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Lo squadrone degli scultori inglesi
L’Inghilterra pesca nel Novecento la scultura, presentandosi con uno straordinario quintetto.
Tony Cragg (1949) è la personalità dominante. Parte dalle briciole del Nouveau Realisme,
sfruttando i frammenti prelevati dalla pattumiera; ben presto comincia ad accatastare quegli
elementi, creando degli imponenti monoblocchi. L’ambiguità è la legge che presiede alle varie
creazioni morfologiche da lui concepite, sempre nel segno dell’abnorme, del mostruoso, del
voluminoso.
Anish Kapoor (1954) si muove lungo una direttrice opposta, attratto dalle cavità, per cui quanto
scompare alla vista qui e ora forse lo si ritroverà trasmigrato in un universo complementare.
Roger Deacon fa uso insistito dei legamenti con cui sembra che si proponga di costruire una via di
mezzo tra pieni e vuoti ponendo in primo piano la matassa degli allacciamenti.
Julian Opie (1958) è stato senza dubbio danneggiato da una trasformazione notevole subita nel suo
cammino, all’inizio irrigidisce le superfici con tratti rapidi in bianco e nero, per poi passare alle
realtà virtuali passando al neo-Op.
Dai Nuovi Futuristi ai Medialisti
Anche l’Italia ha dato validi contributi allo stabilirsi di questa prospettiva neo-oggettuale. Il
versante neo-Pop di celebrazione della paccottiglia di cattivo gusti, ma condotta in modi scintillanti
e suadenti, è stato seguito dal movimento nato alla metà del decennio del Nuovo Futurismo, così
chiamato dal gallerista milanese Luciano Inga Pin. Rileggendo la seconda fase di quel movimento,
con Balla, avviando la cosmesi del panorama urbano. I Nuovi Futuristi volevano condurre
un’impresa analoga, seppure in un mutato contesto sociale, si tratta di andare a scavare nella serie
anonima dei gadgets, della meraviglia banale. Le punte di questo movimento furono il trio noto
sotto la sigla Plumcake (Giovanni Cella (1953), Romolo Pallotta (1954), Claudio Ragni (1955)).
Insistono sulla variante plastica.
Marco Lodola (1955) non ha mai avuto dubbi che la prima fosse la soluzione vincente, anche lui
ritaglia da malleabili materie plastiche sagome frastagliate, piatte come pedine di un gigantesco
domino da giocare sulle pareti delle stanze.
Un terzo membro del gruppo, Gianantonio Abate (1955) si è assunto l’impresa di affrontare una
dimensione genetica, genesi commisurata al mondo della plastica, PVC che diventano foglie.
La formazione iniziale del Nuovo Futurismo ha compreso altri membri: Clara Bonfaglio (1959);
Innocente (1948) entrambi attenti a monumentalizzare con l’aiuto delle materie plastiche; Luciano
Palmieri (1951) simile ad Abate; Umberto Postal (1949) ha ridotto a brevi sigle le icone del nostro
universo.
Dato che analizziamo la trasformazione del trash in meraviglie ottiche ci possiamo spostare a
Torino, con Gian Luigi Pusole e Bruno Zanichelli, decisi a condurre quest’impresa a livello
pittorico.
Pusole (1963) ricavava dai motivi pubblicitari degli elementi di un alfabeto incantato da ripetere in
lunghe serie.
Zanichelli (1963-1990) da lui si trae il Medialismo, che presenta due facce: un rovistare attorno agli
media pesantemente approdati a immagini-oggetti; oppure dato che i media di oggi sono sempre più
rarefatti si passa alla noosfera.
Esponente dei Medialisti rivolti a celebrare l’iconosfera è Santolo De Luca (1960), che dipinge con
attenta e preziosa manualità le immagini di prodotti del mercato all’angolo. Quello che conta per lui
è che ogni singola apparizione sia pronta a moltiplicarsi.
Aspetti di neo-oggettualismo nostrano (Arienti e compagni)
L’opzione più seguita nel nostro paese alla metà degli anni ’80 fu quella di specie neo-minimalista. I
suoi cultori capirono che bisognava evadere dal piano, occupare con nuovi materiali la terza
dimensione, anche se con movenze rigide e schematiche.
I primi in ordine di tempo sono stati Antonio Catelani (1962) Daniela De Lorenzo (1959), Carlo
Guaita (1954) che fecero colpo in un Aperto della Biennale di Venezia (1988).
Associato a questo trio c’è Antonio Di Palma (1963), in cui l’operazione neo-minimalista assumeva
caratteri esemplari. Proponeva figure solide di conforme fedeltà all’ABC del manuale di geometria,
optando nel definire gli ingombri volumetrici su soffici travi lignee, con una tinteggiatura blu
squillante.
Questi medesimi tratti del ricorso a materiali soffici e alla presenza del colore caratterizzavano
anche le imprese del numero uno Stefano Arienti (1961). Anche lui costruisce linee e solidi
volumetrici ma di tenero cartone o successivamente nel leggero polistirolo.
Altri protagonisti milanesi caratterizzano quel momento di coltivazione ossimorica di un
minimalismo ritrovato, concependo enormi monoliti, ma leggeri.
Un valido esempio è Umberto Cavenago (1959) che trasporta l’intero universo delle macchine in un
lamierino di minimo spessore, svuotandole quasi di ogni materialità.
La legge ossimorica della conciliazione dei contrari vale anche per Mario Dellavedova (1958)m che
scriveva frasi di senso compiuto ma con il lettering più vario.
Maurizio Arcangeli (1959) resta più fedele a un solido e austero lettering tradizionale, ma li affida a
materiali di forte spessore scultoreo.
Un ingegnoso minimalismo ossimorico è anche quello praticato da Chiara Dynys, con vari corpi
aggettanti dalle pareti, ma ricavati da materiali nobili.
Un’occhiatina agli oggettualisti romani
L’Italia è bipolare, posta in equilibrio tra Milano e Roma. A Roma troviamo un terzetto appoggiato
dalla Galleria Ferranti: Andrea Fogli (1959), Claudio Givani (1958), Alfredo Zelli (1957), concordi
tra la fine degli anni ’80 e primi ’90 a praticare anche loro un oggettualismo solido, volutamente
opaco.
Fogli applica quasi gli accorgimenti di un imbalsamatore, fasciando nuclei che vanno a sparire;
successivamente passa a smaterializzare le sue apparizioni.
Zelli propone alla nostra percezione una sorta di scheletro siliceo di un mollusco da tempo spazzato
via.
Givani offre anche lui le sue inerti stereometrie.
Colui che ha avuto maggior successo è Nunzio (1954), compone monoliti cosparsi di un
rivestimento ultrasensibile, all’interno di una consistenza plastica e col non-colore.
Giovanni Albanese (1955) rovescia il pendolo e gioca col fuoco.
Un procedimento di avvio minimalista è di Annie Ratti (1956), che muove da una sorta di ABC
compositivo, dato da certi pannelli dalle forme essenziali, attratta dai vuoti.
3. L’irresistibile avanzata di foto e video
Il caso ambiguo dell’Iperrealismo
Nel neo-oggettualismo possiamo trovare quelli che usarono l’apparecchio fotografico per la sua
capacità di aderire con alta fedeltà al panorama fornito dallo spaccato sociale della nostra epoca.
L’obiettivo fotografico vuol essere davvero un occhio, uno strumento di adesione visiva, che si pone
in alternativa al vedere della pittura.
Siamo nel combattimento per l’immagine, dove le due vie di approccio alla realtà, quella pittorica, e
quella che si colloca già sul fronte della morte dell’arte, ma non rinuncia alla perizia tecnica, si
sfidano reciprocamente, gareggiando, in vista di esiti sentiti ancora come affini.
Proprio per questa ambiguità possiamo porre nei primi anni degli anni ’70 l’Iperrealismo.
Non va in appoggio al fronte ambientale, ma neppure a quello implosivo, citazionista.
Era il tentativo di continuare linearmente la stagione Pop, andando ad ammirare il panorama urbano
e il consumismo, con i propri occhi, stabilendo la sfida del mezzo pittorico rispetto a quello
fotografico.
I protagonisti di questo fenomeno statunitense hanno avuto un forte consenso che si è presto
dimenticato.
Richard Estes (1936), fu il più limpido nel giocare di immagini riflesse su vari specchi e cristalli del
paesaggio urbano.
Chuck Close (1940), che procurava un impatto tra un volto e l’immagine ricavata a distanza molto
ravvicinata.
John De Andrea e Duane Hanson (1925-1996) usano la natura plastica, pongono fine all’ambiguità,
alla limitazione del ritratto su superficie, optando per la copia tale e quale, dei calchi,
rappresentazioni 3D con le resine sintetiche. Dei calchi più veri del vero.
Cindy Sherman e il post-umano
Torniamo al trionfo dell’extra-artistico, un esercizio della fotografia pieno di fiducia di se.
Cindy Sherman (1954) artista di punta, da notare che è donna, non rifugge dalla condizione
femminile, le sue serie fotografiche si nutrono della sua immagine o di altre donne.
Usa un fuoco perfetto, ma applica sul volto una serie di interventi. Slitta dal troppo umano al post-
umano.
Nan Goldin (1953) si affida alla serialità dei reperti per dar loro un po’ di vita.
Laurie Simons (1949) ci propone delle crasi violente, prende dei brani dal mondo ma li assembla
per vie impensate.
I gemelli Doug e Michael Starn (1961) per ridare forza straniante all’immagine fotografica la
appallottolano per ridargli volume.
Vik Muniz (1961) conduce curiose operazioni volte a ridare tangibilità all’immagine fotografica.
In altri casi l’immagine troppo nitida subisce procedimenti di sbiadimento come con James
Casebere (1953).
Si ritorna alla virtù prima dell’immagine speculare con Andreas Serrano (1950), che ne approfitta
per penetrare nelle stanze dove sono adunati gli orrori quotidiani. La fotografia si affida all’impatto
violento della sua veridicità.
Jeff Wall (1946) è uno tra gli artisti migliori di questo ambito. Fa professione di attaccamento
integrale alla casualità con cui si offrono a noi porzioni di vita vissuta, animate da personaggi
squallidi, in squallidi non-luoghi. Nessuno più di Wall riesce a farsi cantore del senza-valore, di
ogni cosa da buttare. Ma ad un certo punto si ribalta e temendo di perdersi in un mondo di grigiore
assoluto, ritorna ai temi già trattati in certi capolavori del museo.
Bill Viola (1951) nel suo caso le singole immagini di fedele riporto si animano con i videotape. C’è
una collimazione tra il prosaico-quotidiano e il mitico.
Gary Hill (1951) è evanescente, volto a inseguire dei fantasmi impalpabili.
Arte e fotografia nel Vecchio continente
Una zona di ampio ricorso allo sharp focus è la Germania, dove ha fatto scuola la coppia di coniugi
Bernt e Hilla Becher (1931, 1934), appartenenti alla temperie sessantottesca. Il loro esercizio
fotografico è quasi in funzione di una Land Art sui generis: è un ready-made di archeologia
industriale, troppo grande per essere fatto realmente, ma ne fanno in serie, così da creare
corrispondenza con la volumetria dell’oggetto reale.
Tra i giovani troviamo un terzetto: Thomas Struth (1954), Thomas Ruff (1958), Andreas Gursky
(1955). Anche con loro si fa capillare l’impre