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GRAV.
L’iniziativa di Zagabria fu un opportunità sagace per cominciare a raggruppare una parte di ricerche
e ricercatori già esistenti. Per arrivare allo scandalo che esplose a proposito di quella che fu definita
esercitazione profana, tecnologica, parascientifica, furono necessarie altre mostre europee: il Italia
la rassegna di Olivetti del ’62 e la Biennale di San Marino, Oltre l’Informale del ’63.
I giovani artisti provenienti dalle Accademie di Belle Arti d’Europa e America Latina, fiancheggiati
a Parigi dalla Mercante Denise Rene, invitati da Munari e sostenuti da Umberto Eco, volevano
analizzare con sistematicità i fenomeni della percezione, tentare una scienza dell’arte, dimostrare
che ciò che conta nell’opera non sono solo le sue implicazioni di conoscenza e comunicazione, ma
che il progetto dell’opera è l’opera d’arte indipendentemente dalla sua realizzazione.
L’Arte Programmata ha rappresentato un sostanziale rinnovamento del fare e dell’intendere estetico,
inaugurando una nuova fase della visualizzazione e ampliando quella sfera della percettività ritenuta
fino ad allora esclusivo dominio delle discipline scientifiche.
Alla prassi dell’interpretazione si sostituì la tecnica dell’osservazione e dell’accertamento metodico.
Quello che interessò i programmati fu: promuovere una metodologia interdisciplinare; rendere
esplicite le strutture percettive che sostengono le immagini e i messaggi legati alle immagini stesse;
i rapporti tra dati primari e dati costruiti; l’opera come campione tipologico; la lotta contro la
mercificazione dell’arte, spostandone l’attività ad una dimensione didattica.
L’Arte Programmata, detta anche Optical Art, puntava sui processi fenomenici che scaturiscono
dalla natura stessa delle cose. I materiali impiegati sono diversi da quelli tradizionali per ragioni
meramente funzionali. L’opera ha bisogno di artifici per il movimento, superfici trasparenti,
graficizzate e sovrapposte o riflettenti. Si elimina la rappresentazione della pittura. Si crea una
pittura senza qualità, senza disposizioni ne sensibilità.
A queste opere non sono estranei ne il delirio, ne l’insieme di candore ed esasperazione.
I protagonisti già negli anni dal ’63 al ’65 si mettevano in disparte, per far spazio ai numerosi
gruppi che si stavano formando, ma che si sciolsero a breve.
Ne citiamo 3: Gruppo 1, fine ’62; Gruppo ’63; l’operativo R a Roma. Questi gruppi, a differenza
dell’N o del T, proponevano una concezione dinamica, attraverso il movimento prendeva rilevanza
la dimensione tempo. Il movimento era illusorio.
Quest’arte si propagò talmente rapidamente, fino alla banalizzazione, che portò l’Optical in tutto
l’Occidente.
La Programmata non fu disgregata dai suoi oppositori, ma dai suoi sostenitori che ne equivocarono
gli intenti, si passò dal laboratorio scientifico alla boutique.
Poesia visiva La pittura da leggere e viceversa
La pittura da leggere o poesia da guardare, attraverso l’ironica riutilizzazione di immagini e slogan
di vasta circolazione, capovolge il significato dell’informazione diffusa dai media. Si persegue una
ritorsione critica nei riguardi dell’ossessionante panorama di segni, simboli e figure che la
pubblicità propina.
In Italia nel ’63, si fa molta attenzione alla Poesia Tecnologica del gruppo fiorentino con Lamberto
Pignotti, Eugenio Miccini, Lucia Marucci, Ketty La Rocca, Luciano Ori, e quella napoletana con
Stelio Maria Martini. Quasi contemporanee a Roma vi furono le sperimentazioni collagistiche
egrafiche di Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Renato Pedio e Antonio Porta.
Lettere alfabetiche, ideogrammi, corsivi, arabeschi, immagini, geroglifici, combinati in modo da
scuotere il linguaggio e la lettura d’uso abituale, sono i materiali della Poesia Visiva. Segni che
significano se stessi e rimandano ad altro da se. Si pongono come linguaggio peculiare. Alle
immagini vengono accostate scritte con sapore di contrasto, aventi funzione di stimolo in vista del
processo associativo che avviene in chi guarda. Così ci si rende conto che ragioniamo per
associazioni istituzionalizzate dalle convenzioni dei media. Altre volte si tratta invece di
organizzazioni di materiale segnico, i caratteri di stampa si propongono come oggetti.
Ugo Carrega è il fondatore del milanese Centro Tool dove dal gennaio del ’71 ha fornito una
sistematica informazione internazionale su quanto hanno prodotto e producono i poeti visivi.
Carrega sostiene che si tratta di costruire tracciati spaziali come significanti. Tutto ciò che viene
messo sulla pagina deve rispondere a una necessità di rapporto tra i segni.
Alle spalle della Poesia Concreta c’è il Lettrismo di Isidore Isou, fondatore della corrente Lettrismo
’43. Sostiene che la lettera alfabetica costituisce valore di per se, a prescindere dalla parola. Ma è
con Decio Pignatari e i fratelli Augusto e Haroldo De Campos che la ricerca poetica si identifica
con la possibilità visiva della parola-segno.
Negli anni ’60 Ilse e Pierre Garnier parlano di nuova poesia fonetica. Troviamo Henry Chopin,
Francois Dufrene e Dieter Rot, che realizzano una forma paraideogrammatica che ricorre
prevalentemente a modalità geometrico simmetriche. Il dattiloscritto si impone. Ci sono stati diversi
modi di operare, tutti questi fenomeni hanno le loro radici nella cultura di fine ‘800. Gli antecedenti
si chiamano Apollinaire, Mallarme, Kassak, Breton, Tzara, Picabia, Van Doesburg, Balla.
Negli anni ’60 e ’70 essendo la Poesia Visiva divenuta una specia di chiamata a testimonianza,
molti pittori diedero un contributo di scrittura.
Minimalismo o Strutture primarie Il gusto della geometria gigantesca
Come da una filiazione diretta e negazione al contempo, verso la Op Art e la Pop Art, nascono in
America le Strutture Primarie, dette anche Minimal Art, Antiform, ABC Art.
La nuova corrente viene presentata nel ’66 con la mostra Primary Structures al Jewish Museum di
New York. Della Pop ha le dimensioni gigantesche ed esasperate, e della Op restituisce il gusto
della geometria. Le Strutture Primarie mirano prevalentemente ad un’organizzazione di grandi
sagome molto ben rifinite dal punto di vista formale.
Si tratta di sculture elementari nella forma e nel colore, di solidi astratti che puntano sul far grande
per sconvolgere e coinvolgere lo spazio circostante. Si pongono come opere compiute che tendono
a realizzare una sintesi tra architettura, pittura, environments. Superfici tranquille ma non affabili,
instaurano una distanza pacata e severa che tiene a bada i furori della vita.
Spazio, geometria, ordine.
Gli americani Tony Smith, Bob Morris, Dan Flavin, Donald Judd, Carl Andre, Robert Grosvenor,
Walter de Maria, Sol LeWitt, Larry Bell, Tony De Lap, John Mc Cracken e gli inglesi Anthony
Caro, William Tucker, Philipp King e Richard Smith sono stati i primi rappresentanti del nuovo
indirizzo.
• King e Andre presentano un universo linguistico compatto e chiuso, serafico.
• Judd e Flavin esercitano una perizia asciutta e appassionata nella loro rigidezza emotiva,
ostentano intransitabilità, ingovernabilità.
• Si nota, tenuta al guinzaglio dalla perfezione esigente delle forme e dei materiali, i Flanagan e in
Serra, un angoscia latente, come nostalgica di antiche regole estetiche.
Land Art Interventi sul territorio e proposte per l’ambiente
Nell’autunno del ’67 Michael Hiezer va a cercare Bob Scull, il re dei Taxi di New York,
collezionista all’ingrosso della Pop Art, e lo persuade a patrocinare la più paradossale operazione a
carattere artistico che sia mai stata attuata: sorvolare il deserto del Nevada per cercarvi un luogo da
trapanare. Heizer riesce a farsi finanziare uno scavo di più di mezzo chilometro, profondo 15 metri,
largo 10. Nasce la Land Art, è l’antiform.
I galleristi Virinia Dwann e John Weber abbracciano il nuovo esperimento e promuovono
manifestazioni in tal senso: tipica la grande rassegna del ’68 a New York, Earthworks con Bob
Morris. Dalla Minimal Art provengono anche altri artisti: Walter De Maria, Hans Haacke, Robert
Smithson.
A New York una nuova figura di editore è Seth Siegelaub, si interessa alla promozione degli
interventi sul territorio. Le università degli Usa diventano mecenati ufficiali e clienti della Land Art.
interviene anche Gerry Schum da Berlino che gira il cortometraggio Land Art. l’avanguardia
statunitense si chiede perché non prendere lo spazio tutto da qualche parte, perché non inserirsi nel
flusso di energia dell’ambiente, perché non intervenire nei grandi ecosistemi.
La Land Art arriva dall’America e questo ha dei significati, si individua un certo ottimismo
illumista di pura marca made in USA, che affida alla cultura sola il risanamento automatico dello
scandalo messo in luce dalle arti precedenti.
La Land Art è stata una sorta di tecnica magica, volta ad ottenere che sia mantenuta o conservata,
per l’uomo, una certa garanzia di salvezza nei confronti di queste forze.
Venne letta come cultura alternativa, proposta di un modo di vita non violento e non competitivo,
quasi come rieducazione delle nostre facoltà estraniate dalla società dei consumi, sembrava
soprattutto voler combattere la mercificabilità dell’opera d’arte attraverso lo svolgimento della
routin tradizionale.
È un approccio metafisico. Questo spazio serve a spartire con lo spettatore un contenuto noetico-
estetico-emozionale.
L’artista ecologico adopera la natura come brano di paesaggio, unicamente come luogo altro dal
consueto; esegue delle modificazioni, per le quali serve un superspazio per un paradiso artificiale.
Da questo momento subentrano i fattori del gioco e del rito, quasi totemismo. Torna il mito della
dominazione del caos originale da parte dell’uomo che si identifica con Dio.
La Land Art è stata una risposta allo stimolo della perdita della realtà, un tentativo di sottrarsi alla
costrizione mondana della quotidianità e a quella del distacco, una sorta di spazialismo maniacale,
di espansività invadente.
Arte Concettuale L’arte si interroga su se stessa
Sul finire degli anni ’60 si convenne di chiamare con il termine Concettuale quanto è investigazione
sull’idea stessa di arte.
Si discute su quanto sia corretto chiamare concettuali On Kawara, Sol LeWitt, Douglas Huebler,
David Lamelas, Carl Andre, Emilio Prini, Vincenzo Agnetti, Giulio Paolini ecc.
Rappresentanti indiscutibili sono: l’americano Joseph Kosuth fin dal ’66; gli inglesi della rivista
Art-Language; Victor Burgin, Bernard Venet, Jan Burn e Mel Ramsden.
A cavallo tra scienze esatte e discipline umanistiche i concettuali interrogano gli elementi l