misure necessarie per proteggere i propri
cittadini dal lavoro forzato, all’art.7 è espressamente previsto che «i capi che esercitano
funzioni amministrative potranno, con la espressa autorizzazione delle autorità competenti,
ricorrere al lavoro forzato o obbligatorio alle condizioni previste nell’articolo 10 della
presente convenzione». Perciò, in alcuni casi e a determinate condizioni, viene quindi<