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Cinquecento; e in una situazione così difficile non risulta che i decreti tridentini del 1563 sulle
coppie di fatto ebbero nell’immediato un qualche rilievo. Tra l’altro non li recepì neanche il primo
sinodo post-tridentino celebrato a Napoli nel 1565: i padri sinodali napoletani infatti fecero solo
un richiamo al concubinato degli ecclesiastici.
Nel primo Cinquecento la curia napoletana canalizzava le proprie energie alla lotta all’eresia e alla
riqualificazione del clero. Non sorprende perciò che un’isolata testimonianza del 1549 sia per
lunghi anni la sola traccia dell’interesse giudiziario della Curia arcivescovile di Napoli per vicende di
concubinato. I sospetti riguardavano un prete calabrese, scagionato dopo solo un paio di giorni dai
giudici diocesani.
Ovviamente la Curia sapeva benissimo che in città vi era un alto numero di coppie di fatto,
soprattutto tra i laici, ma il desiderio di riportarli all’ordine si scontrava con le pretese della
giustizia secolare, che sui concubini rivendicava competenze esclusive.
È piuttosto dubbio tuttavia che verso la metà del Cinquecento le autorità diocesane di Napoli
avessero l’intenzione e la possibilità di colpire i conviventi laici, tranne alcuni casi isolati: non
c’erano solo carenze di uomini e mezzi ma anche la tradizionale tolleranza verso il concubinato e la
convinzione che non si trattasse di una trasgressione grave. A rendere ancora più difficile la
situazione vi era, nel tardo Cinquecento, la crescita vertiginosa degli abitanti della città. Le
conseguenze più gravi di quel sovraffollamento le denunciavano gli stessi ecclesiastici:
impossibilità di scoprire gli inconfessi, di controllare gli stranieri eretici, di somministrare per
tempo i sacramenti ai malati gravi, di controllare se tutti i fedeli rispettano il precetto pasquale.
Proprio l’elusione all’obbligo di confessarsi almeno una volta all’anno, a Pasqua, è da collegarsi al
concubinato: i pubblici peccatori sfuggivano all’obbligo religioso o per indifferenza, o per evitare
sgradevoli rifiuti di assoluzione. I parroci delle piccole circoscrizioni erano però ben a conoscenza
del numero delle famiglie di fatto, ma il più delle volte preferivano evitare la denuncia.
La lotta alle convivenze more uxorio vedeva contrapporsi la Chiesa e le autorità Viceregno
spagnolo. L’inizio dei contrasti risaliva al 1568, fase che si collegava alla pubblicazione della bolla
papale In Coena Domini. L’arcivescovo di Cosenza, Flavio Orsini, era stato il più energico difensore
della giurisdizione ecclesiastica in materia di concubinato, richiedendo nel 1568 e nel 1569 il
sostegno del braccio secolare per la cattura di alcuni conventi ma ricevendo in entrambi i casi un
secco rifiuto da parte dalle autorità spagnole. 4
D’altro lato, il controllo delle convivenze more uxorio era solo uno dei problemi che inasprivano i
rapporti tra Stato e Chiesa nel Viceregno. I cosiddetti casi di “foro misto”, cioè le questioni su cui
rivendicavano competenze sia la giurisdizione ecclesiastica che quella regia, alimentavano
continue tensioni tra ecclesiastici e autorità statali. Alcune questioni riguardavano gli interessi
della Chiesa, come le usurpazioni di beni ecclesiastici e il mancato pagamento delle decime, altri
invece erano delitti di varia gravità, puniti sia dalle leggi della Chiesa che da quelle dello Stato: dal
sacrilegio alla bestemmia, dal sortilegio all’incesto, ma anche adulterio e bigamia che
coinvolgevano direttamente il matrimonio.
Dalla fine degli anni Sessanta del Cinquecento, per quasi vent’anni, la questione delle competenze
sui casi di foro misto (soprattutto il concubinato) fu al centro di una controversia molto aspra tra
Roma, Napoli e Madrid. La linea delle autorità regie fu molto chiara: sui laici – eretici esclusi – i
giudici ecclesiastici avevano solo poteri spirituali (come per i casi di usura e adulterio), potevano
perciò scomunicare i trasgressori ma non processarli. La sola eccezione era rappresentata dal
sortilegio, ma solo quando era ereticale o vietato da leggi civili. Per il resto però le competenze sui
laici sospettati di tali delitti erano riservate esclusivamente alla giurisdizione regia. Così anche per
il concubinato, dopo la scomunica, la competenza era regia ed erano le autorità spagnole a
procedere all’allontanamento di uno dei due trasgressori.
A un ordinamento così duro, che annullava la libertà di azione dei tribunali ecclesiastici, Roma
ribadì la normativa tridentina e l’esigenza di collaborazione tra Stato e Chiesa nel catturare i
peccatori. Le lunghe e difficili trattative che ne seguirono si sbloccarono solo nel 1588-1589, con
un accordo piuttosto soddisfacente per le autorità romane e che affermava lo schema del doppio
intervento: i vescovi del regno erano tenuti a procedere contro i concubini e a comminare la
scomunica (secondo quanto stabilito dal Concilio di Trento), mentre gli ufficiali spagnoli
intervenivano ad espellere uno dei due partner. Nonostante ciò la caccia ai conviventi laici si
avviava a diventare monopolio esclusivo dei giudici ecclesiastici.
È rilevante notare che nel Cinquecento e nel Seicento in tutta l’Italia meridionale, esclusa Napoli,
lo Stato mostrava una forte attenzione al controllo delle coppie di fatto, inviando a giudici e
capitani precise istruzioni per stroncare il fenomeno, ma anche per bloccare le ingerenze delle
autorità ecclesiastiche.
Nella capitale del regno invece non vi è alcuna traccia di iniziative ecclesiastiche contro i conviventi
laici (solo alcune indagini su presunte famiglie di fatto di sacerdoti) e neanche di controversia con
le autorità statali. Una simile inoperosità caratterizza anche le autorità secolari napoletane.
A Napoli, nella seconda metà del Cinquecento, la battaglia più importante tra Stato e Chiesa era
combattuta per il controllo di delitti considerati più importanti: il sacrilegio e la bestemmia dagli
anni Settanta, il sortilegio e la bigamia dagli anni Ottanta/Novanta.
Nel 1576 la Curia arcivescovile di Napoli fu posta sotto il teatino Paolo Burali d’Arezzo, rigoroso e
intransigente come pochi, che si adoperò per riformare in profondità la vita religiosa della diocesi.
In questo orizzonte si collocano i primi attacchi della Curia arcivescovile ai conviventi laici della
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città: si tratta di due sole iniziative, condotte nel 1578 (anno della morte dell’arcivescovo Burali),
che rimasero isolate per i successivi dieci anni.
Solo nel settembre del 1589 venne celebrato a Napoli il primo vero processo di concubinato,
contro due massari di Secondigliano, rilasciati dopo poche ore. Curiosamente non furono coinvolte
le due donne denunciate con loro. Ma già l’anno successivo le inchieste andarono a coinvolgere
entrambi i partner, colpiti – in caso di effettivo concubinato – dalla scomunica e dal divieto di
frequentarsi. Non venivano però ancora applicate le norme tridentine che prevedevano pene
supplementari contro le donne.
L’avanzata ecclesiastica non portò lo Stato a rinunciare ad intervenire contro gli esiti socialmente
più pericolosi delle convivenze, quelli legati all’adulterio (che era di competenza statale e che
solitamente veniva punito con segregazione delle donne in monastero).
Un altro aspetto rilevante della questione delle convivenze more uxorio era la totale indifferenza
che le autorità ecclesiastiche mostravano verso i figli delle coppie costrette a separarsi. La sola
decisione che li coinvolge è un’eclatante condanna del 1610, che obbligò una concubina ad
allontanare i sei figli, ad eccezione dei minori di tre anni. Per il resto, le testimonianze rimaste
riguardano l’internamento forzato delle figlie nei Conservatori (oggetto di disperate resistenze da
parte delle madri) e la questione dei diritti ereditari dei figli illegittimi riconosciuti.
Un altro aspetto caratteristico della battaglia inaugurata a Napoli nel tardo Cinquecento era la
scelta delle autorità vescovili di evitare agli ecclesiastici conviventi le procedure di scomunica, che
contemplavano (per i laici ovviamente) l’affissione dei cartelli infamanti sulla casa degli
scomunicati (cedoloni) e l’esclusione dalla comunità. Per gli ecclesiastici dunque nessuna
scomunica e nessun cedolone, ma solo procedimenti giudiziari per garantire loro la massima
riservatezza e tutelare il loro onore.
Mentre nel resto del regno i concubini furono esposti a procedimenti sia da parte delle autorità
statali che ecclesiastiche, a Napoli e nella diocesi la Curia arcivescovile ne assunse gradualmente il
pieno controllo.
Clero e Chiesa ebbero dunque un ruolo rilevante nel favorire l’avvio delle procedure giudiziarie e
questo dipendeva soprattutto dal ruolo fondamentale dei confessori. In ambito sessuale e
matrimoniale la loro influenza si fece sentire molto presto, prima della chiusura del Concilio di
Trento, soprattutto a Napoli, dove operava la Compagnia di Gesù. Furono proprio i confessori
gesuiti che rivoluzionarono la pratica del sacramento della penitenza e la indirizzarono verso il
governo della sessualità. Tutto questo fu possibile grazie all’esaltazione del precetto pasquale e al
prestigio dei confessori. Gli interventi dei confessori tuttavia non erano sempre indirizzati verso la
lotta agli abusi, di cui potevano macchiarsi essi stessi (come nei casi di adescamento e
propagazione di eresie sessuali durante la confessione). I confessori infatti potevano decidere di
non rivelare la presenza di coppie di fatto nella propria diocesi, per garantire loro rischiose vie
d’uscita. 6
Applicare nella Napoli postridentina la normativa conciliare in materia di concubinato era
impossibile per una serie di ragioni: i conflitti con la giurisdizione regia, le difficoltà dei parroci, le
resistenze dei laici, l’indifferenza generale. È difficile tuttavia stabile da dove vennero gli ostacoli
maggiori alla Curia arcivescovile napoletana. In ogni caso comunque le autorità regie tollerarono le
ingerenze degli ecclesiastiche in materia di concubinato quando esso non andava a sovrapporsi
all’adulterio.
Gli arcivescovi napoletani, piuttosto che impegnarsi nella campagna di sensibilizzazione per
costringere le coppie di fatto alla separazione o al matrimonio (ove possibile), decisero di tenere
un atteggiamento autoritario verso chi, oltre a vivere la sessualità in maniera disordinata,
difendeva la liceità dei suoi comportamenti. Bisognava screditali e incutere loro timore attraverso
lo spettro dell’Inquisizione e l’accusa di eresia.
CAPITOLO 3 – Inquisizione napoletana ed “eresie” sessuali: il tardo Cinquecento
In Italia l’Inquisizione Romana non si occupava dei vari abusi sessua