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Roma e Istanbul
Paragoniamo il destino delle rovine di Roma e Istanbul. Dal IV secolo d.C. Istanbul diventò la
nuova Roma, Costantinopoli. Paragonata a Roma Costantinopoli è povera di vestigia antiche
conservate: un acquedotto, alcune colonne onorarie, l’ippodromo, i palazzi imperiali, la chiesa di
Haghia Sophia.
Le rovine di Istanbul sono potenti, soverchianti, perché come quelle di Roma fino a due secoli fa,
esistono in simbiosi con la città. La loro condizione racchiude un’ambivalenza: l’assenza di
protezione le rende presenze vitali, ma ne determina anche un rapido deterioramento.
Negli anni ’30 la municipalità di Istanbul cerca di mettere in atto un piano regolatore della città, ma
non va a buon fine, si costruì su zone dichiarate archeologiche.
A Roma furono messe in atto misure di conservazione dei monumenti antichi fin dal XVI secolo.
Arriviamo nel dopoguerra, dove l’isolamento fisico e ideologico dei monumenti antichi rispetto al
più ampio contesto urbano è ormai completo.
Una delle priorità in una città come Roma è la presentazione dei grandi complessi archeologici, per
lo più privi di informazioni elementari.
Bisogna rendere le rovine intellegibili al visitatore, cercando di giungere a una presentazione che
consideri il valore emozionale, simbolico, culturale, paesaggistico, tenere conto del passato e del
futuro, definire chiaramente qual è il messaggio che deve giungere, perché impari a godere il
monumento.
Rovine del moderno
Nel saggio Il Tempo grande scultore (1954), Marguerite Yourcenar ha sintetizzato la trasformazione
delle rovine da oggetto della contemplazione a materia dell’archeologia. Il sentimento delle rovine
nel XVIII secolo è incalzato dal risveglio del pensiero storico che spoetizza i documenti del passato
con il progredire del metodo scientifico.
Nel ‘900 è l’uomo moderno, costretto a vivere in un mondo di frantumi e che anela a una totalità
perduta e che perciò si riconosce meglio nelle creazioni artistiche che alludono alla perdita di
compiutezza, alla frammentarietà, al disorientamento: in questa direzione vanno i collages di Kurt
Schwitters, i decontestualizzati ready-made di Duchamp, Fontana, i futuristi, Rainer, Tinguely,
Brus, e in particolare Anne e Patrick Poirier, che hanno prodotto un corpus di opere che riunisce
l’archivio immaginario di un archeologo-architetto, dedicatosi allo scavo di un sito chiamato
Mnemosine. Ricostruiscono una loro verità di un luogo, non scientifica, ma non per questo meno
vera. Sono interessati al magazzino della memoria che le rovine contengono e che vogliono
rivitalizzare.
Colin Renfrew, archeologo britannico giunge alla conclusione che le rovine sono sia arte che
archeologia, permettendo il superamento della dicotomia tra le due categorie. Mentre in Italia si è
fermi a 40 anni fa.
Estraniare Venere, estraniare gli antichi – Maurizio Bettini
Pensando alla parola Venere viene in mente amore e bellezza, associata ad un immagine. L’elenco
delle Veneri è molto lungo. Ma perché dedicarsi a Venus? Per estraniare da noi questa divinità,
secoli e secoli di studi hanno ridotto per noi la dea Venere a una frivola icona di piacere e di
seduzione timorosa. In realtà non solo Venere, ma tutte le divinità antiche erano molto più di una
semplice metafora poetica usata per designare un sentimento. Le divinità antiche erano strumenti
per pensare il mondo e organizzare la società.
Le divinità erano diverse da come ce le immaginiamo, così come diversi erano i Greci e i Romani.
Il fatto che a queste antiche culture facciano capo le nostre culture occidentali contemporanee non
significa che Greci e Romani fossero come noi.
Anzi il loro modo di pensare il mondo e la società risultava spesso profondamente diverso dal
nostro. Osservando la loro alterità noi possiamo riuscire a mettere a fuoco di volta in volta ciò che
chiamiamo la nostra identità.
In realtà questa esigenza di confronto fra noi e gli antichi è molto più antica di quanto si pensi. Può
essere fatta risalire all’Umanesimo e al Rinascimento. Questo ritorno alla classicità fu un evento di
grande importanza nella storia dell’occidente, rappresentò una straordinaria fonte di ispirazione per
la cultura del tempo e per quella successiva. Ma non è solo questo hanno anche messo in
prospettiva la loro cultura, confrontando le concezioni contemporanee con quelle di altri tempi e di
altri luoghi.
La famosa lettera di Nicolò Machiavelli indirizzata a Francesco Vettori del 1513, viene considerata
come il manifesto del Rinascimento, tale da fornire una rappresentazione viva e concreta della
venerazione che quest’epoca coltivò nei confronti dei testi classici.
Si può vedere il Rinascimento come una fondamentale scoperta di noi attraverso un’esperienza
comparativa compiuta attraverso la scoperta dell’altro, gli antichi.
Memoria come futuro - La vita interiore dell’umanità – Alessandro Piperno
Le meravigliose vestigia hanno più a che fare con la morte che con la vita.
Nietzsche denunciava il modo inerte di intendere e trasfigurare l’antichità.
George Steiner ha scritto che la democratizzazione dell’alta cultura ha generato un ibrido assurdo.
Getta la luce sul paradosso irrisolvibile della contemporaneità: il virtuoso impulso democratico alla
diffusione delle opere classiche che rischia di degenerare in una specie di delirio demagogico.
Steiner afferma che qualcosa è successo che ha reso talmente ardua la nostra comprensione
immediata del classico.
T.S. Eliot nel Bosco sacro del 1917, raccomanda al poeta un rapporto consapevole e spigliato con la
tradizione. Nessun artista preso da solo ha significato compiuto, la sua importanza è il giudizio di
lui in rapporto agli artisti del passato.
Eliot scrive questo nel bel mezzo dell’età modernista, nessuno meglio dei modernisti ha saputo
suggerire un modo altrettanto dinamico e irriverente di sfidare i classici e di mettersi in
competizione con loro.
Oggi rimane ben poco di quella fervente visione umanistica. Ma il dialogo con i classici inaugurato
dai modernisti resta il più fecondo.
Ciascun individuo può guardare ai classici e a mondo antico con una curiosità non meno sfrontata di
quella suscitata da un’opera inedita e contemporanea.
Curtius nel suo monumentale Letteratura europea e medioevo latino, scrive che la cesura tra
l’antichità e il mondo nuovo ha determinato una sensazione di relatività che impone la necessità di
un canone per assicurare la tradizione. Nasce l’idea di canone.
Calvino ricorda ch i classici sono quei libri che si rileggono continuamente e ogni rilettura è una
scoperta. Si capisce perché in De Chirico, malgrado tanti riferimenti classici, si percepisce un senso
di ironica perplessità.
Non c’è solo la derisione, si può avere una complicità retroattiva.
Magari lo strumento più utile per avvicinare i classici è l’empatia, bisogna trattarli come una riserva
di sapienza e consapevolezza di cui ciascuno di noi può aver bisogno. Non sono altro che la vita
interiore dell’umanità.
I ruderi e le rovine: l’archeologia nel cinema italiano – Gianni Canova
La dolce vita (1960) di Federico Fellini si apre su un passaggio dove le rovine introducono nel film
un elemento di forte tensione fra la modernità tecnologica e la classicità residuale. In questa
sequenza si manifesta l’idea simmeliana di rovina: una forma completamente nuova, un ibrido fra le
spinte costruttive della cultura e quelle distruttive della natura.
Per Simmel (1911) la rovina si distingue dal rudere per la sua configurazione di compromesso e per
la sua funzione epifanica: annuncio di come la natura rivendichi sempre i suoi diritti. Nel film i
ruderi sono ridotti complementi di arredo di una città-museo che forse è essa stessa una grande,
pulsante, indecifrabile rovina.
È raro trovare nel cinema italiano un approccio all’antico così ugualmente potente e così
densamente significante. Per lo più il cinema italiano ha adottato nel corso del tempo una triplice
strategia di approccio all’antico: esotica (lontananza temporale, avventura archeologica), turistica
(film che tematizzano e drammatizzano il sito archeologico come meta narrativa di itinerari turistici,
siti archeologico come luoghi dove perdersi o perdere qualcosa di se), epifanica (possibilità che
l’incontro con l’antico porti i personaggi a una diversa modalità di conoscenza di se e della propria
esperienza del mondo).
L’incontro con le rovine genera smarrimento, confusione e perdita di certezze. Il cinema si limita a
rendere visibile il mistero, ci fa davvero incontrare l’Altro che si annida nell’antico, rivelarlo e a
farlo entrare in relazione con noi.
Flaneries – Tra le rovine. Una passeggiata – Emanuele Trevi
In una densa penombra di abusi
La domesticazione delle rovine, lunga e laboriosa, e non priva di terribili conflitti, a Roma dura da
almeno due secoli. Tra i grandi artisti, Piranesi è stato l’ultimo testimone di questa incredibile
bidonville archeologica che sono i Fori. L’immagine di Piransei (Veduta dell’Arco di Tito, 1760)
trasuda storia, vita, consunzione, fatica e resistenza. L’istinto artistico di Piranesi lo spinge in
direzione opposta di quella dell’archeologo. Rispetto all’esistenza umana, la rovina e il paesaggio
naturale vibrano all’unisono.
Contro il tempo
Superata una certa soglia, l’eccesso di memoria minaccia le città esattamente come fa con gli
individui.
La passeggiata romana può diventare una sfida perpetua contro il tempo, ma tutto ciò che ritorna dal
passato ha la stessa natura della pazzia.
Nel labirinto
Il problema delle rovine romane è che non ci sono spazi neutri, lungi dall’evocare un senso di
penuria e scarnificazione, le rovine sono di quanto più saturo possa contemplare lo sguardo umano.
Bisogna camminare molto, perdersi spesso e volentieri, abbandonarsi alle correnti e ai mulinelli del
caso, e aspettare con fiducia il momento in cui, quando ormai non ci si aspetta più nulla, l’onda di
piena della meraviglia torni ancora una volta a travolgerci, a farci sentire vivi.
È come se l’artista tenesse in mano non una sua opera, ma l’ultimo tassello di un puzzle destinato a
rivelare, una volta completato, la vera forma delle cose.
Per l’autore l’antico è un animale i cui organi sono fatti di una sostanza che riunisce in sé le qualità
del silenzio, dell’ombra, dell’acqua scura