4.3. SVILUPPI E CRITICHE ALL'IPOTESI DI J. DOLLARD
A questo modello teoretico sono state mosse molte critiche [Bonino-Saglione, 1978 a], la più rilevante delle
quali si ritiene sia quella di non-scientificità, in quanto risulta impossibile controllare le risposte aggressive
non palesi, considerate da Dollard come possibili effetti della frustrazione. Le prime critiche e rielaborazioni
della teoria furono sviluppate dagli stessi collaboratori di Dollard negli anni '40.
Sears [1941] riconobbe che l'aggressività costituisce solo una delle modalità di reazione alla frustrazione che
può dare origine ad altri tipi di comportamento, i più rilevanti dei quali sono stati così classificati:
1) il comportamento persistente, nel quale il soggetto continua a ripetere i medesimi atti anche se questi si
sono già dimostrati non idonei al conseguimento dell'obiettivo di annullamento delle cause di frustrazione;
2) il comportamento regressivo in cui il soggetto persegue il raggiungimento della risposta meta, attuando
comportamenti appresi in una fase precedente dello sviluppo;
3) il comportamento volto alla ricerca di soluzioni sostitutive o sublimatorie, in cui l'individuo attua una
sequenza comportamentale diversa da quella interrotta dalle cause frustranti e volta al raggiungimento di una
risposta meta diversa da quella originaria.
Secondo Sears solo quest'ultimo comportamento permette la riduzione della tensione ed il conseguimento di
un nuovo equilibrio.
E' così spezzato il rapporto univoco tra frustrazione ed aggressività, in quanto si riconosce che la frustrazione
non sempre genera aggressività, ma si conferma che l'aggressività è sempre conseguenza di una
frustrazione.
Lo stesso principio è sostenuto da Miller [1941, 1948], il quale afferma che la reazione aggressiva è una delle
possibilità che possono essere attuate dalla persona frustrata, scelta in una gerarchia di risposte apprese in
precedenza. Nell'ambito di questa ipotizzata gerarchia, la risposta aggressiva occupa il posto principale,
mentre le altre sono risposte subordinate all'impossibilità di attuare la prima risposta. Il soggetto inoltre può
essere spinto a manifestare aggressività se le risposte non aggressive messe in atto non producono una
diminuzione del bisogno frustrato con conseguente persistenza del bisogno e della frustrazione. Miller, nel
riconfermare che ogni comportamento aggressivo deriva da una frustrazione, precisa che "no assumptions
are made as to whether the frustration-aggression relationship is of innate or of learned origin". Sempre negli
anni '40 S. Rosenzweig [1941] suggerisce l'opportunità di distinguere principalmente due tipi di reazione alla
frustrazione, definiti "need-persistive" (cioè immediatamente inerenti al singolo bisogno frustrato e che
seguono inevitabilmente ad ogni frustrazione, tendendo a ristabilire le condizioni di equilibrio preesistente) e
"ego-defensive", cioè quelle che non seguono necessariamente alla frustrazione, ma si verificano soltanto
quando il soggetto vive la frustrazione come una minaccia alla sua integrità personale.
Per Rosenzweig la possibilità di associare ad una semplice reazione need-persistive anche una reazione
ego-defensive dipende dalla struttura della personalità del soggetto ed in particolare dalle sue ansie nel
rapporto con la realtà.
Anche in questo caso quindi l'attuazione o meno di una risposta aggressiva non è più tanto in funzione della
frustrazione, ma dipende anche in misura rilevante dall'equilibrio psichico del soggetto, che non è una
variabile immediatamente osservabile.
In modo analogo e nello stesso periodo, anche A. Naslow [1941, 1943] distingue, questa volta però a livello di
frustrazioni e non di risposte, tra sheerdeprivation, cioè semplice deprivazione di un bisogno, e threatening-
frustration, cioè quelle frustrazioni che rappresentano un pericolo che investe il modo di percepire e di reagire
del soggetto nella sua globalità. Ne consegue che la frustrazione si configura come un esperienza
eminentemente soggettiva" [Caprara, 1972] e in questo senso vanno interpretate le diverse modalità con cui
le persone reagiscono ad essa. Il modo di percepire e di reagire alla frustrazione costituisce un sintomo della
modalità con cui il soggetto affronta la realtà.
Numerosi studi degli anni '40 e '50 [Bateson, 1941; Zander, 1944; Thibaud, 1952,1955; Pastore, 1950,1952;
Cohen, 1955; McKee, 1955] mostrano come le modalità di percepire e di reagire alla frustrazione variano sia
in relazione all'autostima, ai sentimenti di fiducia, di sicurezza, di colpa, ecc. (cioè a variabili del carattere), sia
in relazione alla prevedibilità, alla giustificabilità, o arbitrarietà della frustrazione, e sia, in misura significativa,
rispetto al contesto culturale e sociale.
Secondo Caprara tutti questi sviluppi della teoria dell'aggressività originati dall'iniziale impostazione di Dollard
sono caratterizzati dall'abbandono deciso di ogni ipotesi riduzionistica del tipo S-R "per abbracciare, in una
visione più unitaria, organica e dinamica le complessità della realtà psichica. L'ipotesi frustrazione -
aggressività ed i principi ad essa associati relativi all'intensità, alla direzione ed alla catarsi dell'aggressività,
vanno così riconsiderati secondo una prospettiva personalistica di tipo R = f (S, P).
Il tipo, l'intensità e lo sviluppo della risposta variano in relazione alle caratteristiche oggettive
dello stimolo frustrante ed in relazione alle caratteristiche soggettive dell'attività psichica che interpreta lo
stimolo e seleziona la risposta."
Tutti questi studi degli anni '40 e '50 possono quindi, in questa prospettiva, essere considerati1 insieme alla
teoria di Berkowitz, che si sviluppa negli anni '60 (e che verrà esaminata più avanti), come una fase di
transizione delle originarie impostazioni comportamentiste alla più organiche interpretazioni dell'aggressività
elaborate nelle teorie neocomportamentiste e cognitiviste degli anni 70 ed '80.
Il giudizio sull'omogeneità di fondo dei citati scritti degli anni '40 e '50 non è da tutti condiviso. Ad esempio F.
Di Maria e S. Di Nuovo ritengono che, nonostante i tentativi di riformulazione, l'ipotesi di rapporto biunivoco
tra frustrazione e aggressività sul quale si sono basate le ricerche degli studiosi dell'Università di Yale, non
manca ancora oggi (1984) di suscitare critiche. Infatti: "Gli autori di questa ipotesi, nel definire la relazione tra
stato di blocco dell'organismo diretto verso una meta e comportamento aggressiva, oscillano tra il ritenerla
fondamentalmente "automatica" (ossia programmata nell'organismo) oppure frutto di apprendimento. Nel
primo caso ci troveremmo ancora di fronte ad una caratteristica universale, riscontrabile in tutti gli organismi e
in tutte le circostanze; il che non sembra sperimentalmente sostenibile (...). Nel secondo caso bisognerebbe
stabilire le modalità tramite le quali tale relazione è appresa, spiegare perché alcuni individui rispondano in un
certo modo ed altri in modo diverso di fronte ad un medesimo evento frustrante."
Queste difficoltà, in ultima analisi, deriverebbero dall'assunto iniziale degli studiosi di Yale secondo cui
l'aggressività è sempre conseguenza di una frustrazione, mentre De Maria e Di Nuovo ritengono che
"nessuna teoria monocriteriale può rendere conto delle molteplici determinanti dell'aggressività."
Anche Erich Fromm, riprendendo alcune osservazioni di Berkowitz (di cui si tratterà più avanti), critica la ria
della scuola di Yale, ponendo l'attenzione sul fatto che il concetto di frustrazione sarebbe utilizzato in maniera
ambigua da Dollard e collaboratori. Per Fromm, infatti, frustrazione può significare sia l'interruzione di
un'attività finalizzata in corso di attuazione, sia la negazione di un desiderio, nel senso quindi di semplice
privazione. Da questa ambiguità consegue che "a seconda del significato della frustrazione, ci troviamo di
fronte a due teorie completamente diverse. Nel primo senso, la frustrazione sarebbe relativamente rara,
verificandosi solo quando l'attività desiderata fosse già cominciata; non sarebbe quindi abbastanza frequente
da spiegare tutta o anche soltanto una parte considerevole dell'aggressione. Allo stesso tempo, spiegare
l'aggressione come risultato di un'attività interrotta potrebbe essere l'unica parte valida della teoria. Per
smentirla o confermarla, nuovi dati neurofisiologici potranno essere di valore decisivo. Anche la teoria basata
sul secondo significato della frustrazione non sembra reggere di fronte a tutte le vaste prove empiriche. Prima
di tutto, potremo considerare un fatto fondamentale della vita: senza frustrazione non si può raggiungere
nulla d'importante. L'idea che si possa imparare senza sforzo, e cioè senza frustrazione, può andare bene
per uno slogan pubblicitario, ma certamente non è vera per quanto riguarda l'acquisizione di certe capacità
fondamentali. Senza la capacità di accettare la frustrazione, l'uomo non sì sarebbe affatto evoluto. [...] Quel
che può produrre aggressione, come spesso succede, è il significato che la frustrazione ha per la persona,
ed il significato psicologico della frustrazione varia secondo la costellazione complessiva in cui si inserisce."
Dunque, per Fromm il carattere di una persona è il fattore più importante nel determinare il verificarsi e
l'intensità della frustrazione; è il carattere della persona a determinare, in primo luogo, che cosa può
frustrarla, e in secondo luogo l'intensità della sua reazione alla frustrazione.
E' proprio la sottovalutazione dell'importanza del carattere che per Fromm costituisce il limite fondamentale
dell'impostazione teoretica degli studiosi della scuola di Yale.
Nel corso degli anni '60 le teorie dell'aggressività si arricchiscono di significativi apporti sia per gli studi di
eminenti psicologi comportamentisti come A.H. Buss [1961] e L. Berkowitz [1962, 1964, 1965, 1969], sia per i
noti esperimenti di S. Milgram [1963] e di Epstein [1966].
Buss mette in discussione la definizione stessa di aggressività proposta da Dollard, sostenendo che va
evitata l'utilizzazione del concetto di "intento" (nella definizione di Dollard troviamo infatti l'espressione: "goal
response") sia perché esso implica una prospettiva teleologica, sia perché metodologicamente è difficile
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