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IL CORO
Attraverso le parole del Satiro, l’autore intende stravolgere quelle immagini illusorie e
fallaci che si incontrano all’interno dell’opera.
Un discorso a parte merita di essere fatto anche per il Coro che chiude il I Atto
dell’opera. Se infatti, all’interno del Prologo, Amore viene smentito, il discorso
pronunciato dal coro risulterà essere addirittura ribaltato e parodiato dal monologo del
Satiro.
All’interno dell’Aminta, il Coro mantiene la tradizionale funzione di commento allo
svolgimento dell’azione, ma si propone anche lo scopo di chiarire ulteriormente le
dinamiche principali della vicenda.
O bella età de l’oro,
non già perché di latte
sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco;
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre, e gli angui errar senz’ira o tosco;
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino;
ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto, 33
che di nostra natura ’l feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell’alme in libertate avvezze,
ma legge aurea e felice
che natura scolpì: “S’ei piace, ei lice”.
(656-681).
Il discorso del coro rivela innanzitutto aspetti particolari. Anche questo passo dimostra
come Tasso intenda manipolare la tradizione a lui pervenuta, ampliandola di ulteriori
significati. Egli reinventa l’aurea aetas dei latini: questa, infatti, non è più un
mondo mitico dove fatica, lavoro e commerci non esistevano, poiché Natura dava
spontaneamente agli uomini il necessario per vivere felici. Qui essa assume le
sembianze di un mondo puro e incontaminato solo perché presociale e, in quanto tale,
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non ancora sottoposto a leggi artificiali.
Questa condizione beata è venuta meno nel momento in cui l’onore è penetrato nel
mondo idillico, sconvolgendolo. Proprio al coro viene affidato il compito di dare un
nome a quel principio corruttore che ha stravolto i valori dell’Arcadia. L’onore è la
conseguenza legittima della nascita della corte; è l’emblema di quella norma artificiale
che dalla corte si è irradiata nel mondo pastorale. Onore è quell’arte che spegne e
corrompe la naturalezza e la spontaneità della vita campestre. Si ricordi l’accusa del
Satiro contro i giovani cortigiani che con arte dispongono i capelli in ordinanza.
Quella stessa arte ha corrotto Silvia, la quale orna se stessa mentre si specchia nel
laghetto.
18 S. Zatti, op. cit., p. 137. 34
L’onore si propone di imporre l’autorità di leggi cittadine in un mondo che non
conosceva leggi, se non quelle che Natura stessa aveva stabilito. Il discorso del coro
sembrerebbe dunque ribadire quei concetti e quelle verità drammatiche, che saranno
rivelate anche dal personaggio del Satiro.
Si noti naturalmente la diversità dei linguaggi attraverso cui viene espresso il medesimo
concetto: il Satiro non parla solo di una condizione generale, ma di qualcosa che lo ha
toccato personalmente e dunque le sue parole non potranno che essere più pesanti
rispetto al linguaggio più pacato del coro.
Il principio del “S’ei piace, ei lice” espresso nostalgicamente dal coro, non è dunque in
alcun modo più recuperabile, dal momento che l’onore ha spento la libertà dei sensi,
sottomettendo la Natura alla norma. Il Satiro dunque non farà altro che riproporre
all’attenzione del pubblico una problematica che già il coro aveva presentato alla fine
del I Atto dell’opera. Eppure l’originalità del suo discorso consisterà proprio nel diverso
utilizzo che egli intende fare di ciò che è stato precedentemente detto. Il Satiro non potrà
fare altro che mettere in discussione anche questo passo dell’opera, smontando le teorie
di cui esso risultava essere portatore.
Se infatti, per il coro, l’età dell’oro si presenta come una condizione inevitabilmente
perduta, e troppo lontana nel tempo per poter essere recuperata, per il Satiro essa è
invece ben presente. 35
Con sarcastica ironia egli recupera il discorso del coro per parodiarlo e mostrare come la
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realtà sia ancora più tragica.
e veramente il secol d’oro è questo,
poiché sol vince l’oro e regna l’oro.
(780-781).
Attraverso questi versi, il Satiro vuole sottolineare come l’età dell’oro non sia affatto
scomparsa dal mondo dell’Arcadia. Essa infatti continua a vivere e ad essere ben
presente: solo l’oro e il denaro ora hanno potere. Inoltre il discorso del coro è tutto
caratterizzato dalla presenza di verbi al passato, sintomatici di una condizione
inevitabilmente perduta; quelli che caratterizzano i versi pronunciati dal Satiro sono
invece tutti al presente, a dimostrazione di una condizione decaduta e rovinosa, ma
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drammaticamente attuale. L’età dell’oro cantata dal coro è lontana nel tempo, ormai
sommersa nel passato e non più recuperabile. Ciò che caratterizza il presente, e che il
Satiro mostra nel suo intervento, è invece una nuova età dell’oro, nel senso letterale del
termine. Il tempo stesso è dunque suscettibile di un processo di corruzione che travolge
ogni cosa. Anche un personaggio consapevole come Dafne testimonierà la presenza di
questo processo generale di decadenza nel momento in cui scorgerà Silvia mentre
si specchia, rivelando la sua falsa ingenuità: «il mondo invecchia, e invecchiando
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intristisce», esclamerà infatti con dolore.
Anche le ultime parole pronunciate dal coro, oltre a rivelarsi ancora ulteriormente
illusorie, non potranno che mettere a fuoco maggiormente questo senso di rovina e
corruzione temporale.
19 G. Bàrberi Squarotti, La tragicità dell’“Aminta”, in Fine dell’idillio. Da Dante al Marino,
Il Melangolo, Genova-S. Salvatore Monferrato 1978, pp. 139-173 ( le citt., dalle pp. 166-167).
20 Ibidem.
21 Cfr. II sc. 2, 888-892. 36
Ma tu, d’Amore e di Natura donno,
tu domator de’ regi,
che fai tra questi chiostri,
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene, e turba il sonno
a gl’illustri e potenti:
noi qui, negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l’uso de l’antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, ché ’l sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce.
(710-723).
Onore viene invitato dal coro a lasciare definitivamente il mondo dei pastori: negletta e
bassa turba vengono qui essi definiti richiamandosi a quel principio di povertà, che già
Amore nel Prologo aveva evocato come caratteristico del mondo pastorale e alternativo
al mondo della corte. Si invita il principio corruttore a ritornare nel mondo in cui ha
avuto origine, ovvero la corte stessa, poiché l’Arcadia non è in grado di comprendere
qualcosa che non le appartiene da sempre per natura. Sarà nuovamente il Satiro a
mostrare come, di fatto, ciò non potrà accadere: onore non può tornare da dove è venuto
poiché la sua presenza si è ormai troppo radicata nel mondo pastorale. Le sue leggi sono
penetrate drasticamente a fondo, tanto da non poter essere più divelte. La sua sede è ora
tanto la corte quanto l’Arcadia, perché ormai esse coincidono.
Al coro non rimane dunque che lanciare un ultimo illusorio invito ad amare, una sorta di
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carpe diem, che possa portare almeno alla salvezza di un breve momento di conforto.
22 G. Bàrberi Squarotti, op. cit., p. 167. 37
L’EPILOGO
L’Aminta si conclude, come è risaputo, con un lieto fine che vedrà finalmente Silvia
ricambiare l’amore di Aminta. Nonostante ciò, non è possibile classificare l’opera come
un idillio sereno: il discorso pronunciato dal Satiro non solo ha svelato una serie di
verità tragiche, ma ha addirittura scalzato dalla scena anche quelle immagini illusorie
che tentavano di fornire versioni rassicuranti.
È possibile ricollegare il suo discorso anche al coro finale che chiude l’opera. Anche
l’Epilogo infatti, se confrontato con ciò che il Satiro ha detto, non potrà che rivelarsi
nuovamente illusorio. Non so se il molto amaro
che provato ha costui servendo, amando,
piangendo e disperando,
raddolcito puot’esser pienamente
d’alcun dolce presente;
ma, se più caro viene
e più si gusta dopo ’l male il bene,
io non ti cheggio, Amore,
questa beatitudine maggiore;
bea pur gli altri in tal guisa:
me la mia ninfa accoglia
dopo brevi preghiere e servir breve;
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e siano i condimenti
de le nostre dolcezze
non sì gravi tormenti,
ma soavi disdegni
e soavi ripulse,
risse e guerre a cui segua,
reintegrando i cori, o pace o tregua.
(1978-1996).
Il coro è ben consapevole della tormentosa vicenda che ha segnato le vite dei due
protagonisti. Anche questi versi sembrerebbero mettere in evidenza quel discorso di
corruzione e decadenza già affrontato precedentemente: si noti infatti l’incipit del passo:
qui il dramma sperimentato da Aminta viene relegato nel passato, mentre per il presente
ci si augura per lui, ma direi per tutta l’Arcadia, un futuro migliore. A questo punto un
pubblico attento non può dimenticare come l’autore abbia precedentemente insistito sul
quel processo di corruzione temporale che si affianca a quello che ha direttamente
colpito il mondo pastorale. Lo stesso personaggio del Satiro, parlando dell’età presente,
non aveva potuto evitare di definirla come estremamente corrotta poiché sottoposta alla
sola legge dell’oro. L’Epilogo rappresenta una dichiarazione di fervido augurio che una
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situazione definitivamente tragica si allontani dal mondo pastorale. Tutto questo non è
possibile. Onore è ormai troppo coinvolto nel mondo dell’Arcadia e la sua presenza non
potrà che portare alla nascita di atteggiamenti contrari a quelli che il coro si auspica per
un’età futura.
23 Ivi, p. 153. 39