L'intuizione di un giornale nuovo. La genesi del ''Corriere della Sera''
Dopo pochi mesi alla direzione de "La Lombardia", Eugenio decise di proseguire con tenacia il suo obiettivo di fondazione di un nuovo quotidiano.Era il 1876 e l'Italia si ritrovava al centro di significativi mutamenti: il ministro Minghetti presentava le dimissioni al re Vittorio Emanuele e la Destra, in generale, logorata da quindici anni d'ininterrotto potere cadeva. Il re chiamava a formare il nuovo governo Agostino Depretis, che costituì un ministero formato interamente da uomini della Sinistra.
Nel novembre dello stesso anno ci furono le elezioni politiche e la sinistra riportò un netto successo.
Si apriva così una nuova fase nella storia politica dell'Italia Unita.
Eugenio Torelli Viollier non era un reazionario, era per carattere moderato e riteneva giuste certe idee della sinistra. Ma a suo modo di vedere il sogno risorgimentale e il percorso unitario dell'Italia si identificavano nella monarchia di casa Savoia.
Egli era inoltre convinto che quella fase così frenetica della politica italiana avrebbe recato danno alla borghesia industriale del Nord, che si stava attrezzando per competere con le società più progredite d'Europa.
La situazione politica divenne però un'opportunità. Per Eugenio era giunto il momento di realizzare il suo sogno ed ecco che arrivò il progetto di un giornale "collettivo", spiegato ai pochi amici ed editori che lo stettero a sentire: "I giornali personali anno fatto il loro tempo. Il giornale oggi deve soddisfare un numero di bisogni maggiore che in passato, deve trattare un'avanzatissima quantità di materie e il lavoro deve essere specializzato e frazionato…".
Il progetto di Eugenio suscitò un certo fascino soltanto ai suoi colleghi disoccupati e più che un sogno sembrava una follia.
I dubbi erano tanti soprattutto perché non sarebbe stato facile trovare qualcuno che avrebbe dato retta ad un direttore fallito, ad uno scrittore mancato, ad un uomo dalle idee fuori dal comune.
Dopo qualche mese di incertezza, Eugenio si decise a chiedere appuntamento a Riccardo Pavesi, colui che gli aveva dato fiducia con la direzione de "La Lombardia".
Eugenio gli espose, con dati alla mano, le sue analisi sullo stato del giornale, con tanto di cifre e considerazioni sulle abitudini dei lettori. Il pubblico, di carattere abituale, non avrebbe mai apprezzato un cambio di rotta e le innovazioni. Eugenio proponeva un vero e proprio nuovo giornale.
L'editore Pavesi si convinse a dar vita all'impresa, ma al momento il nuovo giornale sarebbe nato da una costola de "La Lombardia". La società e l'amministrazione restavano le stesse ma bisognava raccogliere una somma sufficiente per pagare i primi collaboratori, un paio di tipografi e l'affitto della redazione. Si sarebbero stampate poche migliaia di copie, giusto per vedere la reazione del pubblico.
Eugenio si mise così alla ricerca di altri finanziatori ma, quando alla metà di febbraio si rese conto di aver ottenuto l'esigua somma di tremila lire, fu preso dallo sconforto.
Oltre a Pavesi, si resero disponibili a finanziare l'impresa due signori milanesi: Pio Morbio e Riccardo Bonetti, entrambi indecisi su cosa fare da grandi e che decisero di lanciarsi nel mondo dell'editoria più per capriccio che per convinzione imprenditoriale.
Altra preoccupazione di Eugenio era quella di trovare il nome adatto per la nuova testata. La parola "Corriere" era fissa nella sua mente, con il ricordo della prima rubrica di corrispondenza che aveva tenuto da Parigi e da Napoli. E sotto la testatina "Corriere" aveva scritto gli articoli che lo avevano fatto conoscere a Milano.
Il nome nacque quasi spontaneamente. Dal momento che il nuovo giornale sarebbe uscito nel tardo pomeriggio, il suo nome sarebbe stato: "Corriere della Sera".
Il primo che accettò di imbarcarsi in questa nuova avventura fu Raffaello Barbiera, veneziano di venticinque anni. Egli non era nemmeno un giornalista ma le sue ambizioni letterarie colpirono molto Eugenio. Barbiera si mise subito al lavoro e in breve tempo sarebbe diventato una colonna del "Corriere".
Il secondo fu Giacomo Raimondi, che accettò per bisogno, essendo disoccupato, ma era un vero professionista. Era l'unico milanese della redazione e aveva lavorato al "Pungolo" e al "Gazzettino Rosa". Eugenio gli affidò le analisi economiche e la nota politica.
L'ultimo ad accettare la sua proposta fu Ettore Teodori Buini, che pretese un posticino e uno stipendio anche per la moglie, la nobile Vittoria Bonaccina, che parlava bene il francese e l'inglese e si sarebbe rivelata indispensabile per le traduzioni dei romanzi d'appendice.
Lui, invece, ebbe il compito della titolazione e del taglia e incolla delle corrispondenze che arrivavano dall'estero. [...]
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