vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Le procedure
L’Inquisizione romana seguiva il processo inquisitorio, che si differenziava dal processo accusatorio.
Il processo inquisitorio, a differenza di quello accusatorio, prevedeva la fusione del giudice e dell’accusatore
nella figura dell'inquisitore ed era egli stesso ad avviare d’ufficio il procedimento. Nel caso italiano
7
raramente il procedimento si apriva d’ufficio ed era spesso necessaria una denuncia. A questo punto si
aprivano le indagini e la racconta delle prove e l’inquisito era, di solito ma non sempre, incarcerato.
Questa prima fase, detta “processo offensivo”, non prevedeva la presenza di avvocati difensori, l’accusato
doveva difendersi da solo. Potevano anche esser concessi gli arresti domiciliari ma, in ogni caso, l’accusato
doveva nominare dei fideiussori che si impegnavano a pagare pesanti multe se l’inquisito fuggiva.
In questa prima fase con domande molto particolari si cercava di accertare sia i delitti commessi sia (e
sopratutto) le intenzioni, il grado di colpevolezza con cui erano stati compiuti. Bisognava però evitare di
sottoporre gli inquisiti ad interrogatori suggestivi, cioè a pressioni troppo esplicite che potevano turbare –
soprattutto nei processi di stregoneria – persone deboli e impaurite e spingerle a confessarle il falso (cioè ciò
che volevano sentirsi dire i giudici).
Gli interrogatori potevano prevedere anche delle torture se i giudici ritenevano reticenti o mendaci le
dichiarazioni rese. Le torture però (tortura reintrodotta da papa Innocenzo IV nella bolla Ad extirpanda
del 1252 per ottenere la confessione del reo) dovevano essere approvate dal 1591 obbligatoriamente dal
Sant’Uffizio, e potevano essere applicate per non più di un’ora. Inoltre anche i tipi di tortura ammessi erano
molto limitati. Lo strumento di tortura più diffuso era la corda: gli inquisiti venivano spogliati e sospesi ad un
argano con le braccia legate dietro la schiena e sottoposti a violenti squassi della fune. Le confessioni fatte
durante la tortura, la quale era affidata al braccio secolare, non erano giuridicamente valide se non venivano
confermate durante gli interrogatori ordinari i quali, a loro volta, non dovevano sottoporre l’indagato ad
eccessive pressioni (quindi erano vietati interrogatori suggestivi). Se l’inquisito aveva dei problemi fisici
veniva usata una tortura alternativa, quella dei cosiddetti taxilli: si trattava di una piccola attrezzatura di
legno posta tra le dita dei piedi e stretta sempre più provocando dolore e schiacciamento delle dita.
Dopo gli interrogatori venivano formulati i capi di accusa e notificati all’inquisito (ed eventualmente inviati a
Roma *). A questo punto si apriva il processo difensivo in cui erano ammessi (ma non obbligatoriamente) gli
avvocati della difesa. Seguivano, quindi, nuovi interrogatori ed eventualmente nuove torture finché non si
giungeva al termine del procedimento che poteva portare a diversi esiti: la liberazione, il pagamento di una
cauzione o, infine, la sentenza di colpevolezza (solitamente emanata dall’inquisitore in accordo col vescovo)e
la condanna. La condanna prevedeva diversi gradi di durezza: dalla pena capitale alle pene salutari e minori
(come preghiere, digiuni, pellegrinaggi…)
Essere condannati da un tribunale inquisitoriale voleva dire che c’era stato un lieve sospetto d’eresia o
un’eresia accertata ed era quindi necessaria l’abiura cioè la revoca e il rigetto formale dei propri
convincimenti eretici (“abiuro, maledico et detesto…”). Esistevano tre tipi di abiura proporzionati alla gravità
del caso: l’abiura de lievi o de vehementi suspicione nel caso di sospetto d’eresia, l’abiura de formali se
l’eresia era accertata.
Le prime due abiure erano riservate a delitti contro la fede di minore gravità, mentre la terza era utilizzata
per gli eretici e gli apostati in senso stretto. Se l’abiura non poteva essere revocata, le pene che
l’accompagnavano potevano essere mitigate se l’accusato si mostrava pentito (inoltre potevano essere
inoltrate delle domande di grazia ai giudici locali che avevano deciso la condanna o nei casi più gravi agli
inquisitori generali) .
Solitamente la lettura delle sentenze e la pronuncia dell’abiura erano pubbliche e si svolgevano solitamente
nelle chiese. Inoltre in casi particolari (per non infamare gli inquisiti facoltosi o per non divulgarne gli errori e
8
le false credenze) le cerimonie si svolgevano in privato, davanti ai giudici. La differenza con il caso spagnolo è
notevole, infatti nella Penisola Iberica erano molto diffusi gli autodafé cioè quelle cerimonie pubbliche che si
svolgevano in piazza e in cui veniva eseguita la penitenza e la condanna inflitte dall’inquisizione, esse erano
molto spettacolari e prevedevano messe, processioni, lettura della sentenza e messa in atto di eventuali
torture e penitenze.
[* Dopo aver individuato e formalizzato i capi d’accusa gli atti venivano inviati agli inquisitori romani;
infatti, soprattutto per i procedimenti più importanti, l’autonomia dei tribunali locali era minima, essi
dovevano trasmettere gli atti alle strutture centrali e ricevere, da queste, ordini e indicazioni soprattutto
per l’applicazione della tortura e l’emanazione della sentenza (dal 1581 fu resa obbligatoria la
trasmissione delle sentenze e delle relative abiure). Dovevano essere sottoposti al vaglio degli inquisitori
generali i casi di eresia formale, di possesso di libro proibiti, le cause di affettata santità, i processi di
stregoneria e di magia diabolica e i processi di astrologia e negromanzia. Gli inquisitori generali potevano
richiedere l’avocazione del processo (che prevedeva il trasferimento dell’inquisito nelle carceri del
Sant’Uffizio), oppure ulteriori informazioni in vista di successivi provvedimenti].
Le pene
In realtà la pena di morte, in Italia, non era così diffusa come nel resto d’Europa, la condanna come eretico
non portava direttamente al patibolo ma erano due i requisiti solitamente necessari: la recidiva e
l’impenitenza (e comunque solo per gli eretici in senso stretto e per gli apostati formali, cioè i più motivati e
convinti avversari della fede).
Le condanne a morte non potevano essere decise ed eseguite localmente, esse implicavano
obbligatoriamente il coinvolgimento degli inquisitori generali. Inoltre la pena capitale doveva essere
eseguita, necessariamente, dal braccio secolare in quanto gli uomini di chiesa non potevano macchiarsi del
sangue delle donne e degli uomini condannati.
Nel caso in cui la pena capitale fosse stata applicata per impenitenza del condannato (cioè, per esempio, un
eretico che non abiurava e che quindi non rinnegava le proprie convinzioni contrarie all’ortodossia) essa
poteva esser evitata con il semplice ravvedimento del reo. Infatti veniva stabilito un congruo periodio di
tempo (un terminus ad resipiscendum), dalla durata variabile ma di solito non meno di 60 giorni, durante il
quale il reo poteva pentirsi e la pena capitale poteva essere mitigata per esempio con il carcere perpetuo
(che dopo pochi anni sarebbe stato, comunque, “condonato”).
Durante tale periodo (che poteva durare anche molto più di 60 giorni) il condannato veniva visitato da
esperti (confessori, teologi…) che cercavano di convincerlo ad abiurare; in alcuni casi tali pressioni potevano
assumere l’aspetto di vere e proprie torture, soprattutto quando venivano affidate ai secolari, come le
Compagnie di Giustizia, cioè confraternite di origine medievale che “assistevano” i condannati a morte sia
dallo Stato che dalla Chiesa.
La stessa pena capitale poteva cambiare rispetto al pentimento o meno del reo. In particolare se esso non
abiurava e non accettava neanche i sacramenti allora veniva arso vivo, chi accettava i sacramenti poteva
usufruire di un trattamento di “favore”: essere ucciso dal boia prima di essere arso (il rogo restava dunque
una necessità per purificare l’ortodossia macchiata dall’eresia. Comunque era deciso dalla Congregazione del
9
Sant’Uffizio l’applicazione o meno della pena capitale. Solo nella città di Venezia l’annegamento in laguna
sfuggì al controllo del Sant’Uffizio).
In generale nel tardo ‘500 gli inquisitori generali erano orientati ad una politica repressiva cauta e
moderata. In questi decenni le condanne a morte diminuirono nettamente: il Sant’Uffizio mirava infatti ad
ottenere la conformità all’ortodossia con la minor violenza possibile.
Esistevano poi tutta una serie di pene minori: la più severa era sicuramente l’immuratio cioè la detenzione
perpetua in una piccola cella senza luce; vi erano, poi, il carcer perpetuus e il carcer perpetuus irremissibile
cioè la condanna, rispettivamente, a 3 e a 8 anni di reclusione (solitamente in monastero). Pena altrettanto
grave era la condanna a “remigare sulle galere” per un periodo che andava dai 5 ai 7 anni, punizione questa
che veniva applicata in casi di gravi delitti contro la fede (negromanzia, sacrilegio e abusi grave dei
sacramenti).
Esistevano, poi, tutta una serie di pene infamanti per i pubblici peccatori cioè, soprattutto, bigami,
bestemmiatori incalliti e autori di sortilegi e malefici gravi: essi erano costretti a reggere un cero (o un
cartello sul quale era scritta la propria colpa) inginocchiati davanti la chiesa nei momenti di maggiore
affluenza, quindi solitamente la domenica. Le pene infamanti non coinvolgevano quasi mai i nobili e gli
ecclesiastici: il discredito doveva rimanere confinato ai singoli, non allargarsi all’aristocrazia e al clero.
Infine vi erano delle pene che potremo definire di “riabilitazione e rieducazione” le quali erano la
stragrande maggioranza, in quanto bisogna considerare che la maggior parte dei processi portati avanti dai
tribunali locali riguardavano delitti di piccola entità (bestemmie, superstizioni semplici…). In questo caso le
punizioni più diffuse erano: l’obbligo di servire in ospedale, l’esilio temporaneo, l’affidamento ad un
confessore o ad un padre spirituale nominato dai giudici, penitenze salutari (preghiere, digiuni,
pellegrinaggi).
Privilegio della spontanea comparizione
Verso la metà degli anni ’70 cominciò ad affermarsi un’alternativa al processo ordinario e cioè la possibilità
della “spontanea comparizione”. Gli sponte comparentes potevano autodenunciarsi al tribunale
inquisitoriale e riceve, così, trattamenti di favore: nessun processo, procedimenti molto più rapidi, nessuna
pena temporale, abiura privata (però le abiure de formali e de vehementi esponevano chi era comparso
spontaneamente al rischio della recidiva – se fosse incappato in seguito nelle maglie del Sant&rs