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3. DALL'ITALIA GIOLITTIANA ALL'ASCESA DEL FASCISMO
Potere e informazione all'alba del XX secolo
Era stata ad esempio realizzata, in seguito a esperimenti avviati sin dal 1890 in Olanda e Boemia,
una macchina detta a rotocalco, che avrebbe impresso una vera a propria svolta alla stampa dei
periodici illustrati. Pochi anni dopo, nel 1904 l'americano Ira Rubel predispose un sistema, derivato
dalla tecnica litografica, per la stampa in offset. Anche per l'Italia la fine del XIX e l'inizio del XX
secolo coincisero con l'avvio di una stagione nuova per il mondo dell'informazione. I primi dieci
anni del secolo furono segnati da una crescente affermazione dei principi liberale e democratici, da
una nuova disciplina sociale nel campo del lavoro, da un processo di sviluppo economico tale da
consentire ad alcuni settori di popolazione, soprattutto urbani, di entrare come protagonisti nella
vita sociale e politica dello Stato. Dal punto di vista editoriale, in quegli anni si svilupparono alcuni
significativi processi di concentrazione, con il rafforzamento dei giornali a maggiore tiratura e la
progressiva limitazione del numero di quelli a vocazione provinciale, soprattutto del Meridione. Il
netto miglioramento dei bilanci pubblicitari permise di incrementare gli investimenti in macchinari
e innovazioni. All'inizio del Novecento le tirature assunsero per la prima volta dimensioni
significative, mentre alcune aziende editoriali, assumendo forme industriali, adottarono gestioni
improntate a criteri di efficienza e di programmazione delle risorse. Tra il 1902 e il 1903 vennero
installate le prime linee telefoniche tra Torino, Milano, Roma e Parigi, con il conseguente ingresso
in redazione degli stenografi. Le redazioni dei maggiori giornali del Nord iniziarono ad annoverare
figure come quelle del corrispondente, del cronista, del reporter, dell'inviato speciale, ma anche
nuovo personale amministrativo, correttori, operai-tipografi. I “professionisti” dell'informazione
iniziarono a rafforzare le proprie forme associative, regionali e nazionali, e lo stesso fecero gli
editori, con la fondazione, nel 1901, dell'Unione editori di giornali quotidiani. Il primo contratto
collettivo di lavoro dei giornalisti italiani fu stipulato l'11 giugno 1911; lo firmarono, in
rappresentanza degli editori, Olindo Malagodi e Giovanni Bagaini e, in rappresentanza dei
giornalisti, Garzia Cassola e Giulio Pacciarelli, oltre a Salvatore Barzilai e Giovanni Biadene,
rispettivamente presidente e segretario generale della Federazione nazionale della stampa italiana.
Formata da otto articoli fu il primo patto collettivo di categoria stipulato dai giornalisti italiani.
Naturalmente tutte queste trasformazioni non furono esenti da costi.
I grandi gruppi industriali, alle prese con le prime crisi di sovrapproduzione, con le crescenti
rivendicazioni, anche salariali, dei lavoratori e con un corpo politico e sociale trasformato dal
progressivo allargamento del suffragio, si trovarono a dover intraprendere, con il fondamentale
sostegno del settore bancario, nuove iniziative a tutela dei propri interessi, soprattutto attraverso
adeguate pressioni a mezzo stampa sui governi. Il Novecento si aprì con i tratti di un giornalismo di
certo molto vicino alla politica, ma anche al servizio degli interessi delle forze economiche e
finanziarie emergenti nel paese. Uno degli “investimenti” propagandistici su cui molti editoriali
puntarono in maniera particolare fu il sostegno alla guerra di Libia, dichiarato dal governo Giolitti il
19 settembre 1911. Con lo scoppio del conflitto italo-turco tutti i principali quotidiani inviarono sul
fronte uomini di alto livello professionale: il “Corriere della Sera” Luigi Barzini, “Il Secolo”
Corrado Zoli, “Il Mattino” Paolo Scarfoglio, “La Stampa” Giuseppe Bevione, “La Tribuna”
Giuseppe Piazza e Francesco Coppola. Pure il mondo giornalistico ne fu ampiamente coinvolto e
due suoi autorevoli rappresentate, Guelfo Civinini del “Corriere della Sera” e Mario Bassi della
“Stampa”, si guadagnarono persino una medaglia di bronzo al valor militare, per aver deciso di
unirsi spontaneamente alle forze attive sul fronte. Ci furono anche giornalisti italiani che si
sentirono in dovere di schierarsi compatti contro la stampa estera meno disposta ad avallare
l'aggressione italiana (es: Filippo Tommaso Marinetti e Umberto Boccioni).
Il “trust” della stampa cattolica
Con l'avvio del nuovo secolo anche la stampa cattolica si propose con un nuovo atteggiamento
rispetto allo Stato; essa si rese nel complesso disponibile a una definitiva accettazione dei “fatti
compiuti” e a un possibile accordo coi liberali, che consentisse un progressivo inserimento dei
cattolici nel sistema politico nazione (prospettiva che avrebbe trovato la sua tradizione politico-
elettorale nel Patto Gentiloni del 1913). Nel primo decennio del nuovo secolo prese le mosse, per
opera del conte Giovanni Grosoli, l'idea della costituzione di un trust editoriale, espressione anche
del desiderio di una parte del mondo cattolico di scendere decisamente sul terreno della stampa “di
informazione”. Grosoli era stato uno dei fondatori del quotidiano bolognese “L'Avvenire”, assieme
a Giovanni Acquaderni, che ne era divenuto primo direttore. Nel 1902 aveva ricevuto il mandato di
sostituire Giambattista Paganuzzi alla guide dell'Opera dei congressi, nella difficile fase che aveva
preceduto il suo scioglimento. Nel giugno 1907 Grosoli aveva deciso di tornare alla ribalta, dando
vita alla Società editrice romana (Ser), con l'obiettivo di creare un trust editoriale non direttamente
dipendente dalla gerarchia e capace di competere, per organizzazione e livello tecnico, con la
grande stampa liberale. In un breve volgere di tempo il trust grosoliano estese il suo controllo a
buona parte dei maggiori quotidiani cattolici dell'epoca: “L'Avvenire” di Bologna, “L'Italia” di
Milano, “Il Momento” di Torino, il “Corriere d'Italia” di Roma. Nel caso di quest'ultimo, il
quotidiano aveva tentato di diventare un organo di “penetrazione”, capace di misurarsi con il
mercato, di rivaleggiare con i quotidiani liberali, di offrire una informazione “varia, interessante” e
un notiziario “sempre fresco”; di trasformarsi in un “buon giornale”, per gli standard qualitativi del
periodo, aperto anche ai temi della politica nazione e internazionale.
Con l'andare del tempo, proprio questo approccio lo aveva tuttavia reso decisamente sospetto agli
occhi della Santa Sede, tanto da indurre il Primo dicembre 1912 Pio X a dichiararlo, attraverso
un'Avvertenza pubblicata sugli Acta Apostolicae Sedis, non conforme “alle direttive pontificie”.
Inoltre nella stessa condanna del dicembre 1912 furono coinvolti anche gli altri quotidiani del trust.
Dopo l'elezione al soglio pontificio di papa Benedetto XV la Ser, fu sostituita nel 1916 dall'Unione
editoriale italiana (Uei); ma una situazione di crescente dissesto rese inevitabile, il 30 settembre
1918, lo scioglimento definitivo di questa.
I giornali dei direttori
Luigi Albertini era approdato al “Corriere della Sera” nel 1896, prima come segretario di redazione,
poi come gerente responsabile. La sua definitiva consacrazione si era avuta nel maggio 1900,
quando aveva approfittato della temporanea assenza del debole direttore in carica, Domenico Oliva,
per far pubblicare sull'edizione del 18 un durissimo corsivo dal titolo “Uno sguardo al passato”, in
cui era duramente biasimata la politica liberticida del governo presieduto da Luigi Pelloux. Albertini
divenne poco dopo anche comproprietario del giornale a fianco di Benigno Crespi, Ernesto De
Angeli, Giovanni Battista Pirelli e Luca Beltrami. Ammiratore del giornalismo britannico e del
“modello Times”, dotato di un indubbio fiuto per i gusti del pubblico, egli diede vita a un nucleo
redazionale coeso, efficiente, meritocratico, in cui poco spazio era lasciato al caso e dove ogni
informazione era attentamente pesata e verificata. Potenziò le reti telefoniche, introdusse la linotype
e traslocò nel 1904 la sede del giornale in un grande stabilimento dove fece installare una
gigantesca rotativa modello Hoe, importata dagli Stati Uniti. Anche a livello internazionale il
quotidiano milanese assunse rapidamente il ruolo di modello di riferimento per tutta la stampa
italiana e il suo direttore quello di vero e proprio opinion leader. Soprattutto l'atteggiamento di fiera
opposizione al riformismo giolittiano e la sua vicinanza al modello conservatore della destra
cavouriana esercitarono un notevole peso sull'opinione pubblica dell'epoca.
A Roma “Il Giornale d'Italia” di Alberto Bergamini, fondato nel novembre 1901, si propose di
ripercorre le orme, compresa la linea antigiolittiana di conservatorismo illuminato, del grande
quotidiano milanese. Anche nel caso di Bergamini, che divenne socio accomandante e gerente
responsabile, si ricorse a una formula societaria simile a quella del “Corriere”, tale da garantire al
“direttore Co-editore” una certa indipendenza nelle scelte redazionali, politiche e amministrative.
Grazie al contributo di intellettuali di rilievo, come Giustino Fortunato, gaetano Mosca, Maffeo
Pantaleoni, Alfredo Oriani e ai suoi apprezzabili standard informativi, esso seppe rapidamente
garantirsi un'ottima diffusione, soprattutto al Centro-sud.
Durante il suo terzo ministero (1906-1909), Giolitti dovette tuttavia subire anche alcune defezioni,
totali o parziali, di giornali a lui precedentemente favorevoli, come “Il Popolo Romano”, “Il
Messaggero” e, se pur temporaneamente, “La Tribuna”; tutte circostanze che indussero lo statista
piemontese a intensificare i suoi interventi per “Indirizzare” con sempre maggiore forza
l'informazione, anche attraverso i finanziamenti occulti. Anche Antonio Salandra, l'uomo che
subentrando a Giolitti condusse il paese al primo conflitto mondiale, fece ampio ricorso ai fondi
segreti per finanziare la stampa, sebbene le somme disponibili non fossero, a suo dire,
particolarmente ingenti. Tornando a Giolitti, con il trascorrere del tempo egli dovette fronteggiare la
crescente influenza di alcune testate che finirono poi per contrastarne duramente la linea. Solo “La
Stampa” di Torino mantenne sino alla fine il proprio sostanziale appoggio alla politica giolittiana,
sia pure nell'ambito degli spazi di indipendenza che tradizionalmente caratterizzavano
l'atteggiamento del suo direttore Alfredo Frassati. Temperamento vigoroso, attratto dalle scienze
economiche e sociali e in parte anche dalle teorie positiviste, Frassati accolse al suo giornale
intellettuali di valore, a partire da Luigi Einaudi, Francesco Saverio Nitti, Cesare Lombroso,
Gaetano Mosca. Impose inoltre una decisa modernizzazione tec