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DIECI, CENTO, MILLE GIORNI
Come un automa
lascio la mia anima nel letto,
il corpo stanco non le risponde,
osservo, con stupore,
la vita sulle pareti.
Fotografie intrise di momenti felici,
incollate o scocciate sui muri,
datate dal tempo,
derubate dai colori.
Osservo, con attenzione,
quei volti, prima felici ora velati,
è come se questa stanza rubasse l’anima,
i lineamenti, non più gli stessi,
come avvolti in banchi di nebbia.
Dieci, cento, mille giorni.
Quei visi felici non ci sono più,
nuovi volti sulle pareti,
un brivido lungo la schiena,
il silenzio ci porta via il tempo.
Quei volti sulle pareti come estranei,
quelle foto dal tempo ingrandite,
quei personaggi cresciuti come per magia,
gli stessi, ma senza voce.
Claudio S.- C.C. Genova, Marassi
(dal sito www.carcereliguria.it)
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Capitolo sesto
Il carcere come scuola criminale
6.1 Premessa
Alla luce di quanto detto, nonostante le normative e gli strumenti di
riparazione del danno che permettono la riabilitazione sociale del soggetto,
il carcere, paradossalmente, sembra allontanare il detenuto dalla società,
diventando, così, una “scuola di criminalità”.
Un esempio manifesto di come sia possibile la nascita di organizzazioni
criminali in carcere e di come queste riescano a diffondersi nella struttura
sociale, politica ed economica del paese è presentato in un articolo della
Rivista “L’Arengo del Viaggiatore”. Deborah Ascolese, nell’articolo “O'
Professore: Il carcere come scuola criminale”, scrive: “l’esempio principale
è la vicenda che vede protagonista Raffaele Cutolo, detto “ o’ professore”,
che, entrato in contatto con la realtà penitenziaria a 22 anni, per omicidio,
farà del carcere di Poggioreale il punto di partenza per la sua ascesa nel
mondo della criminalità organizzata.
Servendosi dei guadagni delle tangenti che i suoi fedelissimi imponevano
all’esterno del carcere, Cutolo organizza aiuto e protezione per le fasce più
deboli di detenuti, come poveri o giovani inesperti della vita carceraria; la
sua forza carismatica agisce come una calamità su chi, tra i detenuti, spera
di migliorare la propria condizione; o’ professore, con le sue promesse di
poter combattere contro le ingiustizie, diventa il simbolo di un possibile
riscatto sociale”.
Il carcere non è, dunque, una realtà estranea alla società, ma è parte di essa
e come tale può condizionarla.
L’istituto penitenziario deve permettere il reinserimento del soggetto nella
società, ma spesso diventa il nucleo da cui parte e si organizza la
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criminalità.
Attraverso la corruzione, l’intimidazione e i favoritismi la realtà del carcere
diviene un apparato in cui nasce e si sviluppa l’insofferenza nei confronti
dello Stato, la spinta all’illegalità come una soluzione per riappropriarsi di
un’identità persa.
Per alcuni individui l’istituto diviene, infatti, una vera e propria scuola di
delinquenza poiché in esso si sviluppano tecniche di emulazione da parte di
quei soggetti che non hanno la possibilità di reinserirsi nel tessuto sociale.
È, quindi, dovere dello Stato, e delle strutture penitenziarie, favorire,
attraverso un percorso rieducativo adeguato al tipo di reato commesso, il
reinserimento e la reintegrazione del detenuto all’interno della società.
6.2 Uguaglianza formale e l’ identità del reo
Da diversi dati statistici emerge che la maggior parte dei condannati a pene
carcerarie torna a delinquere e non viene riabilitata come, invece, prescrive
la Costituzione.
Gherardo Colombo, ex magistrato italiano, attualmente ritiratosi dal
servizio, nel suo libro “Il perdono responsabile. Perché il carcere non
serve a nulla”, mette in evidenza le pratiche della giustizia riparativa che
lentamente emergono negli ordinamenti internazionali e nel nostro. Tali
prassi non riguardano solamente i tribunali e le carceri, ma pure il tessuto
sociale.
In linea con il pensiero di Gherardo Colombo, credo che la convivenza
civile necessiti della cultura del perdono, affinché si abbandoni la cultura
della retribuzione, la quale costringe le vittime dei crimini alla semplice
ricerca della vendetta.
Tuttavia “il riconoscimento della persona e dei suoi diritti fondamentali è
rimasto però, su larga scala, fermo alle sole dichiarazioni di principio.
79
Come è del tutto evidente, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è
quotidianamente disattesa nella maggior parte del globo. C’era per certi
versi da aspettarselo, non tanto perché non è legge (e quindi non obbliga al
rispetto), quanto perché si è inserita in una cultura di segno assai diverso,
27
che per esempio ancora tollerava il colonialismo e la pena di morte” .
Inoltre le leggi del passato, non riformate, sono a tutt’oggi il riferimento
normativo: il codice di procedura penale degli anni trenta è stato sostituito
solo nel 1988; il codice penale è quello del 1930, emanato durante il regime
fascista; l’ordinamento penitenziario è stato introdotto per la prima volta
nel 1975.
L’idea retribuzionista della pena è fondata sull’esclusione sociale del
soggetto.
Come scrive il giudice Colombo “il modello funziona, al di là delle parole,
pressappoco così: poiché hai rotto la relazione affettiva con me, meriti che
io rompa la relazione affettiva con te. E quanto più grave è stata la rottura,
28
tanto più grave deve essere la frattura da parte mia” .
Ciò non risulta essere compatibile con la Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani e con la Costituzione, secondo cui l’essere umano non è uno
“strumento” ma ha dignità. Colombo aggiunge: “riconoscere dignità
nell’altro equivale a riconoscere direttamente l’altro tanto quanto si
riconosce se stessi, dare all’altro lo stesso valore che si dà a se stessi. Il
carcere, per come è congegnato, confligge con la dignità, con
l’appartenenza al genere umano di chi vi è sottoposto, perché esclude dalla
29
comunità e dalle relazioni con gli altri” .
27 G. Colombo, “Il perdono responsabile. Perchè il carcere non serve a nulla”,
Adriano Salani, Milano, 2011, p. 33.
28 Ibidem, p. 47.
29 Ibidem, p. 49. 80
L’istituto penitenziario, oltre a non rispettare la dignità, non tiene conto dei
diritti di terzi estranei alla trasgressione, come ad esempio i parenti del reo.
La prigione, così come è strutturata oggi, appare, dunque, essere in
contrapposizione con la dignità dell’essere umano.
Alcuni luoghi comuni fanno parte della società; uno di questi è condensato
nella frase che si sente spesso pronunciare: “Per forza c’è tanta
delinquenza, chi è chiuso in prigione sta meglio di chi sta fuori. Hanno la
televisione, non fanno niente tutto il giorno. È vero che la stragrande
maggioranza dei detenuti non lavora, ed è vero che nelle celle c’è la
televisione. Ma nelle celle, dalle dimensioni minuscole, si sta generalmente
chiusi 22 ore al giorno non facendo nulla, e cioè non vedendo mai passare
il tempo (solo il 13% dei detenuti lavora), insieme a persone che non si
30
sono scelte” .
Inoltre il controllo degli agenti di polizia penitenziaria, ai quali bisogna
obbedire, avviene pure durante i colloqui con i familiari. L’articolo 37 del
D.P.R. n. 230 del 30 giugno 2000 stabilisce che i detenuti possono avere sei
ore di colloqui al mese di un’ora ciascuno con i familiari, mentre i colloqui
con altre persone sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi.
Scrive il giudice Colombo: “si immagini di essere stati sottoposti
personalmente a un simile regime per qualche mese: 22 ore in cella con
persone scelte da altri, dovendo obbedire alle guardie, non potendo vedere i
propri familiari se non per sei ore al mese. Sareste contenti, ripensereste
che in carcere si sta meglio che fuori? La pesantezza psicologica del
carcere è del resto confermata dal fatto che ogni anno all’incirca un
detenuto su mille si suicida, uno si cento tenta il suicidio e quasi uno su
dieci compie gesti di autolesionismo. Se il tasso di suicidi delle persone
libere fosse il medesimo, negli stessi anni si sarebbero verificati poco meno
30 Ibidem, p. 54. 81
di 60.000 suicidi ogni anno, invece dei circa 3.000 effettivamente
31
commessi” .
Altro luogo comune da smentire riguarda la certezza della pena; si dice che
il reo dopo poco tempo è rimesso in società.
“In effetti non è così, e questa diffusa convinzione dipende dalla
confusione che generalmente si fa tra la custodia preventiva (il carcere
prima della sentenza definitiva, quando ancora non si è stabilito
irrevocabilmente se la persona accusata è colpevole) e la detenzione
successiva alla condanna. Può succedere che una persona arrestata sia
rilasciata rapidamente, prima che si sia svolto il processo. Ciò dipende dalle
regole, dirette a garantire che non si possa essere messi in carcere (e
trattenuti in carcere) senza un motivo valido. Prima della condanna ancora
non si sa se l’accusato è davvero colui che ha commesso il reato (talora non
32
si sa nemmeno se il reato è stato effettivamente commesso)” .
La legge stabilisce, infatti, che nessuno può essere sottoposto a misure
cautelari, delle quali la detenzione è la più grave, se a suo carico non
sussistono gravi indizi di colpevolezza.
Può succedere, dunque, che il giudice rimetta in libertà una persona
arrestata per varie ragioni: perché lo sviluppo delle indagini ha fatto venir
meno i gravi indizi o perché sono cessati i rischi di inquinamento
probatorio, di fuga e di commissione di nuovi reati.
Per chi commette reati non lievi, invece, la regola è il carcere e la pena è
garantita.
La certezza della pena, tuttavia, non serve ad aumentare la sicurezza dei
cittadini, come ci dimostra Gherardo Colombo che scrive: “Due ragazzi sui
vent’anni, piuttosto ingenui e immaturi, hanno la sfortuna di usare un
31 Ibidem, pp. 54-55.
32 Ibidem, p. 55. 82
giorno un po’ di cocaina. La cosa li soddisfa, il consumo della sostanza
progressivamente aumenta e dopo qualche tempo non hanno più i soldi per
comprarne ancora. Decidono di rapinare il tabaccaio della zona ma,
sprovveduti come sono, appena usciti dal negozio