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Secondo problema: lo svilupparsi dei contratti decentrati. In contesti di crisi, i datori preferiscono

stipulare contratti decentrati rispetto a contratti nazionali. Tendenzialmente, è con condizioni

peggiorative. Si sviluppa negli anni 10 e mette in crisi questo sistema, perché iniziamo a trovare

sentenze che applicano il sistema dell’art 2099, però iniziano a dire: il parametro che io giudice

utilizzo è quello del contratto decentrato di quella zona. Si prendono in considerazione anche

caratteristiche come la dimensione dell’impresa; un quindi, piccole o medie imprese devono

applicare un contratto diverso rispetto al contratto nazionale. Questo criterio destabilizza il sistema.

Questo è un pregiudizio sia per datori che per i lavoratori. Viene minata la certezza del riferimento

retributivo (quanto posso pagare il lavoratore senza paura che mi faccia causa e mi chieda una

retribuzione diversa?).

Altro problema che deriva dall’inattuazione dell’art 39 ed è connesso alla retribuzione: la

determinazione delle categorie. Se è inattuato l’art 39 e rimane il principio di libertà sindacale,

questo implica che un datore che opera nel settore siderurgico può applicare un contratto collettivo

degli elettrici, del terziario, dei servizi; può scegliere quale contratto collettivo applicare e anche

restando all’interno della stessa categoria, non si capisce bene cos’è la categoria. Il contratto

collettivo, dato che libero, può delimitare il proprio ambito di applicazione, quindi, a seconda del

contratto collettivo che si prende in considerazione, è difficile trovare delle categorie omogenee a

cui si applica e non c’è neanche il vincolo del settore merceologico.

Teoria dell’ordinamento intersindacale: il diritto sindacale è un diritto che sopporta la norma di

legge, ma che si dà delle regole proprie attraverso i contratti collettivi, le prassi. È una branca del

diritto che di solito si autoregola, ma c’è sempre il problema dell’effettività e dell’efficacia. Viene

anche solitamente additata come una delle cause dell’arretratezza del mercato del lavoro italiano.

Sono stati trovati dei sistemi. Nel settore delle cooperative, ad es, c’è la legge 148/2001 che

seleziona il contratto collettivo da applicare. Per legge, deve essere selezionato il contratto

collettivo nazionale stipulato dalle associazioni maggiormente rappresentative (CGIL, CISL, UIL).

14 anni dopo, nel 2015 arriva una sentenza della Corte costituzionale su questa legge. Noi fino ad

adesso abbiamo detto se l’art 39 non è mai stato attuato, non è contraria all’art 39 una legge che

applica un meccanismo di selezione diverso da quella procedura dell’art 39 applicata al solo settore

delle cooperative. Viene sollevato questo dubbio perché la Corte costituzionale, fino a quel

momento, aveva detto: per estendere l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi bisogna

applicare la procedura del 39. Arriva questa sentenza che non dichiara incostituzionale la legge di

selezione del contratto e dice: in realtà la legge sulle cooperative non estende a tutti i lavoratori il

contratto collettivo, perché in ogni caso il contratto che viene selezionato è soggetto all’art 36;

quindi, se la retribuzione contenuta in quel contratto collettivo non è conforme ai principi di

proporzionalità e sufficienza, il lavoratore può fare ricorso e chiedere la disapplicazione di quel

contratto.

Sentenze 2771/2023: spiega i principi attualmente presenti nell’ordinamento per determinare la

giusta retribuzione. Punto d’arrivo di questa vicenda. Prima però dobbiamo aprire una parentesi:

Ci siamo lasciati che c’è questa giungla di contratti e il giudice può ricorrere a qualsiasi di questi

contratti collettivi se lo giustifica e lo motiva. Nel frattempo, nel mondo, fino a 20 anni fa c’era il

problema della disoccupazione, oggi si aggiunge il problema del lavoro povero: lavoratori che

guadagnano poco, si presume sotto gli standard dell’art 36. Ci sono alcuni contratti (vigilanza

privata, afferenti al mondo delle cooperative) che prevedono retribuzioni pari a 5 euro l’ora.

Iniziano ricorsi di lavoratori che utilizzano come parametro la soglia di povertà Istat. Iniziano a

dire: questo contratto collettivo viola l’art 36 perché percepisco una retribuzione sotto la soglia di

povertà Istat. Vengono introdotti nuovi elementi, gli indicatori economici che i lavoratori fanno

valere. Quindi arrivano sentenze dei tribunali di merito (dal 2021 in poi) che ritengono che il

contratto collettivo vada disapplicata e la retribuzione vada rideterminata perché non è conforme

agli indicatori economici statistici.

Questi sono elementi di crisi dell’ordinamento perché mettono in crisi il contratto collettivo come

parametro.

Da queste sentenze in poi nasce anche un movimento nell’opinione pubblica per l’introduzione di

un salario minimo legale.  

Gradi di giudizio: sentenza del tribunale impugnato in corte d’appello solo per alcuni vizi,

corte di cassazione.

Queste sentenze che partono dal 2021 arrivano nel 2023 in cassazione, che svolge una funzione

normofilattica, ovvero delineare principi di diritto in materia per orientare l’azione dei tribunali.

La cassazione, con queste sentenze, ripercorre la storia dell’art 36 e dice: l’indicatore economico

statistico da solo non è idoneo a costituire un parametro dell’art 36, al limite può essere utilizzato

per integrare il principio di sufficienza della retribuzione, però l’art 36 parla anche di

proporzionalità; quindi, la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro,

quindi molto più alta della soglia di povertà Istat.

Il contratto collettivo conserva una presunzione di affidabilità.

Le sentenze del 2023 nascono da casi di lavoratori impiegati nel settore cooperativo cui si applica la

legge sulla selezione del contratto. Quindi la regola generale è che continua ad essere il contratto

collettivo un parametro di riferimento e se quel contratto collettivo non è un parametro conforme

all’art 36, il giudice deve trovare altri contratti collettivi di settori simili; se neanche gli altri

contratti collettivi sono conformi all’art 36, a quel punto può determinarla avvalendosi anche di

strumenti economico-statistici dell’Istat.

Altro tema, che risente del periodo in cui vengono depositate quelle sentenze, che vengono

pronunciate in questo contesto politico-normativo. Nel 2002 viene emessa la direttiva 2041 sui

minimi retributivi dell’UE e viene presentato il progetto di legge alla camera sull’introduzione di un

salario minimo legale. È una sentenza della cassazione, non ha un valore di innovazione normativa,

non ci dà risposte risolutive sul tema del salario minimo, ma afferma che il giudice non può

abdicare a questa funzione di controllo sulla retribuzione e non può abdicare al tema della ricerca di

un quid pluris congruo e funzionale allo scopo rispetto al quantum parametrico costituito dalla sola

contrattazione, che si rivela concreta e inapparente. Ci si chiede: la contrattazione collettiva è da

sola sufficiente ad individuare il minimo retributivo costituzionalmente conforme? Non c’è altro

indicatore che ci consente di determinare una soglia, ma rimane il contratto collettivo.

In che termini impatta la direttiva? La direttiva europea è un atto normativo dell’UE che,

diversamente dai regolamenti, che una volta approvati sono immediatamente efficaci all’interno

degli ordinamenti degli Stati dell’UE; la direttiva invece è un atto che deve essere recepito dagli

Stati membri. La direttiva dà i principi generali, poi è lo Stato membro che lo applica nel proprio

contesto normativo. Solitamente è uno strumento che viene adottato in materia di diritto del lavoro e

in materie per cui è difficile imporre regole uguali per tutti. Ricordiamo che l’UE comprende diversi

paesi con tradizioni diverse fra loro. I trattati in realtà impediscono che venga stabilito un salario

minimo legale, ma comunque sarebbe stato difficile pensare a un salario minimo valido per diversi

paesi.

La direttiva è un atto normativo che rafforza e favorisce la contrattazione collettiva. Già nelle parti

introduttive dell’atto, viene identificata la contrattazione collettiva lo strumento più idoneo a

combattere la povertà lavorativa. Sviluppa un sistema diverso che viaggia su binari paralleli: uno è

rivolto a Stati che hanno un tasso di copertura della contrattazione collettiva basso, e uno a Stati che

lo hanno elevato, che copre la maggioranza dei lavoratori. Nel nostro paese, la contrattazione

collettiva ha un tasso di copertura del 98%, secondo l’ultimo rapporto del CNEL del 2023: solo il

2% dei lavoratori è escluso dal contratto collettivo. Il nostro paese rientrerebbe nella prima

categoria. Per i Paesi con tasso di copertura ampio, sono previsti obblighi di trasparenza, di raccolta

dei contratti collettivi in archivi e delle norme per migliorare i rinnovi contrattuali, perché uno dei

problemi del nostro sistema contrattuale collettivo è che i contratti collettivi non vengono rinnovati,

soprattutto nel pubblico impiego. Quei bisogna convincere le parti negoziali a concordare nuove

condizioni contrattuali e non sempre è facile, in particolare i contratti di pubblico impiego sono

sottoposti a un controllo della spesa pubblica più pervasivo rispetto ai contratti privatistici. Per il

nostro paese la direttiva ha uno scarso effetto, per gli altri Paesi la direttiva prevede l’introduzione

di un salario minimo legale, il 60% del salario mediano. Sicuramente il livello dei nostri contratti

collettivi è più alto rispetto al 60% del salario mediano.

L’introduzione di un salario minimo legale che rischio ha? L’indebolimento della contrattazione

collettiva. Ecco perché molte associazioni sindacali, fino a qualche anno fa, erano scettiche. Oggi

non c’è obbligo di stipulare un contratto collettivo, quindi un datore che contratta potrebbe non stare

a certe condizioni e dire che il salario minimo è questo e quindi si può anche non stipulare un

contratto collettivo, perché tanto c’è un livello minimo per legge e i lavoratori non occupano la

fabbrica. Questo è il motivo per cui, se vediamo la proposta di legge sul salario minimo legale del

2023, vediamo che è stata una proposta che ha tenuto conto di questa indicazione e ha detto: il

minimo retributivo è stabilito dal contratto collettivo stipulati dalle associazioni comparativamente

più rappresentative, solo se questi contratti abbiano minimi retributivi inferior

Dettagli
Publisher
A.A. 2024-2025
15 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/07 Diritto del lavoro

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher messina.mc di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Politiche della remunerazione e welfare e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Di Stefano Stefano.