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Il repertorio iconografico di Ravenna tardoantica era caratterizzato

dall’umanizzazione dei concetti e dall’essenzialità delle composizioni,

convogliando il tutto nell’assolutezza del dogma. Questi aspetti sono ripresi

da dante: nel canto IV all’arte viene attribuito un ruolo simbolico attraverso

luci, colori e semplificazione delle forme. Sempre nel medesimo canto, il

poeta indica, citando Muzio Scevola e san Lorenzo, esempi di volontà

incrollabile. La scelta del martire fu con molta probabilità dettata dalla

presenza, specie a Ravenna, di significative immagini del santo.

Del ricordo della luce dorata che imperversava all’interno del mausoleo di

Galla Placidia rimane traccia nel canto XV dove lo splendore di Cacciaguida

viene descritto da Dante come ‘foco dietro ad alabastro’. Sempre all’interno

del medesimo edificio si poteva ammirare la scena rappresentante il

suggestivo martirio di san Lorenzo, un’immagine che, senza ombra di

dubbio, restò ben impressa nella mente del poeta.

Nell’incipit del canto VII Dante riserva all’imperatore Giustiniano un’ampia

rappresentazione che richiama alla mente quella musiva della basilica di San

Vitale a Ravenna. Il sovrano è qui raffigurato come il detentore di un potere

terreno consacrato da Dio stesso. Nel mosaico ravennate, proprio come nei

versi danteschi, l’imperatore appare cinto da un diadema. Questa non è però

l’unica rappresentazione significativa di Giustiniano che Dante ebbe modo di

ammirare a Ravenna. Stando a testimonianze, la controfacciata della basilica

di Sant’Apollinare ritraeva, attraverso tessere dorate, l’immagine

dell’imperatore nell’atto di consegnare al successore di Massimiano il

diploma di donazione delle chiese ariane. Di conseguenza, il risalto

dell’imperatore nella terza cantica corrisponde al ruolo che deteneva

all’interno dei precedentemente citati cicli musivi. Sul tema della concordia

tra Chiesa e impero vanno citati altri cicli musivi di Ravenna antica. La

basilica di San Giovanni Evangelista, attraverso il suo mosaico absidale,

aveva certamente una concezione del potere imperiale come volontà divina

consona all’ideologia dantesca. Proprio come nei versi danteschi del canto

XX del Paradiso, l’immagine di Costantino si trovava all’apice di un arco, in

questo caso quello absidale.

Gli spiriti luminosi descritti poi da Dante nel contesto paradisiaco richiamano

alla mente le decorazioni musive rispettivamente del battistero degli

Ortodossi e di quello degli Ariani dove i dodici apostoli, come le anime sante

del canto X, sono disposti a ruota. Anche il battistero ‘neoniano’ e quello

eretto presso la cattedrale di Teodorico, attraverso la resa di un movimento

solo apparente, devono aver ispirato profondamente le andature ‘veloci e

lente’ descritte nel canto XXIV. Infatti, Dante deve aver colto le divergenze

nella resa stilistica delle due processioni rappresentate rispettivamente nei

battisteri: al movimento leggero di una si accosta l’accenno impercettibile

del cammino dell’altra.

Se si volge lo sguardo verso il soffitto della cappella arcivescovile di Ravenna

si scorge il cielo fittizio campeggiato dal monogramma di cristo sostenuto da

quattro angeli e si può cogliere la corrispondenza con la suggestione visiva

suggerita dagli ‘archi paralleli e concolori’ descritti nei versi danteschi.

Questi stratagemmi decorativi osservati a Ravenna da Dante vennero quindi

poi rielaborati in funzione didascalica per figurare, attraverso la scrittura, il

dogma.

La croce latina gemmata che risplende nel catino absidale di Sant’Apollinare

in Classe è stata invece fonte di ispirazione per la visione straordinaria della

croce greca a bracci uguali rimandante l’immagine di cristo del canto XIV del

Paradiso. Più in generale, Dante ebbe modo di ammirare la tecnica di

rappresentazione pittorica astratta tipica di Ravenna e le diverse tipologie di

croci nel Mausoleo di Galla Placidia e nell’attigua chiesa; nel battistero degli

Ariani, in San Vitale e nella Cappella Arcivescovile. Tornando alla basilica

classense, la correlazione con i canti centrali del Paradiso non finisce qui: la

figura di Cacciaguida in Dante come martire della fede corrisponde con

l’immagine del protomartire Apollinare.

Nel canto XXII Dante descrive cento sfere le quali si scambiano i raggi e che

ricordano una famosa decorazione musiva del mausoleo di Galla Placidia: un

fondale di color azzurro sul ospita figure circolari raggiate che potrebbero

aver ispirato anche l’immagine della volta celeste dantesca del canto XXVII.

La stessa descrizione di Dio come un punto luminoso e infinitamente piccolo

da parte di Dante con molta probabilità deriva dai mosaici ravennati. In San

Vitale, nella cappella arcivescovile e nel mausoleo di Galla Placidia il poeta

ammirò infatti diversi monogrammi raggiati dai quali probabilmente trasse

ispirazione. Anche l’ambientazione paradisiaca fu influenzata dai mosaici

ravennati: il ‘prato fiorito’ era infatti un soggetto tipico. Il ‘bel giardino’

dantesco richiama il mosaico della navata centrale di Sant’Apollinare Nuovo

dove è rappresentato l’incedere di santi e sante. Al culmine della cantica il

poeta descrive inoltre un fiume fluente di luce tra due rive fiorite abitate da

angeli. Questa visione straordinaria richiama l’immagine dei quattro fiumi

paradisiaci in San Vitale, ugualmente scintillanti.

Per quanto riguarda gli spunti per la figura luminosa di Maria, anche in

questo caso Ravenna, dove il culto mariano fu rilevante, giocò un ruolo

importante. Il mosaico della navata di Sant’Apollinare Nuovo, ad esempio,

presenta la figura luminosa della Vergine col Figlio in grembo.

Dante amava profondamente le stelle e proprio per questo motivo le pone a

suggello di ogni cantica. Le stelle descritte da Dante sono luminose e

bellissime proprio come quelle dei mosaici ravennati. La cupola del mausoleo

di Galla Placidia è ricoperta di vortici di stelle dorate su uno sfondo blu notte

le quali circondano la croce d’oro di Cristo vittorioso sulla morte. Inoltre, la

luce che Dante sostiene brillare più intensamente è quella di Cristo che

riverbera su tutte le altre proprio come accade nel mosaico placidiano.

In conclusione è importante citare le raffigurazioni del volto di Cristo entro

cerchi colorati come quella in San Vitale e come poterono senza dubbio

contribuire alla concezione dell’immagine poetica ma senza completarla in

quanto troppo divina.

Seconda domanda.

Fonti per il volto triforme di Lucifero.

Il Lucifero dantesco presenta tre volti su di una testa sola, in analogica

antitesi rispetto la Trinità. Questa però non è un introduzione attuata da

Dante ma bensì il proseguo di una tradizione iconografica diffusa nell’arte

medievale. Le origini del volto triforme sono però in realtà molto più antiche

e si ricollegano al paganesimo, basti pensare, ad esempio, alle

rappresentazioni di divinità solari a tre teste diffuse tra i Celti e nella Gallia

romana. Le divinità tricefale erano venerate anche nelle regioni balcaniche,

ad esempio il dio cavaliere degli antichi Traci; e dai popoli slavi. Proprio il

grande numero di divinità solari tricefale nel paganesimo slavo, delle quali

abbiamo informazioni soprattutto grazie alle fonti letterarie, potrebbe aver

dato vita all’iconografia triforme della Trinità. Al contrario, il dualismo dei

Bogomili, popolo dell’Asia Minore spintosi sino ai Balcani, aveva forgiato

l’idea di una trinità malvagia triforme e ne aveva diffuso la fama.

Il culto delle divinità solari a tre teste ebbe una immensa diffusione e di

conseguenza anche la Grecia ellenistica non ne fu estranea: lo stesso Mitra,

simbolo del sole invincibile, viene spesso rappresentato con tre teste o tre

facce su una testa sola. Un altro esempio di questa diffusione si riscontra

anche in India, con Brahma, Vishnu e Shiva. Di conseguenza, il proliferare di

questa tipologia di iconografia, la quale si estese sino al Giappone,

rappresentò per gli antichi cristiani una minaccia da eliminare. Quei simboli

di potenza e invincibilità vennero quindi tramutati in personificazioni delle

intenzioni più abominevoli. Questa concezione del volto triforme come

attributo del demonio diventò così tipica dell’arte medievale. Raffigurare il

volto triforme del demonio sulla facciata di una chiesa esorcizzava il male e

metteva in guardia il fedele sulla pericolosità di quell’entità.

In particolare, Dante ebbe molto probabilmente modo di osservare le teste

arcigne nei chiostri di San Paolo fuori le Mura e di San Giovanni in Laterano.

Infatti, proprio come descritto in Inferno XXXIV, i tre volti, uno di faccia e gli

altri due di profilo, presentano le fronti unite da corone di foglie appuntite.

In Tuscania, quasi certamente il poeta ammirò la facciata della chiesa di San

Pietro, la quale presenta due bifore una delle quali dedicata al regno di

Satana, quest’ultima, è sormontata da una maschera a tre volti coronata e

munita di corna dalla cui bocca fuoriescono racemi sui quali si dispongono

demoni dalle forme bizzarre. Il tutto termina nelle bocche spalancate di un

secondo demone il quale preme sul proprio petto un grosso serpente.

Nell’ipotesi, sostenuta da scritti autobiografici del poeta stesso, durante gli

anni dell’esilio Dante si è molto probabilmente trattenuto a Treviso, è

naturale supporre che qui abbia visitato il palazzo arcivescovile della città e

ammirato gli affreschi che all’epoca ricoprivano le pareti della cappella

episcopale. Di quel ciclo di affreschi incentrato sul tema della Passione oggi

ci è pervenuta solo, e frammentariamente, la grande Anastasis. La

medesima scena qui rappresentata è presente anche nella basilica di San

Marco a Venezia. Nel dipinto trevigiano però, avviene una sovversione

rispetto a quello veneziano: al di sotto delle porte scardinate, le quali a

Venezia schiacciavano un demonio in catene, Satana è rappresentato con il

volto triforme e siede sovrano sul suo trono a forma di drago. Dante ebbe

quindi con molta probabilità la possibilità di attingere anche da questa

rappresentazione per descrivere il suo Lucifero. Altri spunti per il volto

triforme di Lucifero potrebbero derivare dal codice LXXXIX della Biblioteca

capitolare di Verona, nel quale il volto a tre facce del vento maligno viene

replicato quattro volte dando vita ad una essenziale rosa dei venti. Allo

stesso modo, forse Dante ebbe anche occasione di avere tra le mani uno di

quei manoscritti della Bibbia moralizzata nei quali l’Anticristo viene<

Dettagli
Publisher
A.A. 2022-2023
7 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Mara1946 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Genova o del prof Morando Simona.