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AI SUOI FIGLI
Bolognesi, Romagnoli, Pontificii, Italiani tutti quanti siete, miei cari figli! L’onore della madre vostra è in
pericolo. Sostenetelo! Ogni sacrificio a tal fine deve per voi essere lieve. Tutto dovete a chi vi ha data la
vita, a chi vuole serbata la vostra antica gloria e dignità. Chi fra di voi non sarà degno mio figlio, io lo
ripudio. Vilipeso, schernito, disonorato, andrà ramingo a piangere il di lui fallo lungi da mia famiglia. Chi
ne sarà degno, amato da me, stimato dai fratelli, onorato, applaudito da tutti, avrà il conforto di sentirsi
chiamare magnanimo grande generoso figlio d’Italia; e pieno di gloria potrà mostrarsi altero a qualunque
Nazione. – Vi siano stampati nel cuore questi miei detti; le parole di una Madre tuonino al vostro orecchio
come il rombo di un Cannone. Vi sovvenga che per conservare la vita e gli agi, perderete le vostre case, le
proprietà, le mogli e i figli, e, che più vale, l’onore. I barbari vittoriosi tutto vi rapiranno, tutto vi
incendieranno: le vostre donne stuprate, i vostri figli scherniti e trafitti serviranno di sollazzo e di gioia
alle sanguinarie loro brame.
I pericoli aumentano. Io ho fede in Voi; abbiatela Voi nelle mie parole. Io ho bisogno di tutti i miei figli.
Concentratevi attorno a me. Raccoglietevi da ogni parte quanti siete; mostrate al Mondo che fortemente e
fermamente volete vincere o morire liberi.
Bologna! e città tutte mie care figlie: se mai fosse scritto che dal barbaro arse e distrutte essere doveste,
possano almeno i posteri dire – Qui furono città gloriose e grandi, che seppero tutto soffrire, tutto perdere
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fuorché l’onore e la gloria di loro famiglia.
Notiamo quanto insistentemente ritornino quelle figure già viste nello scritto di
Mazzini: la violenza raccapricciante che sortirà dall’ennesima resa
all’assoggettamento straniero, la vergogna senza speranza di redenzione, la
necessità ora inderogabile di concentrarsi tutti vicini alla madrepatria. Si
potrebbe azzardare a dire che s’intravede nel ricorrere di temi e toni (che
ritroviamo anche nei proclami di Garibaldi e Vittorio Emanuele, nonché nella
sterminata produzione di scritti politici del XIX secolo italiano) la “descrizione
ufficiale” del sentimento patriottico.
Ma si tratta di un sentimento che somiglia più ad una ostinata convinzione che
ad una immagine della realtà, poiché spesso la sorpresa, talvolta lo sgomento o il
sussiego, o anche la tenerezza e la curiosità con cui gli scrittori garibaldini
reagivano al contatto coi luoghi e la gente del Mezzogiorno dipingono un quadro
affatto diverso: di mondi fra loro alieni, separati da incolmabili distanze
d’incomunicabilità, di civiltà, cultura, ricchezza.
32 L’Italia ai suoi figli, in Un giorno nella storia di Bologna. L’8 agosto 1848. Mito e rappresentazione di
un evento inaspettato, a cura di M. Gavelli et al, cit. in A. M. BANTI, op. cit. p. 211
Per cominciare da un esempio comico e disimpegnato (sebbene comunque
indicativo) vediamo come il Bandi descriva con ironia l’atteggiamento
superstizioso di alcuni meridionali poco prima dello sbarco a Marsala:
«Udendo discorrere di uno sbarco immediato, parecchi siciliani autorevoli e spiccioli rammentarono che
quel giorno era giorno di venerdì, e cominciarono a taroccare, lagnandosi che un’impresa tanto audace,
com’era quella della liberazione dell’isola, s’avesse a inaugurare in un giorno, nel quale è destino che
tutte le ciambelle riescano senza buco. Ai siciliani fecero tosto eco diversi napolitani e calabresi,
egualmente superstiziosi e taccagni; sicché in un attimo il generale si trovò in mezzo a una folla di
piagnoni, che per il bene suo e di tutti lo scongiuravano caldamente, e poco meno che colle lacrime, a
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guardarsi dalla iettatura del venerdì.»
Nelle prime tra le lettere di Nievo dalla spedizione leggiamo invece alcuni fra i
commenti più aspri e sarcastici:
A Marsalla squallore e paura; la rivoluzione era sedata dappertutto o per dir meglio non avea mai esistito:
solo qualche banda di semi briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora
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qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del governo e qualche paura dei proprietari.
Mamma mia,… Ti ricordi del viaggio in Sicilia tante volte da me progettato? Eccolo finalmente in azione,
più pittoresco di quanto avrei sperato. Palermo, con un po’ più di caldo, è negli usi, nella società, nei
pettegolezzi, una fotografia di Venezia. Ti ricordi delle commedie palermitane di Goldoni, di Donna
Beatrice, del Marchese di Castel d’oro, ecc.? Or bene, quella società è ancor viva, grazie alla preziosa
facoltà conservatrice dei governanti Napolitani. Qui si vive in pieno seicento, col barocchismo, le
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raffinatezze e l’ignoranza d’allora.
(..) ma ora comprendiamo perché la difesa della Sicilia del ’49 fu una mascherata. I Siciliani son tutti
femmine; hanno la passione del tumulto e della comparsa: e i disagi e i pericoli li trovano assai meno
pronti delle parate e delle feste –Guai se fosse toccato a loro liberarci da Maniscalco, e dagli sbirri! –tutta
la Rivoluzione era concentrata nelle bande campagnuole chiamate qui squadre e composte per la maggior
parte di briganti emeriti che fanno la guerra al governo per poterla fare ai proprietari. Tanto è vero che noi
33 GIUSEPPE BANDI, I Mille, in op. cit., p. 199
34 IPPOLITO NIEVO, Alla cugina Bice Melzi Gobio da Palermo, 28 Maggio 1860, in op. cit., p. 7
35 Ivi, Alla Madre Adele Marin Nievo da Palermo, 24 Giugno 1860, p. 22
dobbiamo farla da carabinieri contro i nostri alleati di ieri! –Che miracoli, Mamma mia! che miracoli! –la
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nostra virtù più grande, la sola forse, fu quella di aver creduto alla loro possibilità! (p.27)
È uno sguardo attento il suo, che cattura tratti di quella Questione Meridionale
che si sarebbe a lungo trascinata nella storia, ma non solo: descrive una certa
ipocrisia, un certo opportunismo della gente di Sicilia, tanto presta a offrire il
proprio sostegno morale e a festeggiare vittorie quanto a tirarsi indietro nel
momento del pericolo; accenna peraltro anche agli scontri tra la classe contadina
e i latifondisti, vero obiettivo delle squadre di picciotti. Questione che lascia un
ampio margine di discussione, dal momento che gli stessi proprietari terrieri,
avendo interesse a stringere l’alleanza coi nuovi “padroni”, organizzarono a loro
volta delle squadre di volontari per offrire il proprio appoggio nella cacciata dei
vecchi.
Vediamo l’Abba a proposito dei contadini siciliani:
«Si va delle ore senza vedere una casa. Contadini? Non ve ne sono. I coltivatori stanno nei villaggi,
grandi come da noi le città; vi stanno in certe tane gli uni sugli altri, come l’asino e le altre bestie men
degne. Che tanfo e che colpe! All’alba movono pei campi lontani, vi arrivano, si mettono all’opera che
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quasi è l’ora di tornare; povera gente, che vita!» (p.125)
E ancora:
«Anche qui la miseria invade e la fame, e ad ogni passo ti si appresenta il tristo spettacolo della
mendicità. Pare che nel popolo lo spirito predominante sia la religione guasta dall’ignoranza. In tutte le
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altre parti d’Italia non si troverebbe una casa povera come quella d’un Siciliano.» (p.29 -taccuino)
Sebbene anch’egli si abbandoni a momenti in lode dei volontari siciliani, quando
si volge a descriverne le condizioni e i modi di vita abbondano i commenti
severi, quali «si direbbe che siamo venuti per aiutare i siciliani a liberare la loro
36 Ivi, Alla Madre Adele Marin Nievo da Palermo, 1 Luglio 1860, p. 27
37 GIUSEPPE CESARE ABBA, Noterelle d’uno dei Mille, in op. cit., p. 125
38 Idem, Maggio 1860 – Pagine di un taccuino inedito di G. C. Abba, Milano, A. Mondadori, 1933, p.
29 terra dall’ozio!» o «(…) Salemi era al sicuro! Vasta, popolosa, sudicia, le sue
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vie somigliano colatoi. Si pena a tenersi ritti; si cerca un’osteria e si trova una
tana. Ma i frati, oh! i frati gli avevano belli i conventi (…)» . Sembra che le
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testimonianze dei garibaldini, per quanto private e tinte dei colori del sentimento,
siano sostanzialmente concordi con la storia: la società borbonica era
prevalentemente povera, basata su un sistema latifondistico feudale che non
faceva che aumentare il divario tra i contadini e i padroni (che il clero aveva
appoggiato nella gran maggioranza dei casi). L’arrivo dei garibaldini aveva
suscitato nuove speranze: del resto essi erano giunti con l’intenzione di sostenere
una rivoluzione scoppiata «per eroico impulso di Francesco Riso, il 4 Aprile
1860» (che al momento del loro arrivo trovarono in gran parte sedata), nascente,
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oltre che dal desiderio di liberazione e rinnovamento, proprio da una
rivendicazione delle terre demaniali da parte delle classi contadine.
Ma una volta insediatasi la Dittatura, la popolazione rimase delusa e reagì spesso
anche violentemente; e d’altro canto gli equilibri territoriali erano ancora troppo
fragili perché ci si potesse inimicare i proprietari borghesi. Proprio riguardo le
insurrezioni dell’estate 1860, non senza un certo risentimento lo storico Aurelio
Lepre scrive:
In realtà, per conquistare le masse contadine alla rivoluzione non sarebbe stata necessaria una riforma
agraria, che avrebbe potuto avere ripercussioni anche al Nord e che sarebbe stata perciò respinta dalle
forze radicali, ma solo l’accettazione delle rivendicazioni sui beni demaniali. Ma nessun movimento
politico si pose questo obiettivo. Gli stessi garibaldini, che costituirono l’ala più avanzata dello
schieramento politico italiano, non fecero nessun tentativo in questa direzione. Il fatto è che i garibaldini
del Nord consideravano anch’essi i contadini meridionali come «beduini» ed «arabi», per ricordare
un’espressione del Bandi, come gente che parlava «un’africanissima lingua», e di cui non solo la lingua,
ma anche il modo di vivere e di comportarsi erano incomprensibili ed estranei. L’atteggiamento del Bandi
era un po’ quello del conquistatore in un paese coloniale, ed anche l’Abba (…) registrò scene di selvaggia
39 Idem, Noterelle d’uno dei Mille, in op. cit., p. 65
40 Ivi, p. 67
41 GIUSEPPE GUERZONI, La vita di Nino Bixio, p. 148
atrocità da parte degli insorti, ed affermò che a Bronte c’erano stati, in nome di Garibaldi, «divisioni di
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beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole»
Una di quelle scene registrate dall’Abba, chiaro esempio di